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Dal 25 luglio all'8 settembre - 8

COMUNICATO UFFICIALE DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DEL REICH

SUI PRECEDENTI DELLA CAPITOLAZIONE ITALIANA

11 settembre 1943

 

 

Il Ministro degli Esteri del Reich comunica:

 

1. Il 1° settembre 1943 ebbe luogo un colloquio tra il ministro de­gli Affari Esteri, Guariglia, e l'incaricato di affari germanico a Roma, dot­tor Rahn. Il rappresentante germanico riferì telegraficamente lo stesso gior­no quanto segue: “Durante il mio colloquio odierno Guariglia dichiarò: il governo di Badoglio è deciso come finora di non capitolare e di conti­nuare la guerra al fianco della Germania. Metterò tutta la mia energia a disposizione per realizzare questa decisione, che condurrà ad una collabo­razione militare sempre più stretta e conseguente”.

 

2. Il 3 settembre l'incaricato d'affari tedesco comunicò quanto segue: “Il maresciallo Badoglio mi ha pregato oggi di andare da lui e mi ha dichiarato che, visti gli sbarchi nemici in Calabria, ci teneva ad assicu­rarci che popolo ed esercito, nonostante le scosse degli ultimi giorni, erano fermamente in mano del governo. Egli pregò di dargli la mia fiducia. Aggiunse testualmente: Io sono il maresciallo Badoglio ed io Vi convin­cerò coi fatti che non era giusto non avere fiducia in me. Naturalmente il desiderio di pace nel popolo, specialmente fra le donne, è grande, ma noi combatteremo e non capitoleremo mai”. Le parole anzidette vennero pronunciate dal maresciallo Badoglio il 3 settembre, cioè il giorno nel quale egli firmava la capitolazione delle Forze armate italiane.

 

3. Il 4 settembre l'incaricato di affari germanico ebbe un colloquio con il Comandante supremo delle Forze armate italiane, generale Ambro­sio. L'incaricato d'affari germanico riferì in proposito: “Il generale Am­brosio si è lamentato vivamente che da parte tedesca non gli venga più espressa la fiducia che corrisponderebbe al cameratismo italo-tedesco. Il generale Ambrosio accentuò, con molta energia, che egli è sempre ani­mato dalla volontà ferma e sincera di continuare la guerra in comune. Mi ha pregato di intervenire presso le autorità militari germaniche, perché si venga a un amichevole e più intenso scambio di idee. Il passo del tutto straordinario di Ambrosio mi ha dato l'impressione che egli cercasse di convincermi che era deciso di continuare la guerra in comune”.

 

4. L'8 settembre il rappresentante del Reich, ministro dr. Rahn, venne ricevuto dal Re Vittorio Emanuele per la sua visita ufficiale di pre­sentazione. Il rapporto telegrafico del ministro così si esprimeva: “Duran­te la mia odierna visita, il Re Vittorio Emanuele mi ha parlato anzitutto della situazione generale militare. Egli segue attentamente i combattimenti al fronte orientale, ammira lo spirito combattente delle truppe tedesche, la loro tradizione militare, l'organizzazione e l'armamento, che purtroppo l'esercito italiano non ha mai raggiunto. Per quanto riguarda la situazione in Italia, egli spera che il governo del Reich si sarà convinto nel frattempo della buona volontà e della fedeltà di alleato del governo Badoglio e dell’esercito italiano e che la fiduciosa collaborazione militare avviata negli ultimi giorni porterà i suoi frutti. L'Italia non capitolerà mai. Quanto ad alcune mende che sono rimaste, è convinto che presto spariranno. Bado­glio è un bravo vecchio soldato, a cui riuscirà certamente con tattica ela­stica di arrestare la pressione delle sinistre, le quali dopo venti anni di esclusione dalla vita nazionale, credono venuta la loro ora. Al termine della conversazione il Re ha sottolineato di nuovo la decisione di conti­nuare fino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l'Italia e legata per la vita e per la morte”.

Queste dichiarazioni furono fatte dal Re l'8 settembre a mezzogiorno, cioè lo stesso giorno nel cui pomeriggio gli americani resero nota la capi­tolazione dell'esercito italiano, conclusa il 3 settembre.

 

5. Allorché l'8 settembre alle 17,45 l'incaricato d'affari germanico ap­prese dalla radio americana che la capitolazione delle Forze armate ita­liane era un fatto compiuto, si mise in relazione telefonica col capo di Stato maggiore Roatta. Questi, alla domanda dell'incaricato d'affari che cosa significasse l'annuncio di quella radio, rispose testualmente: “Questa comunicazione di New York è una sfacciata menzogna della propaganda inglese, che io devo respingere con indignazione”. La stessa risposta rice­vette l'incaricato d'affari tedesco subito dopo al telefono dal rappresentante del ministero degli Esteri, ambasciatore Rosso. Questi aggiunse che avrebbe fatto smentire categoricamente quella truffa.

 

6. L'8 settembre sera, poco dopo le ore 19, il ministro degli affari Esteri Guariglia fece venire l'incaricato d'affari germanico, il quale diede il seguente rapporto sul colloquio: "Il ministro degli Affari Esteri, Guari­glia, mi ha ricevuto oggi poco dopo le 7 e mi ha comunicato in presenza dell'ambasciatore Rosso: ‘Devo dichiararvi che il maresciallo Badoglio, vista la situazione militare disperata, è stato costretto a chiedere un armistizio’. Io risposi: ‘Questo è tradimento alla parola data’. Guariglia: ‘Io protesto contro la parola tradimento’. Io: ‘Io non accuso il popolo italiano, ma coloro che hanno tradito il suo onore e vi dico che questo tradimento sarà di grave peso sulla storia dell'Italia. Il Re mi ha detto ancora oggi che l'Italia, fedele alla parola data, continuerà la lotta a fianco della Germania. Il maresciallo Badoglio mi ha dato la stessa assicurazione. Ora è provato che cosa valga la parola del Re e del maresciallo’. Subito dopo senza salu­tare ho lasciato il ministro degli Esteri”.

 

 

 

 

 

DISCORSO PRONUNCIATO DA RADIO MONACO DI BAVIE­RA

DA MUSSOLINI

18 settembre 1943 sera

 

 

Camicie Nere, italiani ed italiane,

 

Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce; sono sicuro che la riconoscerete; è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e che ha cele­brato con Voi le giornate trionfali della Patria.

 

Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi, perché dopo un periodo di isolamento morale, era necessario, che riprendessi contatto col mondo.

 

La radio non ammette lunghi discorsi.

 

Senza ricordare per ora i precedenti vengo al pomeriggio del 25 luglio nel quale accadde quella che nella mia già abba­stanza avventurosa vita è la più nera delle avventure.

 

Il colloquio che io ebbi col re a Villa Savoia durò 20 mi­nuti e forse meno.

 

Trovai un uomo col quale ogni ragionamento era impos­sibile poiché egli aveva già preso le sue decisioni; lo scoppio, della crisi era imminente.

 

È già accaduto, in pace e in guerra, che un ministro sia dimissionario, un comandante silurato, ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per ventun anni servito il re con assoluta, dico assoluta lealtà, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del re, costretto a salire su una autoambulanza della Croce Rossa col pretesto di sottrarlo ad un complotto e condotto a tutta velo­cità prima in una poi in un'altra caserma dei carabinieri.

