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DISCORSO DI WISTON CHURCHILL PER IL V-DAY

DISCORSO DI WISTON CHURCHILL PER IL V-DAY
8 maggio 1945


Giovedì scorso si compirono cinque anni dacché Sua Maestà il Re mi incaricò di formare un Governo Nazionale di tutti i partiti per condurre i nostri affari. Cinque anni sono un lungo periodo nella vita di un uomo, specie quando non c’è possibilità di condono per buona condotta. Comunque, il Governo Nazionale fu sostenuto dal Parlamento e dall’intera nazione britannica in patria e da tutti i nostri combattenti all’estero, e dall’indefettibile cooperazione dei lontani Domini oltre gli oceani e del nostro Impero in ogni parte del globo. Dopo vari episodi apparve chiaro la settimana scorsa che finora le cose sono andate piuttosto bene, e che il Commonwealth e Impero britannico è oggi più unito e potente che in qualunque altro momento della sua lunga e tormentata storia. Noi siamo certo — e questo lo potrà bene ammettere, credo, qualunque persona equanime — in condizioni molto migliori per affrontare i problemi e i pericoli del futuro che non cinque anni fa.

 

 

Wiston Churchill durante il discorso per il V-Day

 

 

Per qualche tempo il nostro nemico capitale, il nostro poderoso nemico, la Germania, sommerse quasi tutta l’Europa. La Francia, che ebbe a sopportare uno sforzo così spaventoso nell’ultima grande guerra, fu prostrata e le occorse qualche tempo per riaversi. I Paesi Bassi, combattendo allo stremo delle forze, furono soggiogati. La Norvegia fu travolta. Mussolini ci pugnalò alla schiena quando eravamo, come credeva lui, agli ultimi respiri. Tranne per noi stessi — voglio dire la nostra gente, il Commonwealth e Impero britannico — eravamo assolutamente soli.

 

In luglio, agosto e settembre 1940 quaranta o cinquanta squadriglie di aerei da caccia britannici nella Battaglia d’Inghilterra ruppero i denti alla flotta aerea tedesca, combattendo contro forze sette o otto volte superiori. Mi sia concesso ripetere ancora le parole che usai in quell’ora grave: «Mai nel campo dei conflitti umani un debito cosi grande fu contratto da tanti verso cosi pochi ». Il nome del primo maresciallo dell’Aria lord Dowding andrà sempre congiunto a questa splendida impresa. Ma accanto alla R.A.F. stava la regia marina, sempre pronta a fare a pezzi i barconi, raccolti dai canali d’Olanda e del Belgio, con i quali soltanto si sarebbe potuta trasportare un’armata tedesca d’invasione. Io non fui mai uomo da credere che l’invasione della Gran Bretagna, con l’attrezzatura che il nemico aveva a quell’epoca, fosse impresa molto facile. con le tempeste d’autunno l’immediato pericolo d’invasione per il 1940 passò.

 

Poi cominciò il Blitz, quando Hitler disse che avrebbe «raso al suolo le nostre città». Sono proprio le sue parole, «raso al suolo le nostre città». Questo Blitz fu sopportato senza una parola di lamento e senza il minimo segno di debolezza, mentre un vastissimo numero di persone — sia onore a esse tutte — dimostrò che Londra sapeva “incassare”, e così pure gli altri nostri centri devastati. Ma l’alba del 1941 ci trovò ancora in pericolo. Gli apparecchi nemici potevano ancora penetrare nei cieli della nostra isola, dove quarantasei milioni di persone dovevano importare metà del loro pane quotidiano e tutti i materiali occorrenti per gli usi bellici e civili. Questi apparecchi nemici potevano, partendo da Brest, attraversare il nostro territorio, raggiungere la Norvegia e rientrare alla base in un solo volo. Potevano osservare tutti i movimenti del nostro naviglio in arrivo e in partenza dalla Clyde e dalla Mersey, e dirigere contro i nostri convogli i sommergibili, sempre più numerosi, di cui il nemico cospargeva l’Atlantico e che ora — i superstiti di essi, o i successori — vengono raccolti in porti britannici.