 

Ebbi subito l'impressione che la protezione non era in verità che un fermo. Tale impressione crebbe quando da Roma fui condotto a Ponza, e successivamente mi convinsi, attra­verso le peregrinazioni da Ponza alla Maddalena e dalla Mad­dalena al Gran Sasso che il piano progettato contemplava la. consegna della mia persona al nemico.

 

Avevo però la netta sensazione, pur essendo completa­mente isolato dal mondo, che il Führer si preoccupava della mia sorte. Göring; mi mandò un telegramma più che camera­tesco, fraterno; più tardi il Führer mi fece pervenire una edi­zione veramente monumentale dell'opera di Nietzsche. La pa­rola fedeltà ha un significato profondo, inconfondibile, vor­rei dire, eterno, nell'anima tedesca. È la parola che nel collet­tivo e nell'individuale riassume il mondo spirituale germa­nico. Ero convinto che ne avrei avuto la prova.

 

Conosciute le condizioni dell'armistizio, non ebbi più un minuto di dubbio circa quanto si nascondeva nel testo dell'ar­ticolo 12. Del resto, un alto funzionario mi aveva detto: « Voi siete un ostaggio » .

 

Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemici non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani. C'era nell'aria limpida, attorno all'imponente cima del monte, una specie di
aspettazione. Erano le 14quando vidi atterrare il primo aliante, poi, successivamente, altri, quindi squadre di uomini avanzarono verso il rifugio, decisi a spezzare qualsiasi resistenza. Le guardie che mi vigilavano lo capirono e non un colpo partì.
Tutto è durato 5 minuti: l'impresa rivelatrice dell'organizzazione e dello spirito d'iniziativa dei germanici rimarrà memorabile nella storia della guerra; col tempo diverrà leggendaria.

Qui finisce il carpitolo che potrebbe essere chiamato il mio dramma personale, ma esso è un ben trascurabile episodio di fronte alla spaventosa tragedia in cui il governo democratico, liberale e costituzionale del 25 luglio ha gettato l'intera Nazione. Non credevo, in un primo momento, che il governo del 25 luglio avesse programmi così catastrofici nei confronti del Partito, del Regime, della Nazione stessa, ma dopo pochi giorni le prime misure indicavano che era in atto l'applicazione di un programma tendente a distruggere l'opera compiuta dal Regime durante venti anni e a cancellare venti anni di storia gloriosa che aveva dato all'Italia un Impero ed un posto che non aveva mai avuto nel mondo.

 

Oggi, davanti alle rovine, davanti alla guerra che conti­nua — noi spettatori sul nostro territorio — taluno :vorrebbe sottilizzare per cercare formule di compromesso e attenuanti per quanto riguarda le responsabilità, e quindi continuare nell’equivoco.

 

Mentre rivendichiamo in pieno le nostre responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri, a cominciare dal capo dello Stato, essendosi scoperto, che, non avendo abdicato, come la maggioranza degli italiani si attendeva, egli può e deve essere chiamato direttamente in causa. E così la stessa dina­stia, che durante tutto il periodo della guerra, pur avendola il re dichiarata, è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca. Il suo disinteresse all'andamento della guerra, le prudenti, e non sempre prudenti, riserve men­tali si prestavano a tutte le speculazioni del nemico mentre l'erede, che pur aveva voluto assumere il comando delle ar­mate del Sud, non comparve mai sui campi di battaglia.

 

Sono ora più che mai convinto che Casa Savoia ha vo­luto, preparato ed organizzato, anche nei minimi dettagli, il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli ed imboscati e taluni invigliacchiti elementi del Fascismo. Non, può esistere alcun dubbio che il re ha auto­rizzato, subito dopo la mia cattura, le trattative dell'armisti­zio, trattative che, forse, erano già incominciate tra le due di­nastie di Roma e di Londra.

 

È stato il re che ha consigliato i suoi complici di ingan­nare nel modo più miserabile la Germania, smentendo anche dopo la firma che trattative fossero in corso. E il complesso dinastico che ha premeditato ed eseguito le demolizioni del Regime che, pur venti anni fa, l'aveva salvato, e creato il po­tente diversivo interno in base al ritorno allo Statuto del 1848 ed alla libertà protetta dallo stato d'assedio.

 

Quanto alle condizioni dell'armistizio che dovevano es­sere generose, sono tra le più dure che la storia ricordi. Il re non ha fatto obiezioni di sorta nemmeno — ben inteso — per quanto riguardava la premeditata consegna della mia per­sona al nemico. È il re che ha, con il suo gesto, dettato dalla preoccupazione per l'avvenire della sua corona, creato all'Ita­lia una situazione di caos, di vergogna interna che, si riassume nei seguenti termini: in tutti i continenti, dall'estrema Asia all'America, si sa che cosa significhi tener fede ai patti da parte di Casa Savoia.

 

Gli stessi nemici, ora che è stata accettata la vergognosa capitolazione, non ci nascondono il loro disprezzo né potrebbe accadere diversamente. L'Inghilterra, ad esempio, che nessuno pensava di attaccare, e specialmente il Führer non pensava di farlo, è scesa in campo secondo le affermazioni di Churchill per la parola data alla Polonia.

 

D'ora innanzi può accadere che anche nei rapporti privati ogni italiano sia sospettato. Se tutto ciò portasse conseguenze solo a danno dei responsabili, il male non sarebbe grave; ma non bisogna farsi illusioni: tutto ciò viene scontato dal po­polo italiano, dal primo all'ultimo dei suoi cittadini.

 

Dopo l'onore compromesso, abbiamo perduto, oltre i ter­ritori metropolitani occupati e saccheggiati dal nemico, anche e forse per sempre le nostre posizioni adriatiche, ioniche, egee e francesi, che avevamo conquistato non senza sacrificio di sangue.

 

Il Regio Esercito si è quasi dovunque rapidamente sban­dato. E niente e più umiliante che essere disarmato da un al­leato tradito tra lo scherno delle popolazioni locali.

 

Questa umiliazione deve essere stata sopratutto sangui­nosa per quegli ufficiali e soldati che si erano battuti da valo­rosi accanto ai loro camerati germanici in tanti campi di bat­taglia. Negli stessi cimiteri di Africa e di Russia, dove soldati italiani e tedeschi riposano insieme dopo l'ultimo combattimento, dev'essere stato sentito il peso di questa ignominia.

 

La Regia Marina, costruita tutta durante il ventennio fa­scista, si è consegnata al nemico in quella Malta che costi­tuiva e più ancora costituirà la minaccia permanente contro l'Italia e il caposaldo dell'imperialismo inglese nel Mediter­raneo.

 

Solo l'aviazione ha potuto salvare buona parte del suo ma­teriale, ma anch'essa è praticamente disorganizzata.

 

Queste sono le responsabilità indiscutibili, documentate irrefutabilmente anche nel discorso del Führer il quale ha narrato, ora per ora, l'inganno teso alla Germania, inganno rafforzato dai micidiali bombardamenti che gli anglo-ameri­cani, d'accordo con il governo Badoglio, hanno continuato mal­grado la firma dell'armistizio contro grandi e piccole città dell'Italia centrale.

 

Date queste condizioni, non è il Regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il Regime, tan­to che oggi è decaduta nella coscienza e nel cuore del popolo: ed è semplicemente assurdo supporre che ciò possa compro­mettere minimamente la compagine unitaria del popolo ita­liano. Quando una monarchia manca a quelli che sono i suoi compiti, essa perde ogni ragione di vita. Quanto alle tradizio­ni, ve ne sono più repubblicane che monarchiche; più che dai monarchici, l'unità e l'indipendenza d'Italia furono volute, contro tutte le monarchie più o meno straniere, dalla corrente repubblicana che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giu­seppe Mazzini.

 

Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e so­ciale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini. Nell'attesa che il movimento si sviluppi, sino a diventare irresistibile, i nostri postulati sono i seguenti:

 

1 - Riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati: soltanto il sangue . può cancel­lare una pagina così obbrobriosa nella storia della Patria.

 

2 - Preparare. senza indugio, la riorganizzazione delle nostre. Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia: solo chi è armato di una fede combatte per una idea senza misu­rare l'entità del sacrificio.

 

3 - Eliminare i traditori e in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parec­chi anni, nelle file del Partito e sono passati nelle file del nemico.

 

4 - Annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e la base infran­gibile dello Stato.

 

Camicie Nere fedeli di tutta Italia!

 

Io vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi. L'esultan­za del nemico per la capitolazione dell'Italia non significa che esso abbia già la vittoria nel pugno, poiché i due grandi Im­peri, Germania e Giappone, non capitoleranno mai.

 

Voi squadristi, ricostituite i vostri battaglioni che hanno compiuto eroiche gesta.

 

Voi giovani fascisti, inquadratevi nelle divisioni che deb­bono rinnovare sul suolo della Patria la gloriosa impresa di Bir-el-Gobi.

 

Voi aviatori, tornate accanto ai vostri camerati tedeschi, ai vostri posti di pilotaggio per render vana e dura l'azione nemica sulle nostre città.

 

Voi donne fasciste, riprendete la vostra opera di assistenza morale e materiale così necessaria al popolo.

 

Contadini, operai e piccoli impiegati! Lo Stato che uscirà dall'immane travaglio sarà il vostro e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili.

 

La nostra volontà, il nostro coraggio e la nostra fede rida­ranno all'Italia il suo volto, il suo avvenire, le sue possibilità di vita ed il suo posto nel mondo. Più che una speranza questa dev'essere per voi tutti una suprema certezza.

 

Viva l'Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!

 

 

 

 

 

LETTERA DI GRANDI A BADOGLIO

27 settembre 1943

 

Il Regime è caduto, il primo Governo Badoglio ha firmato l'ar­mistizio, il Maresciallo, la famiglia reale e alcuni alti dignitari hanno raggiunto Brindisi. Nel Nord, il 27 set­tembre 1943, Mussolini tiene il primo Consiglio dei Ministri della R.S.I. Dal Portogallo, Dino Grandi esprime la personale solidarietà a Badoglio per significare che rimaneva fedele alla Monarchia e che, soprattutto, riteneva « necessaria e urgente la dichiarazione di guerra contro la Germania ». Nello stesso giorno si costituiva in Puglia il I Raggruppamento Motorizzato Italiano (da cui il 10 aprile 1944 deriverà il Corpo Italiano di Libera­zione).

 

Oporto, 27 settembre 1943

 

Caro Badoglio,

 

Desidero farti pervenire l'espressione della mia personale solidarietà.

Questa dichiarazione non è determinata da alcun altro senti­mento o motivo se non quello che deve animare e sospingere tutti gli italiani: il dovere di raccogliersi silenziosamente e fe­delmente attorno al Re e al Suo Governo in quest'ora così grave per il presente e per l'avvenire della nostra Patria.

 

Molte cose sono state dette e scritte dal 25 luglio ad oggi. Per quanto mi riguarda ho la coscienza tranquilla. Credo di avere servito il mio Re e il mio Paese. Nessun altro sentimento o pensiero mi hanno guidato quando ho preso personalmente con tutti i rischi e le responsabilità l'iniziativa di restaurare la Co­stituzione attraverso l'unico organo che la legge contemplava e alla prima occasione in cui ciò si presentava come possibile. Du­rante venti anni ho:

 

sempre lottato entro il fascismo, apertamente se pure invano per salvare dalla dittatura la Costituzione e per portare la nostra politica interna e internazionale su un piano di conci­liazione e di pace. Ma non è per ricordare tutto ciò che Ti scrivo. Il silenzio e il tempo sono gli alleati della verità.

 

Ho sempre pensato, prima e dopo il 25 luglio, essere vana e pericolosa illusione quella di coloro i quali ritenevano essere possibile la conclusione di un armistizio col consenso della Ger­mania e nello stesso tempo senza entrare in guerra a fianco degli Alleati. Gli sforzi che Tu stai oggi compiendo perché l'Italia possa schierarsi attivamente al fianco della Gran Bretagna e de­gli Stati Uniti rappresentano il supremo interesse della Nazione. Ciò apparirà ancora più evidente il giorno in cui l'Italia sarà li­berata col diretto contributo e per merito del valore dei nostri soldati, dalla tirannia tedesca e anche da coloro che sotto la protezione delle armi tedesche hanno oggi instaurato una pseudo-repubblica anarchica dimostrando in quest’ora di grande sventura nazionale d'essere animati non da amo­re di Patria bensì soltanto da cieco odio di fazione.

 

L'augurio sincero che io faccio al Capo del Governo del mio Paese è che egli possa portare a salvamento la Patria.

 

Cordialmente

 

Dino Grandi

 

 

 

 

 

VERBALE DELL'INCONTRO EISENHOWER - BADOGLIO

SULLA NELSON A MALTA

29 settembre 1943

 

Il 29 settembre 1943, Badoglio firmava a bordo della nave da battaglia Nelson “l’armistizio lungo” che sanciva dure condizioni per l'Italia e che, perciò, fu convenuto di mantenere se­greto. Dopo la firma si passò a discutere le modalità della collaborazione italiana dell'armistizio. La discussione si svolse nella sala di consiglio della Nelson: Eisenhower e Badoglio presero posto uno di fronte all'altro, avendo ai fianchi, secondo il rango e l'anzianità, i membri delle due dele­gazioni. La seduta ebbe inizio alle 10,50, il problema più importante riguarda­va la dichiarazione di guerra che l'Italia avrebbe dovuto fare alla Germa­nia, questione che trovava riluttanti il re e i suoi collaboratori. Quello che segue è il brano del verbale della conversazione relativo a questa parte.

 

 

Eisenhower Da quanto ho capito, la prima questione da vedere è quella dell'entrata in guerra dell'Italia.

 

Badoglio Sull'argomento della dichiarazione di guerra alla Germa­nia, ho preso ieri ordini da Sua Maestà. S.M. desidera formare in un primo tem­po un Governo su larga base. Inizialmente tale Governo sarà formato da me e dai Ministri militari: non appena a Roma, esso sarà completato. Nel frattempo noi combattiamo contro la Germania in Corsica, in Dalmazia, e dovunque sia possibile. Appena ritirate le truppe dalla Sardegna, io conto di poter mettere a disposizione degli Alleati dalle otto alle dieci divisioni.