 

 

Wiston Churchill e la famiglia reale rispondono alle acclamazioni della folla l'8 maggio 1945

 

 

Ci pesava addosso greve il senso dell’accerchiamento, che da un momento all’altro poteva diventare strangolamento. Avevamo aperta soltanto la rotta di Nord-Ovest fra l’Ulster e la Scozia ai movimenti della nostre forze navali e all’afflusso dei rifornimenti. In seguito all’azione svolta dal Governo di Dublino, tanto discorde dal temperamento e istinto di migliaia di irlandesi meridionali che accorsero al fronte di combattimento per comprovare il loro antico valore, i tratti di costa che porti e aeroporti dell’Irlanda meridionale avrebbero potuto cosi facilmente guardare furono bloccati dagli aerei e dai sommergibili nemici. Questo fu davvero un momento cruciale della nostra storia, e se non fosse stato per la fedeltà e amicizia degli irlandesi del Nord saremmo stati costretti ad accettar battaglia ravvicinata sotto pena di sparire per sempre dalla terra. Tuttavia, con una moderazione e un equilibrio che, affermo, trovano pochi riscontri nella storia, il Governo di Sua Maestà non usò mai violenza a questa gente, sebbene a volte sarebbe stato facilissimo e naturalissimo, e noi lasciammo il Governo di Dublino a trastullarsi quanto gli pareva coi tedeschi e in seguito coi rappresentanti giapponesi.

 

Ma pensando a quei giorni ricordo anche altri episodi e personalità. Penso al tenente-comandante Esmonde, Victoria Cross, al caporale Kenneally, V. C., e al capitano Fegen, V. C., e ad altri eroi irlandesi di cui ho i nomi a fior di labbra, e allora debbo confessare che l’amarezza britannica contro la razza irlandese muore nel mio cuore. Posso soltanto pregare che in anni che io non vedrò la vergogna sia dimenticata e perdurino le glorie, e che i popoli delle Isole britanniche e del Commonwealth britannico camminino affiancati in spirito di reciproca comprensione e perdono.

 

Amici miei, quando la nostra mente si volge agli approcci di Nord Ovest non dimenticheremo la devozione dei nostri marinai mercantili, né i nostri dragamine in missione ogni notte e tanto raramente citati nei titoli di giornale. Né dimenticheremo la forza grande, inventiva, duttile, onnipresente, e alla fine onnipotente della regia marina, con la sua nuova e sempre piú poderosa alleata, l’aviazione. Esse ci hanno tenuto aperta la strada vitale. Noi potemmo respirare; potemmo vivere; potemmo colpire. Truci gesta dovemmo compiere. Dovemmo distruggere o catturare la flotta francese, che se fosse passata indenne in mani tedesche avrebbe forse, insieme alla flotta italiana, messo la marina tedesca in grado di affrontarci in alto mare. Lo facemmo. Dovemmo inviare al generale Wavell, girando il Capo, nella nostra ora più buia, i carri armati — praticamente tutti quelli che ci restavano nell’Isola — e ciò ci consenti fin dal novembre 1940 di difendere l’Egitto contro l’invasione e ributtare, infliggendo loro sanguinosissime perdite e catturando circa 250.000 prigionieri, le armate italiane in coda alle quali Mussolini aveva già progettato di fare il suo ingresso equestre al Cairo o in Alessandria.