 

Eisenhower Desidero sapere se il Governo italiano è a conoscenza delle condizioni fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo inter­vallo di tempo in cui l'Italia combatte la Germania senza averle dichiarato guerra. (La domanda genera qualche perplessità nei rappresentanti italiani perché inizialmente non ben capita. Dopo consultazioni il generale Am­brosio dichiara)

 

Ambrosio Sono sicuro che i tedeschi li considerano partigiani.

 

Eisenhower Quindi passibili di fucilazione?

 

Badoglio Senza dubbio!

 

Eisenhower Dal punto di vista alleato la situazione può anche restare come è attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l'Italia dichiarare la guerra.

 

Badoglio Questo punto di vista è già stato considerato, ma si ri­tiene che in questo momento il Governo italiano abbia influenza sopra una frazione troppo piccola del territorio italiano per poter fare questa dichia­razione.

 

Eisenhower Questa non è una buona ragione, perché molti Gover­ni con molto minor territorio dell'Italia, ed alcuni senza territorio, hanno dichiarato la guerra alla Germania. La mia intenzione, che coincide total­mente con le intenzioni degli Alleati, è quella di ridare all'Italia i territori attualmente occupati dalle truppe alleate. Ma come può avvenire questa re­stituzione, se non dopo una regolare dichiarazione di guerra alla Germania?

 

Badoglio Non posso che riferire il vostro punto di vista a S.M. il Re. La dichiarazione di guerra è una prerogativa esclusiva di S.M. Mi riserbo quindi di dare in seguito una risposta.

 

Eisenhower Rispetto la lealtà di soldato che dimostra verso il Sovrano il Maresciallo Badoglio. Ma voglio insistere su questo punto, che mi sembra fondamentale: per tre anni gli italiani sono stati nemici dei miei Governi. Noi dobbiamo tener conto delle opinioni pubbliche in Paesi alleati. Questo cambiamento non può avvenire nelle masse con la velocità con cui può avvenire nell'animo di soldati seduti intorno ad un tavolo. Dico questo per la seguente ragione: il benessere dell'Italia dipenderà nel futuro dal grado di effettiva e leale collaborazione che darà agli Alleati. Io personalmente sono convinto che il Maresciallo Badoglio e il suo Go­verno faranno, di tutto per assecondarci nella lotta contro la Germania, ma per l'opinione pubblica occorre al più presto la dichiarazione di guerra. Desidero sapere se il Maresciallo Badoglio è d'accordo con me.

 

Badoglio Dichiaro formalmente che riferirò nella forma più esat­ta a S.M.

 

Eisenhower Sta bene, ma vorrei almeno sapere se il Maresciallo, personalmente è d'accordo in linea di massima con me sulla necessità di dichiarare la guerra. (Sembra tenere in modo pregiudizievole alla dichia­razione di guerra.)

 

Badoglio Personalmente sono d'accordo con il Generale Eisen­hower. Ripeto che S.M. deve decidere.

 

 

 

 

 

RAPPORTO DEL GEN. NICOLA BELLOMO SULLA DIFESA DEL PORTO DI BARI

9 settembre 1943

 

 

Alle ore 13,15 del 9 settembre, mentre mi recavo a colazione, appresi da donne spaventate in fuga che reparti tedeschi stavano svolgendo un colpo di mano sul porto di Bari, al probabile scopo di operare distruzioni delle opere portuali e del naviglio e per impossessarsi dei piroscafi e con questi salpare.

 

Vaghe ma allarmanti notizie avute da motociclisti militari davano per soverchiati e messi in fuga i posti e nuclei militari della zona portuale (posti della R. Guardia di Finanza, Milizia Portuale, R. Marina, R. Capitaneria di Porto).

 

Mi recai nella Caserma della Milizia, al Corso della Vittoria, che è appunto affacciata al porto e, nel percorso, mi resi meglio conto di quanto era accaduto e stava accadendo: le formazioni tedesche erano già padrone della zona portuale e spari di cannonate, di bombe a mano e di mitragliatrici da parte loro, senza alcuna reazione da parte nostra, dimostravano che era urgente intervenire per impedire lo svolgimento del colpo di mano. Perciò, giunto in caserma, feci suonare l'allarme e adunai sotto le armi gli uomini disponibili (un plotone di circa 40 uomini seguito, dopo circa mezz'ora, da altro plotone di altrettanti uomini, armati di solo moschetto), che avviai al porto, per il Lungomare della Vittoria. Precedendo il plotone, sollecitai l'in­tervento di reparti alla porta della Caserma della R. Guardia di Finanza ed a quella del Distaccamento R. Marina, nelle quali era raccolto parecchio personale armato. Ne ottenni in complesso un nucleo di circa 15 guardie di finanza armate di moschetto e bombe a mano e di 4 o 5 marinai armati di moschetto.

 

Raggiunsi la Caserma “Regina Elena” e mi resi subito conto della si­tuazione. I tedeschi occupavano la zona dei varchi, il caseggiato della R. Do­gana, la Casa del Marinaio e, con nuclei ben appostati, forniti di mitraglia­trici e bombe a mano, battevano tutti gli accessi della zona dei varchi da Corso Trieste, dal Lungomare Cristoforo Colombo, da Piazza S. Pietro e da Santa Chiara. Gruppi erano penetrati nel caseggiato dell'Ospedale Con­sorziale e del fabbricato ad esso contiguo, da ponente, sparando e gettando bombe da finestre e da terrazze.

 

Raggiunto dal primo plotone di legionari, guardie di finanza e marinai e da un autocarro con artieri del 9° Genio, con un fucile mitragliatore ed una mitragliatrice, stabilii di:

 

— far svolgere dall'autocarro con la mitragliatrice un'azione distrat­tiva dalla piazzetta S. Pietro, ove lo avviai senz'altro, facendolo passare dal rovescio delle Caserme “Regina Elena” e “S. Chiara”;

 

— attaccare di sorpresa col plotone di legionari, con gli elementi di rinforzo della R. Guardia di Finanza, marinai e genieri, compreso un fucile mitragliatore di questi, la zona interna dei varchi, sfilando tra l'edifizio della Capitaneria e la banchina del porto, che appariva non vigilata dai tedeschi.

 

In mancanza di ufficiali che dessero affidamento, io stesso condussi que­sto nucleo misto. La sorpresa riuscì pienamente, in quanto con un gruppo dei più arditi raggiunsi l'estremo orientale del palazzo della Capitaneria, risultando quasi a tergo del primo varco tenuto dai tedeschi, i quali erano appostati nel casotto della guardia del varco.

 

Il gruppo tedesco che vigilava il varco della Dogana fu da noi sorpreso quasi alle spalle; alle prime nostre bombe, ne vidi cadere qualcuno e altri vacillare; essi però si ritirarono subito entro e lungo i muri del casotto, tiran­dosi dietro anche i feriti e, dalla posizione di riparo, risposero con bombe a mano e raffichette di fucile mitragliatore.