 

 

Londra, 8 maggio 1945 la folla ascolta il discorso di Churchill

 

 

Grande ansia travagliò il Presidente Roosevelt, e anzi ogni essere pensante in tutti gli Stati Uniti, per quello che ci poteva accadere nella prima parte del 1941. Il Presidente sentiva nel più profondo dell’animo che la distruzione della Gran Bretagna non sarebbe stata soltanto un fatto spaventevole in sé, ma avrebbe esposto a pericolo mortale le vaste e fino a quel momento quasi inermi potenzialità e il destino stesso degli Stati Uniti. Egli temeva grandemente che noi venissimo invasi in quella primavera del 1941, e senza dubbio aveva alle sue spalle una consulenza militare fra le migliori del mondo, e mi inviò il suo recente avversario nelle elezioni presidenziali, il fu sig. Wendell Willkie, con una lettera in cui egli aveva vergato di suo pugno i famosi versi di Longfellow che citai l’altro giorno alla Camera dei Comuni.

 

Noi però eravamo abbastanza agguerriti per i primi mesi del 1941, e ci sentivamo molto più sicuri di noi stessi che non nei mesi immediatamente successivi al crollo della Francia. La nostra armata di Dunkerque e le truppe di linea dislocate in Gran Bretagna, complessivamente quasi un milione di uomini, erano quasi del tutto equipaggiate o riequipaggiate. Avevamo trasportato attraverso l’Atlantico un milione di fucili e un migliaio di cannoni dagli Stati Uniti, con tutte le relative munizioni, fin dal giugno precedente. Nelle nostre fabbriche d’armi e munizioni, che si andavano facendo potentissime uomini e donne avevano lavorato ai loro macchinari fino a cadere esausti di fatica. Quasi un milione di uomini, saliti in seguito a due, pur lavorando tutto il giorno erano stati inquadrati nella Guardia metropolita. Brano armati di fucili, almeno, e di questo spirito: “Vincere o morire!”.

 

Più tardi nel 1941, quando eravamo ancora soli, sacrificammo involontariamente, e un po’ anche inavvertitame1te, le nostre conquiste invernali di Cirenaica e Libia per schierarci a fianco della Grecia; e la Grecia non dimentiche mai quanto allora demmo, seppur invano, del poco che avevamo. Lo facemmo per l’onore. Reprimemmo l’insurrezione irachena fomentata dai tedeschi. Difendemmo la Palestina. Con l’aiuto degli indomabili “francesi liberi” del generale De Gaulle ripulimmo la Siria e il Libano dai reparti della Francia di Vichy e dagli aviatori e intriganti tedeschi. E poi nel giugno 1941 accadde un altro fatto straordinario, di portata mondiale.

 

 

Inghilterra 8 maggio 1945 celebrazioni del V-Day

 

 

Voi avrete indubbiamente notato leggendo la storia britannica — e spero che vi darete la pena di leggerla, poiché è soltanto dal passato che si può giudicare il futuro, ed è soltanto leggendo la storia della nazione britannica, dell’Impero britannico, che potrete avvertire un fondato senso d’orgoglio nell’essere abitanti di queste isole — avrete talvolta notato che a volte ci è toccato resistere da soli, o far da perno di coalizioni contro un tiranno o dittatore continentale, e che ci è toccato resistere assai a lungo: contro l’Armada spagnola, contro la forza di Luigi XIV, allorché guidammo l’Europa per quasi venticinque anni sotto Guglielmo III e Marlborough e centocinquant’anni fa, quando Nelson, Pitt e Wellington fiaccarono Napoleone non senza l’aiuto degli eroici russi del 1812. In tutte queste guerre mondiali la nostra Isola fu alla testa dell’Europa, oppure resistette da sola.

 

E se resistere da soli per un tempo sufficiente viene sempre il momento in cui il tiranno commette qualche spaventoso errore che fa tracollare la bilancia della lotta. Il 22 giugno 1941 Hitler, padrone qual si credeva di tutta l’Europa — anzi, addirittura prossimo padrone del mondo, così credeva lui proditoriamente senza preavviso, senza la minima provocazione, si lanciò contro la Russia e si trovò a faccia a faccia col Maresciallo Stalin e con gli innumerevoli milioni di russi. E poi alla fine dell’anno il Giappone aggredì proditoriamente gli Stati Uniti a Pearl Harbor, e contemporaneamente noi in Malesia e a Singapore. Al che Hitler e Mussolini dichiararono la guerra alla Repubblica degli Stati Uniti.

Da allora sono passati anni. In verità, ognuno di questi anni mi sembra un decennio. Ma dacché gli Stati Uniti entrarono in guerra io non ebbi mai il minimo dubbio che ei saremmo salvati, e che ei bastava compiere il nostro dovere per vincere. Noi abbiamo svolto la nostra parte in questo processo storico nel quale sono stati schiacciati i malfattori; e spero di non usare parole vanitose o spaccone, ma da Alamein nell’ottobre 1942, attraverso l’invasione anglo-americana del Nord Africa, della Sicilia, dell’Italia, con la presa di Roma, noi marciammo per molte miglia e non conoscemmo mai la sconfitta. E poi l’anno scorso, dopo due anni di preparativi pazienti e meravigliosi ritrovati di guerra anfibia — e badate bene, i nostri scienziati sono insuperati in tutte le nazioni del mondo, specie quando il loro pensiero si applica alle questioni navali l’anno scorso il 6 giugno noi conquistammo un minuscolo alluce, accuratamente prescelto, della Francia occupata dai tedeschi e vi riversammo milioni di soldati da quest’Isola e da oltre Atlantico, finché la Senna, la Somme, e il Reno caddero tutti nella scia delle avanguardie angloamericane avanzanti. La Francia era liberata. Essa produsse una bella armata di valorosi per aiutare la propria liberazione. La Germania scopriva il fianco.

 

Ora dall’altra parte i poderosi successi militari del popolo russo, il quale impegnò sempre sul suo fronte molte più truppe tedesche di quanto potessimo fare noi, dilagarono a incontrarci nel cuore della Germania.

 

Al tempo stesso in Italia l’esercito del feldmaresciallo Alexander, formato da tante nazionalità, ma per la maggior parte di britannici o di appartenenti all’Impero britannico, sferrava il colpo finale e costringeva alla resa oltre un milione di soldati nemici. Questo 15° gruppo di armate, come lo chiamiamo, composto di britannici e americani in proporzioni quasi eguali, si trova ora nel cuore dell’Austria, a dar la mano destra ai russi e la sinistra alle armate statunitensi comandate dal generale Eisenhower. È accaduto, come ricorderete — ma la memoria è breve — che nello spazio di tre giorni ricevessimo la notizia dell’illacrimata dipartita di Mussolini e Hitler, e che in tre giorni pure si arrendessero al feldmaresciallo Alexander e al feldmaresciallo Montgomery oltre due milioni e cinquecentomila soldati di questo terribile agguerrito esercito tedesco.

 

 

Personale della RAF celebra il V-Day

 

 

Voglio mettere in chiaro a questo punto che noi non abbiamo mai misconosciuto l’immensa superiorità delle forze impiegate dagli Stati Uniti nella liberazione della Francia e nella sconfitta della Germania. Per parte nostra, noialtri britannici e canadesi abbiamo impegnato colà un terzo degli uomini impegnativi dagli americani, ma abbiamo sostenuto in pieno la nostra parte di combattimenti, come lo dimostra l’entità delle perdite. La nostra marina ha sostenuto di gran lunga il peso maggiore nell’oceano Atlantico, nei mari chiusi e nei convogli artici per la Russia, mentre la marina americana doveva usare la sua forza immensa soprattutto contro il Giappone. Ci siamo equamente divisi il lavoro, e possiamo entrambi annunciare che la nostra opera è compiuta o quasi compiuta. È giusto e naturale che noi esaltiamo i meriti e i gloriosi servigi dei nostri più famosi comandanti, Alexander e Montgomery, mai sconfitti dacché esordirono assieme ad Alamein. Entrambi hanno condotto in Africa, in Italia, in Normandia e in Germania grandi battaglie che hanno avuto carattere decisivo. Al tempo stesso sappiamo quanto grande sia il nostro debito verso l’opera integratrice e unificatrice e l’alta direzione strategica del generale Eisenhower.