 

L'azione risultò svolta da forze insufficienti. Infatti, il gruppo di testa dovette sostenere brevissimo combattimento, con sole bombe a mano a non più di 30 metri di distanza, in cui la nostra inferiorità, per numero e dispo­nibilità di bombe, apparve palese. Dovetti rinunciare perciò all'assalto all’arma bianca, che avrebbe dovuto conchiudere l'azione, tanto più che ave­vo già dei feriti ed io stesso ero tra questi ancorché leggermente.

 

Va purtroppo rilevato che la consistenza delle forze d'attacco (per il primo ed anche per il secondo attacco) sarebbe stata assai maggiore se i nu­merosi ufficiali e truppa della 20a Legione M.A.C.A., della Capitaneria di porto, col personale della R. Marina, della R. Guardia di Finanza, della Milizia portuaria e un reparto di fanteria costituente picchetto per o.p., non si fossero chiusi e barricati rispettivamente nella caserma “Regina Elena”, nel palazzo della Capitaneria e nella Caserma “S. Chiara”, rimanendo pas­sivamente inerti, anche quando videro e udirono accendersi il combattimento da me condotto.

 

Decisi subito di far seguire altro attacco più consistente dalla piazzetta S. Pietro. Ritirai il gruppo più avanzato su quello arretrato e disposi che rimanessero appostati in attesa di concorrere all'altro attacco. All'ingresso di ponente della Capitaneria obbligai i barricati ad aprirmi, riconobbi rapida­mente altro itinerario, disponendo che una mezza squadra di legionari e ge­nieri conducessero altro piccolo attacco concomitante, sboccando dall'ingresso di levante della stessa Capitaneria, da aprirsi per irrompere fuori soltanto al momento dell'attacco.

 

Poscia mi recai ad organizzare in piazza S. Pietro il nuovo attacco principale che doveva svolgersi irrompendo dalla rampa contigua all'Ospe­dale Consorziale e che scende alla Casa del Marinaio ed al porto.

 

Nell'attraversare corso Trieste cadde, colpito da pallottole di mitraglia­trice, il S. Ten. Chicchi del 9° Genio.

 

Invano mi sforzai di rendere più consistente anche questo secondo at­tacco. Purtroppo, nel recarmi in piazza S. Pietro, passando sul rovescio delle Caserme “Regina Elena” e “S. Chiara”, intravvidi reparti in sosta a frotte e in disordine nei vicoli della città vecchia, disseminati nelle case, nei por­toni, con tendenza ad allontanarsi dalla zona portuale o a salire su terrazze arretrate. Ritengo si trattasse dei reparti che il Comando Presidio faceva accorrere.

 

Tentai di trascinarmele al seguito, ma non volendo deviare dal propo­sito di riattaccare i tedeschi al più presto, non mi attardai nel lavoro di rastrellamento che sarebbe stato necessario.

 

Giunto in piazzetta S. Pietro, impartii rapidi ordini ad un comandante di reparto di fanteria munito di mitragliatrici e fucili mitragliatori perché concorresse all'attacco che intendevo sviluppare ed organizzai tale attacco costituendo un nucleo d'assalto col secondo plotone di legionari che mi aveva raggiunto e con gruppi di fanti, genieri, metropolitani e carabinieri, parecchi forniti anche di bombe, ed anche un borghese, un portuale, che si dichiarò reduce della guerra 1915-18 e intenzionato a battersi (totale circa 60 uo­mini).

 

Fui avvertito di segnali che i tedeschi facevano con le braccia per far sospendere il combattimento, senza però alzare bandiera bianca; ma, diffi­dando della lealtà dei tedeschi, disposi che l'azione fosse proseguita.

 

Ordinai la irruzione a baionetta innestata con bombe a mano in pu­gno al nucleo d'assalto. L'effetto fu quello desiderato; perché l'irruzione sviluppatasi fino al punto in cui la rampa piega ad angolo retto verso levan­te, richiamò da quella parte tutta l'attenzione ed il fuoco dei germanici, dei quali alcuni gruppi a ridosso del muro di scarpa della rampa, pur non po­tendo essere raggiunti dalle baionette, lo furono dal lancio efficace delle bombe a mano. Noi lanciammo tutte le bombe disponibili (non molte pur­troppo) e agimmo anche coi moschetti ed il fucile mitragliatore, ma eravamo completamente allo scoperto e pur avendo inflitto perdite al nemico, ne subimmo a nostra volta.

 

Il capomanipolo Turrisi fu colpito alla coscia da raffiche di mitraglia­trici, altri militari rimasero feriti ed io fui investito dagli scoppi vicinissi­mi di bombe a mano, le cui schegge mi produssero altre cinque ferite e mi spezzarono un dente. Stordito e con ferite moleste, fui costretto a recarmi, sorretto, al posto di medicazione nel contiguo Ospedale Consorziale. Prima di allontanarmi disposi che il nucleo più avanzato sostasse a ridosso della murata dello stesso ospedale e gli altri arretrati si tenessero pronti a sostenerlo: tutti attendessero la ripresa dell'azione da parte delle altre trup­pe che stavano affluendo, mantenendo però incatenato il nemico col fuoco.

 

Nella conclusione dell'azione che si ebbe circa tre quarti d'ora dopo, ver­so le ore 17, il gruppo di ufficiali e soldati da me lasciato catturò quattro militari tedeschi ed un certo numero di armi.

 

Ricevuta la prima medicazione ed arrestata con laccio emostatico l'emor­ragia prodotta da una vena lacerata sul dorso della mano sinistra, fui av­viato all'Ospedale Militare Principale di Bari. Mi feci sorreggere fino alla mia autovettura, che era rimasta nei pressi della Caserma “Regina Elena”. Prima di farmi trasportare all'Ospedale Militare ordinai che mi si portasse al Comando Presidio per passare al generale Caruso la consegna per la prosecuzione del combattimento.

 

Mi feci accompagnare al primo piano ove trovai, nel salone, i generali Caruso e Sprega e credo anche Melia e circa quaranta altri ufficiali, tra cui ricordo i colonnelli Sforza, Giardina, Violante, De Natale, i ten. colonnelli Bavaro, Introna, Selvaggi, Sepielli, Semeraro.

 

Esposto con brevi frasi al generale Caruso quanto avevo fatto, avvertii che i tedeschi erano ormai agganciati e il loro colpo di mano interrotto; soggiunsi che le truppe accorrenti non dimostravano di volersi impegnare e lo invitai con calore ad inviare sul posto, per dirigere il combattimento, un ufficiale di spiccata capacità ed energia.

 

Mi rispose che vi aveva già mandato il colonnello Vitucci, Comandante la Difesa Porto; ma io dovetti avvertirlo che, sebbene avessi percorso tutto l'arco della città vecchia che recinge la zona portuale, non avevo né visto il colonnello Vitucci né sentito una qualsiasi azione di lui. Il breve discorso si svolse alla presenza di tutti gli altri ufficiali. Poi mi recai in Ospedale.