 

Ed ora è tempo che io renda il mio tributo personale ai capi di Stato Maggiore britannici, coi quali ho lavorato a strettissimo contatto per tutti questi anni grevi e tempestosi. Ben pochi avvicendamenti ci sono stati in questo piccolo, potente e capace organismo di uomini i quali, buttando a mare tutte le divergenze tra le varie Armi e giudicando i problemi della guerra come un tutto unico, hanno cooperato in perfetta armonia. Col feldmaresciallo Brooke, con l’ammiraglio Pound, cui succedette alla sua morte l’ammiraglio Andrew Cunningham, e col maresciallo dell’Aria Portal, si formò una squadra che meritò ii massimo onore nella direzione di tutta la strategia bellica britannica e nei suoi rapporti con quella dei nostri Alleati.

 

Si può ben dire che la nostra strategia fu condotta in modo tale che le migliori combinazioni, la più stretta concertazione, furono impartite alle operazioni dagli Stati Maggiori combinati della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, ai quali, da Teheran in poi, si collegarono i capi militari della Russia. E si può anche dire che mai le forze di due nazioni hanno combattuto a fianco a fianco fondendosi nelle linee di combattimento con tanta unità, cameratismo e fratellanza come nelle grandi armate anglo-americane. Certa gente dice: «Bene, che cosa vi aspettavate, se entrambe le nazioni parlano la stessa lingua, hanno in comune gran parte della loro storia, e condividono in larga misura la loro visione della vita, con tutte le sue speranze e le sue glorie? Non era appunto la cosa più ragionevole da aspettarsi?». E altri potranno dire: «Sarebbe un brutto giorno per il mondo e per entrambe le nazioni se non seguitassero a lavorare assieme e marciare assieme e navigare assieme e volare assieme, dovunque vi sia da fare qualcosa per la causa della libertà e del fair play in tutto il mondo. Questa è la grande speranza dell’avvenire».

 

 

Felixstowe 13 maggio 1945 resa di motosiluranti tedesche

 

 

C’è stato un ultimo pericolo da cui ci ha salvato il crollo della Germania. A Londra e nelle contee sud-orientali abbiamo sofferto per un anno l’offesa di vari tipi di bombe volanti — forse ne avete sentito parlare — e di razzi, e la nostra aviazione e le nostre batterie antiaeree hanno fatto miracoli contro di essi. L’aviazione in particolare tempestivamente messa in moto in base a quelli che allora sembravano indizi lievissimi e dubbi, intralciò e ritardò grandemente tutti i preparativi tedeschi. Ma fu soltanto quando le nostre armate rastrellarono la costa e occuparono tutte le basi di lancio, e quando gli americani catturarono vasti depositi di razzi d’ogni specie presso Lipsia, notizia che solo ier l’altro venne ad arricchire le conoscenze già da noi possedute in proposito, e quando tutti i preparativi in corso lungo le coste francesi e olandesi poterono essere minutamente esaminati, con minuzia di particolari scientifici, che sapemmo quanto fosse stato grande il pericolo, non solo dei razzi e delle bombe volanti, ma dell’artiglieria multipla a lunga gittata che si stava apprestando contro Londra. Gli Alleati fecero appena appena in tempo a schiacciare la vipera nel suo nido. Altrimenti l’autunno dei 1944, per non parlare di quello dei 1945, avrebbe potuto vedere Londra dilaniata come Berlino.

 

Per lo stesso periodo i tedeschi avevano preparato una nuova flotta sottomarina con una tattica nuova che, sebbene prima o poi destinata a essere da noi sconfitta, avrebbe potuto ben riportare la guerra anti-sommergibile alle convulse giornate dei 1942. Quindi dobbiamo esultare e ringraziare, non solo di esserci salvati quando eravamo soli, ma della nostra tempestiva liberazione da nuove sofferenze, da nuovi pericoli non facili a misurarsi.

Vorrei potervi dire stasera che tutte le nostre fatiche e i travagli sono finiti. Allora invero potrei terminare felicemente i miei cinque anni di servizio e, se voi riteneste di averne avuto abbastanza di me e che fosse ora di passarmi in aspettativa, io l’accetterei di buon grado. Ma al contrario debbo avvertirvi, come feci quando iniziai questo compito quinquennale — e allora nessuno sapeva che sarebbe durato così a lungo — che c’è ancora molto da fare, e che dovete prepararvi a ulteriori sforzi di mente e di corpo e a ulteriori sacrifici per grandi cause se non volete ricadere nel binario dell’inerzia, nella confusione di intenti e nella timida paura di essere grandi. Voi non dovete indebolirvi in modo alcuno nel vostro vigile e teso atteggiamento mentale. Sebbene l’esultanza delle feste sia necessaria allo spirito umano, pure essa deve incrementare la forza e il potere di ricupero con cui ogni uomo, ogni donna torna al lavoro assegnato, e anche alla sorveglianza da dedicare agli affari pubblici.

 

Nel continente europeo noi dobbiamo ancora accertarci che i semplici e onorevoli scopi per i quali entrammo in guerra non siano spazzati in un canto o trascurati nei mesi susseguenti al nostro successo, e che le parole “libertà”, “democrazia” e “liberazione” non vengano deformate nel loro vero significato quale abbiamo sempre inteso. Ben poco gioverebbe punire gli bitleriani dei loro crimini se la legge e la giustizia non regnassero, e se Governi totalitari o di polizia dovessero prendere ii posto degli invasori germanici. Noi non vogliamo niente per noi stessi; ma dobbiamo accertarci che le cause per le quali ci siamo battuti trovino un riconoscimento al tavolo della pace nei fatti non meno che nelle parole, e soprattutto dobbiamo adoperarci a garantire che l’Organizzazione Mondiale che le Nazioni Unite stanno creando a San Francisco non diventi un nome ozioso, non diventi uno scudo per i forti e una beffa per i deboli. Sono i vincitori che debbono interrogare il proprio cuore nelle loro ore fulgide, e rendersi degni con la loro nobiltà delle forze immense che manovrano.

 

 

Wilhelmshaven 13 maggio 1945 resa degli U-boot

 

 

Non dobbiamo mai dimenticare che dietro tutto si acquatta il Giappone, tempestato e in declino, ma pur sempre un popolo di cento milioni, per i cui guerrieri la morte ha ben pochi terrori. Non posso dirvi stasera quanto tempo o quanti sforzi si richiederanno per costringere i giapponesi a pagare il flo del loro odioso tradimento e crudeltà. Noi pure come la Cina, cosi a lungo indomita, ne abbiamo ricevuto colpi terribili, e siamo impegnati da vincoli di onore e lealtà fraterna verso gli Stati Uniti a combattere al loro fianco questa grande guerra all’altro capo dei mondo senza esitazioni o mancamenti. Dobbiamo ricordarci che l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada sono stati e sono tuttora direttamente minacciati da questa malvagia Potenza. Questi Domini sono venuti in nostro aiuto nei nostri momenti bui, e noi non dobbiamo lasciare incompiuto alcun compito che interessi la loro sicurezza e il loro avvenire. Vi dissi cose dure al principio di questi cinque anni; voi non vi tiraste indietro, e io sarei indegno della vostra fiducia e generosità se non gridassi ancora: Avanti, incrollabili, inflessibili, indomabili, finché l’intero compito non sia assolto e il mondo intero non sia salvo e pulito.

 

 

CREDITO
Wiston Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, parte VI, vol. II, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1953, pp. 400-407

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