 

Verso le ore 18 i miei ufficiali vennero a riferirmi che dopo la partenza mia i tedeschi avevano continuato a far segni di sospendere il combattimento; che verso le ore 17,30 era sopraggiunto dal corso Cristoforo Colombo un nostro colonnello (in autovettura con bandiera bianca) che aveva parlamen­tato col comandante del reparto germanico ed aveva fatto suonare e diffon­dere con porta ordini il “cessate il fuoco”. Poscia i tedeschi avevano ottenuto di raccogliere in una autoambulanza e su un autocarro i loro sette morti e ventuno feriti, e poscia l'intera autocolonna tedesca (sei o sette autocarri con circa 200-220 uomini) era sfilata per il corso Trieste, lasciata libera con tutte le sue armi.

 

I quattro prigionieri catturati dal reparto di legionari furono accompa­gnati allo scalo ferroviario di via Napoli e consegnati al loro comando, la sera stessa del 9, d'ordine del Comando Presidio.

E così alcuni feriti tedeschi che erano stati ricoverati nell'Ospedale Militare.

 

Nei giorni seguenti, dopo la sopraffazione dei presidi di Barletta e Tra­ni, circolò la voce che fra le truppe che avevano operato nelle due località vi era il reparto lasciato libero a Bari.

 

Per il comportamento lodevole dei non molti che mi seguirono proposi subito:

 

— la medaglia d'argento al V.M. (alla memoria) per il S. Ten: del Genio CHICCHI;

 

— la medaglia di bronzo al V.M. per il Capitano ABRUZZESE ed il Tenente TURRISI.

 

Generale Nicola Bellomo

 

Bari 11 settembre 1943

 

 

 

 

 

DISCORSO DI BADOGLIO AGLI UFFICIALI

SULLA CADUTA DEL FASCISMO E L'ARMISTIZIO

campagna di Lecce, 18 ottobre 1943

 

Il 18 ottobre 1943, cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, Badoglio tenne un rapporto a circa 700 ufficiali italiani, per la maggior parte sbandati e raccolti nei “campi di riordinamento” istituiti dallo Stato maggiore dell'esercito specie in provincia di Lecce. Si trattava di ufficiali provenienti dal IX e XXXI Corpo d’Armata (di stanza in Puglia, Lucania e Calabria e praticamente dissoltisi dopo l'8 settembre), dalle divisioni costiere della zona salentina e, in gran numero, giunti avven­turosamente in Puglia dall'Italia centrale e perfino settentrionale, dopo che i rispettivi reparti — di grandi unità o presidio — avevano cessato di esistere. Erano, per lo più, uomini che sapevano ben poco di quanto era accaduto prima e dopo 1'8 settembre e perfino intorno al 25 luglio.

A costoro Badoglio (che si era dato, in quell'epoca, a una alacre atti­vità politica e propagandistica) intese illustrare, a suo modo — e a suo profitto —, quegli avvenimenti, con la consueta, grossolana ma abile ap­prossimazione.

Il suo improvvisato discorso è noto come “il discor­so di Agro San Giorgio Jonico”, dalla località in cui sarebbe stato tenuto. Se ne conoscono un riassunto apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno, di Bari, del 20 ottobre 1943, una versione fornita da Agostino Degli Espinosa, un breve cenno che ne fa Nino Bolla (Dieci mesi di governo Badoglio, p. 14), attribuendogli erroneamente la data del 10 ottobre, e infine un resoconto che Attilio Tamaro ha ricavato da una pubblicazione propagandistica del tempo e che appare il più prossimo al vero.

Zangrandi pubblicò quasi integralmente il discorso che Badoglio, fiancheggiato da una decina di generali, tenne in tono quasi al­legro, con piglio aggressivo e frequenti espressioni piemontesi. Non gli fu possibile, invece, poiché gli ufficiali interpellati che vi assistettero e che gli posero a disposizione i loro appunti non sono concordi, specificare con esattezza la località in cui il raduno si svolse, pur indicandola tutti come “un grande oliveto nei pressi di Lecce”.

 

Ecco dunque il resoconto del discorso, che Zangrandi giustamente qualifica come un documento storico e psicologico. Per renderlo meglio intelligibile, vi apportò qualche nota puramente esplicativa o informativa, qui inserite in corsivo tra parentesi quadre.

 

 

Signori ufficiali, vi prego di non dispiacervi se mi presento a voi con un abito borghese. È lo stesso che indossavo quando fui costretto a lasciare la nostra amata capitale, dove torneremo presto, per portare in salvo il nostro re e i supremi comandi. Sono necessità di questo doloroso momento, che ciascuno di voi comprende per averle provate. Io sono sempre il mare­sciallo Pietro Badoglio, il vostro generale del Sabotino, di Vittorio Veneto, di Addis Abeba: tutte gloriose conquiste che nessuno di noi italiani, rin­negherà. [...]

 

Ci troviamo qui radunati proprio per riprendere la via delle nostre vittorie. E per questo non voglio farvi un discorso, dato che i discorsi sono chiacchiere, che avete sentito abbastanza e che danno fastidio sia a chi li ascolta che a chi li fa.

 

Vi ho riuniti per spiegarvi, come un vecchio generale ai suoi soldati, due avvenimenti per i quali alcuni di voi possono avere dubbi: il crollo del fascismo e il passaggio dell'Italia dalla parte dei sicuri vincitori, di coloro che hanno ragione. Voglio dire dell'armistizio e del nostro schieramento contro l'odiato nemico tedesco. Accanto a chi lo ha combattuto fin dal principio, giustamente. [...]

 

Beh, il fascismo non è stato rovesciato da noi: da Sua Maestà o da me. Il fascismo è caduto, non per forza esterna, ma per la sua crisi inter­na: non poteva resistere più. Lo hanno abbattuto gli stessi componenti del Gran consiglio. I membri del Gran consiglio fascista votarono, la sera del 24 luglio, a maggioranza contro Mussolini. E ne segnarono la fine. Fi­nalmente!

 

La mattina dopo, Mussolini andò a villa Savoia, da Sua Maestà, per dirgli che il Gran consiglio non contava niente! Ed era il suo Gran consi­glio! Sua Maestà gli disse che il Gran consiglio era un organo riconosciuto dallo Stato e il suo voto era valido.

 

Mussolini, allora, si mise a piangere, vi dico a piangere. Voi non lo conoscete e non potreste crederci. Io sì. Lo conosco bene, da tanti anni, che razza di istrione e pelandrone è. Si mise a piangere e disse: “Allora io me ne devo andare!” Sua Maestà gli disse di si. E basta. Non gli dette neppure la mano.

 

Cosi usci da villa Savoia e fu subito preso e condotto in una caserma di carabinieri perché la folla popolare non lo facesse a pezzi. E magari lo avesse fatto!

 

Proprio io fui incaricato di proteggerlo. Me lo chiese Sua Maestà e dovevo obbedirgli. Altri mi propose di ucciderlo, ma io dissi che odio uccidere gli inermi. [...]

 

Può darsi che ho fatto male perché è diventato il più servo dei servi dei tedeschi. Ma io non potevo uccidere un uomo che, allora, non si poteva difendere. E a questo punto devo dirvi che conservo una sua lettera con la quale mi ringrazia di averlo salvato. Allora mi ringraziava, oggi mi insulta! Ma la lettera resta e sarà resa nota a suo tempo. Per ora la cono­scono Sua Maestà e alcuni degli ufficiali che qui mi sono vicini. Ma voi, certo, credete alla parola del vostro vecchio generale.

 

Intanto, Sua Maestà mi chiamò ad assumere il governo. In quelle condizioni. [...] Alla mia età e dopo quello che ho fatto, voi lo capite, non avevo bisogno di altra gloria. Ma fu una necessità. Dovevo salvare ancora il nostro disgraziato Paese. È toccata a me e voi che mi conoscete sapete che non mi sarei mai potuto rifiutare.

 

Ora non starò a raccontarvi, sarebbe impossibile, tutto quello che ho visto nel pur breve periodo del mio governo, a Roma. Vergogna e vergo­gna! Vi dirò solo pochi rami che ho potuto scandagliare e che non costi­tuiscono segreto di Stato.

 

Voi conoscete quella famosa agenzia di petrolio, l'Agip, organo para­statale, diretta da un ex ministro fascista, Gorla mi pare [...] aveva 90 milioni di deficit e non si sono trovati nemmeno documenti contabili per capirci perché.

 

La Gioventù del Littorio, la nostra amata gioventù, resa schiava di Mussolini costava allo Stato più di un miliardo e mezzo!

 

E il dopolavoro! Un altro miliardo e mezzo di passivo per lo Stato. Cosi si fanno belli i regimi! [...]

 

Poi c'era il ministero della Cultura popolare, un vero lupanare. Pen­sate che finanziava un numero incalcolabile di signore romane, con sti­pendi di cinque, otto, dieci mila lire. Quale è il tuo stipendio, capitano? Quanto guadagnavi tu, colonnello [...] noi ci conosciamo, no?

 

Gli incarichi di quelle signore ve li lascio immaginare! E vi dirò di più: esse non si prendevano nemmeno il fastidio di andare a ritirare lo stipendio: mandavano le cameriere! Diverse hanno osato farlo, come se nulla fosse, con il nuovo ministro! [Badoglio non dice, ovviamente, che quel tipo di sovvenzioni, non solo fu con­tinuato, ma sviluppato durante i suoi 45 giorni, a favore di molti giornalisti che si dissero perseguitati dal fascismo: alcuni noti fascisti, invece, e diversi assai conosciuti anche ora. Nell'elenco figurano, tra gli altri, quattro direttori di quotidiani nel 1963].

 

Poi, il ministro delle Finanze ha scoperto che avevamo un deficit di più di 600 miliardi, una circolazione di 150 miliardi, invece di quella dieci volte inferiore denunciata. [...]

Ogni ministero aveva nel proprio bilancio una voce “spese riservate”, attraverso la quale si sperdevano non vi so dire quanti miliardi. Non abbiamo trovato nessuna contabilità! Ecco perché ci siamo trovati in guerra con i fucili 91! [Badoglio omette di dire che responsabile, con Mussolini, per l'antiquato arma­mento del nostro esercito, al momento della entrata in guerra dell'Italia, era il capo di Stato maggiore generale, e che a ricoprire tale carica dal '25 alla fine del '40 era stato proprio lui]

 

Ma ora basta, usciamo da questo fango! Mussolini aveva detto al so­vrano che sarebbe andato a Feltre il 10 luglio [Il convegno di Feltre non si svolse il 10, bensì il 19 luglio] per far presente a Hitler la situazione dell'Italia, proprio disperata, e chiedere l'armistizio. Ma, pre­sente il ministro degli Esteri Bastianini e il generale Ambrosio, che è qui e può confermarvelo, non ebbe il coraggio di aprire bocca. Vi dirò di più: Hitler non lo fece parlare! Era sempre successo così, da dieci anni, e pos­so testimoniarvelo io che ne so qualcosa, quando si trattò di decidere la nostra guerra contro la povera Francia, poi contro la nobile Jugoslavia. Ambrosio e Roatta lo sanno, che hanno conosciuto (e aiutato!) i suoi splendidi patrioti. [Sia Ambrosio che Roatta vennero incriminati come criminali di guerra dal governo di Tito. Fu chiesta la loro estradizione nel periodo in cui ricoprirono a Brin­disi le loro alte cariche militari. Gli Alleati non credettero di concederla]

 

Tornato a Roma, Mussolini assicurò il re che, in ogni caso, si sarebbe sganciato dalla Germania entro il 15 settembre. Lo sa Ambrosio, che è qui, e lo sanno diversi ministri fascisti, che sono rimasti di là, non so più se amici o nemici o perseguitati di Mussolini. E il bello è che, adesso che questo l'ho fatto io, mi si accusa di tradimento!

 

Ma sia ben chiaro, signori ufficiali: ho dovuto fare così per la grave situazione in cui eravamo venuti a trovarci. Non avevamo più, in agosto, una rete ferroviaria. Tutte le nostre città erano esposte, senza difesa, ai bombardamenti. Dal Nord, i viveri non potevano più affluire nel meri­dione. Eravamo alla disperazione, alla fame. Le nostre donne di Napoli, di Barletta, di Foggia, un tempo intemerate, allargavano le coscie per cin­que lire, due lire... Un paese di antica civiltà, cattolico, onesto non poteva più resistere. [Segue una frase in piemontese, non intelligibile]

 

Tuttavia, nell'assumere il governo, comunicai a Berlino che avrei man­tenuto l'impegno e continuato la guerra comune: la parola data è data, per un Paese che si rispetti. Fui consigliato da illustri uomini politici, che ne sapevano più di me che sono un semplice soldato. [...] Facemmo l'im­possibile, il re e io, in perfetto accordo, per mantenere la parola data, a nome dell'Italia, da quel furfante di Mussolini...

 

Anche voi siete soldati e conoscete la legge dell'onore. Ma al mio pri­mo telegramma Hitler non rispose. Poi mandò truppe in Italia come in terra di conquista. Noi non le volevamo perché volevamo difendere da soli il suolo della Patria. Molti di voi sapranno quante prepotenze abbiamo subite.

 

Invece la Germania era impegnata a mandarci un milione e duecen­tomila tonnellate di carbone, da noi regolarmente pagato. Lo ridusse a un quarto. Lo stesso per la benzina, le munizioni, molte materie prime. Con la scusa di certi bombardamenti di Lilla, i tedeschi ci privarono di tutti i rifornimenti essenziali. Restammo senza una goccia di benzina. Ai primi di agosto, requisirono i nostri rifornimenti di grano, da noi regolarmente pagati alla Romania. Se non voi, poiché all'esercito abbiamo sempre pen­sato, le vostre famiglie sanno che razza di pane si mangiava in Italia a fine agosto. E non c'era altro che il pane, se non per i gerarchi fascisti e le donne di malaffare. [Segue una frase in piemontese, probabilmente: "... che sono la stessa cosa"]

 

Il vostro maresciallo vi dice che, a quel punto, capii che i tedeschi volevano prenderci per la gola. [...]

 

Pensai che non c'era da perdere altro tempo. Non si poteva, per la parola data da un brigante come Mussolini, continuare a sacrificare le nostre donne e i nostri figli. Le prostituzioni e la miseria che voi vedete qui, a Taranto, Brindisi, Lecce e perfino nelle campagne, sono il risultato dell'imperialismo di Mussolini, mettetevelo bene in testa. [Segue un'altra espressione piemontese, non decifrata]

 

Allora decisi di chiedere al generale Eisenhower un armistizio, che fu subito bene accolto.

Dopo quella intesa che ci riportò ai tempi della nostra fraternità con gli inglesi, americani, russi e francesi ai tempi della nostra gloriosa guerra contro i tedeschi nel '15-'18, seguirono dei fatti un po' imbrogliati, che è impossibile riferire in questa sommaria esposizione, che io faccio a dei soldati e non a dei politici...

 

L'armistizio, da noi concordato con gli anglo-americani alla fine di agosto, doveva diventare esecutivo non prima del 15, 16 settembre, appunto per darci il tempo di agguantare i tedeschi che erano sul nostro sacro suolo per la gola, prima che potessero opporre resistenza.

 

Gli Alleati, per loro esigenze politiche e strategiche internazionali, ci imposero di renderlo noto il giorno 8. Non mi restava che provvedere im­mediatamente a salvare la persona del re, la nostra amata regina, il nostro principe ereditario. Diversamente quei ladroni li avrebbero presi in ostag­gio e portati in Germania, come hanno fatto per altri membri della casa reale. Avevano preparato questo piano da lungo tempo. È già stato mira­colo sfuggire per quanto riguarda la famiglia regnante e i massimi capi militari dell'Italia, a cominciare dal maresciallo che vi parla.

 

Adesso, siamo qui e cerchiamo di mutare la situazione con ogni mez­zo. È una situazione grave, ma non disperata. Noi, Sua Maestà, chi vi parla, la parte di governo che è potuta scampare e che lavora alacremente, a Brindisi, a Bari, a Lecce, a Taranto, per salvaguardare la continuità dello Stato (e siamo già d'accordo con i nuovi partiti ricostituitisi a Napoli), non siamo i rappresentanti di una nazione vinta. Con un termine nuovo e un po' difficile, siamo già con inglesi e americani cobelligeranti.

 

Abbiamo dichiarato guerra alla Germania, dopo che abbiamo potuto accumulare mille prove delle efferatezze dei tedeschi in Italia. Abbiamo la coscienza tranquilla. Nessuno di voi deve dubitare. [...] I "camerati" di un tempo hanno gettato la maschera e ci hanno colpito ovunque. Le leggi dell'onore, insieme a quelle del cuore, ci impongono di considerarli nostri nemici.

 

Io spero di andare ancora oltre, con la comprensione e l'aiuto di voi e di tutti gli italiani: cioè a dire di condurre l'Italia alla pari con gli anglo­americani, a una vera e propria alleanza. Ho chiesto al generale Eisenhower un ufficiale che facesse, come dire, da trait-d'union tra noi e loro. Tale desiderio è stato accolto. Il generale Eisenhower mi ha mandato un suo generale che resta, con noi, a Brindisi. E collaborerà con noi per fare in modo che l'Italia possa schierarsi, attivamente, con le Nazioni Unite anti­germaniche. Bisogna combattere al loro fianco.

 

Signori ufficiali, bisogna che nessuno di voi abbia il minimo dubbio su quello che è il vero nemico dell'Italia. Sulla volontà fermissima di scac­ciare il vero straniero dalle nostre case... [Frase in piemontese, non de­cifrata]

 

Dopo il 1935, con la conquista del suo Impero, l'Italia aveva raggiunto tutte le sue aspirazioni. E ad esse io stesso avevo dato il mio contributo di soldato e di maresciallo vincitore. Se fossimo rimasti neutrali, saremmo stati uno dei popoli più potenti e rispettati del mondo. D'altronde ne ave­vamo bisogno, dopo le guerre già. combattute. Lo dissi a Mussolini ma non volle ascoltarmi.

 

Quando Mussolini mi chiamò, il 3 giugno, per dirmi che saremmo entrati in guerra, io gli urlai in faccia: “Ma lei non sa che non abbiamo nemmeno le camicie per i nostri soldati! Non dico le divise, ma nemmeno le camicie!” Le armi, gli spiattellai, Cavallero e Soddu si erano già belle e mangiate prima che arrivassero in dotazione.

 

Mussolini mi disse: “Lasciate stare, lo so. Ma io non ho bisogno né di armi né di camicie. Mi occorrono solo un po' di morti per sedere al tavolo della pace, dalla parte del vincitore”. [Badoglio, nei primi mesi di guerra, ordinò l'offensiva in Libia, nonostante le gravi difficoltà in cui il nostro esercito si trovava. Lo stesso fece, in seguito, nei Balcani. Come Mussolini, voleva anche lui alcune migliaia di morti prima che i tedeschi, nella cui invincibilità allora credeva (e ebbe a dichiararlo a molti), finissero la guerra]

 

Ecco le profezie del grand'uomo, del grande statista, del genio mili­tare che aveva calcolato la vittoria in pochi mesi, poche settimane...

 

Gli alleati tedeschi, signori ufficiali (e certo molti di voi lo sanno per esperienza) hanno sempre voluto spadroneggiare. Volevano comandare, senza consultare i nostri generali. Ci imposero il comando di Rommel in Africa e, certo, molti di voi ne conoscono le conseguenze. Dopo questa prova volevano che proprio Rommel assumesse il comando supremo sul nostro territorio!

 

Io mi sono opposto. Ed eccomi tra voi e con il nostro popolo, il quale ha risposto unanime, in ogni zona d'Italia, per impedirne la soggezione allo straniero, con spirito rinascimentale [se l'espressione è esatta, Badoglio intendeva dire "risorgimentale"].

 

In questo momento si combatte ovunque contro i tedeschi. A Torino, a Milano e altrove gli operai hanno impugnato le armi e si battono al fianco dei nostri soldati contro i tedeschi e i fascisti. La IV Armata al completo combatte vittoriosamente contro di essi.

 

In ogni città e zona d'Italia, dopo l'appello di Sua Maestà e quello mio, si combatte accanitamente. [Tali notizie erano, purtroppo, false. Specie la IV Armata si era disfatta da un mese]

 

Noi, di qui, dobbiamo affrettarci ad accorrere perché questi assassini e ladroni siano scacciati. Sí, ladroni: l'altro giorno a San Severo hanno svaligiato la Banca d'Italia, portandosi via tutti i valori di Stato e i depo­siti privati. [...]

 

Signori ufficiali, io sono un vecchio soldato di 72 anni che non si aspettava di finire i propri giorni, dopo tanti servigi resi alla patria e dopo averla arricchita di un Impero, di un Regno associato e di un im­menso prestigio internazionale, proprio in campo militare, vedendola ca­dere in questo disastro.

 

Mi dicono che sarebbe stato formato nel Nord di Italia un governo detto “fascista repubblicano”. Ma non crediate che Mussolini sia con esso, né che si arrischi a tornare sul nostro suolo. Egli e i suoi complici sono lontani, in Germania. [Mussolini invece era tornato in Italia, alla Rocca delle Caminate presso Forlí, fin dal 23 settembre; e il 27 settembre aveva formato il nuovo governo della RSI. Nel momento in cui Badoglio teneva il suo discorso, Graziani aveva iniziato la costituzione delle forze armate della RSI, dal 5 ottobre]

 

Ma, ve lo giuro, noi li raggiungeremo ovunque! Trasfondete nei vo­stri soldati questo sentimento e questa certezza!

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