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Dal 25 luglio all'8 settembre - 5

PROMEMORIA DI GIUSEPPE BASTIANINI AL RE

stralci
1° agosto 1943

 

La maggioranza del Paese, sbalordita e perplessa, ha visto il sovversi­vismo rosso ripresentarsi minaccioso a Torino, a Milano, in Emilia e nella Romagna e si rende conto quale pericolo rappresentino per l'avvenire il ca­rattere nettamente di sinistra assunto da tutta la stampa e la proclama­zione quotidiana che da questa vien fatta di tutto distruggere quello che in ventun anni è stato costruito.

 

È evidente che un'opera politica e sociale di ventun anni costituisce un grosso edificio che può venire demolito con successive cariche di dina­mite (in questo caso, in pochi mesi, si avranno mucchi di rovine sulle quali le ideologie internazionalistiche alzeranno la loro bandiera); oppure, come sarebbe desiderabile, e come tutto lascia credere che il Paese desideri, quell'opera di ventun anni di lavoro, di faticose esperienze e di sacrifici, potrà essere, con intelligente metodo e razionali concetti, sottoposta a revi­sioni e aggiustamenti, mantenendo i muri maestri, raddrizzando le devia­zioni, in modo , da evitare che, anche senza volerlo, si faccia il gioco di coloro che nel loro programma di odio verso l'ordine preesistente non fanno eccezione per la Corona e mirano a scopi che non sono in armonia con gli interessi della Nazione.

 

Se tutto quello che fu creato dal fascismo dovesse cadere, sarebbe pura illusione pensare di stringersi efficacemente intorno alla Monarchia, non solo perché è noto dalle affermazioni reiterate dei fuorusciti che al culmine del loro programma politico le forze ricomparse in questi giorni hanno posto l'eliminazione dell'Istituto monarchico.

 

[...]

 

Il pericolo per la Monarchia è di restare senza forze proprio in questo momento, mentre quelle avverse si valgono di essa per riprendere la pro­pria libertà e ricominciare ad abusarne.

 

Infatti: a) le forze armate, dopo la conclusione di una parte di scon­fitta, non possono rappresentare una forza per la Monarchia, perché, nello spirito dei soldati (fu dimostrato perfino dopo la vittoria del 1918) non possono trovarsi che fermenti facili ad essere sfruttati piuttosto a fini sov­vertitori che conservatori; b) le masse operaie, prese nel gioco della libertà così come si vuole fraintenderla, ritorneranno a costituire le grandi unità di manovra dei partiti antiborghesi socialista e comunista, anche se, con la finzione ben nota e già applicata negli anni precedenti la marcia su Roma, si vorrà far credere ad una pretesa indipendenza dai partiti politici della loro associazione; c) la borghesia, che ha costituito la spina dorsale del fascismo e che, anche se amareggiata e delusa per certe deviazioni del regime negli ultimi sette anni, rimane pur sempre nella sua grande mag­gioranza fascisticamente orientata, messa di fronte alla partigianeria anti­fascista di chi vuol processare il regime e alla incomprensione di coloro che credono possibile di poter annullare ventun anni di storia, farà risalire alla Monarchia le colpe delle deviazioni del regime e dell'antiregime; d) non occorre dire che l'aristocrazia non ha un peso sufficiente a controbi­lanciare quelle forze che in nome della democrazia e nelle varie forme di questa (fronti popolari, socialismo, radicalismo, comunismo, ecc.) si dichiarano programmaticamente contro ogni forma di privilegio politico o di nascita o di casta.

 

[...]

 

La Monarchia corre dunque il grave rischio di trovarsi isolata e il processo politico al regime fascista, che sarà prima la piattaforma elettorale e poi la politica del Parlamento e del Governo che ne usciranno, sboccherà immancabilmente in quella crisi che fu risolta dal fascismo tra il 1919 e il 1922 [...] quando si preparava il processo alla classe dirigente di allora e alla Monarchia.

 

Sembra pertanto interesse della Corona attrarre verso di sé il più presto possibile tutte le forze sane che il fascismo aveva nelle sue file, raccoglien­dole nella visione del supremo interesse della Patria. [...] D'altro canto è interesse della Monarchia che tutto quello che vi è di meglio, di vivo, di vitale, anche come ideale e come dottrina, appartenente al fascismo, resti nella vita e nel pensiero della Nazione.

 

[...]

 

 

 

 

PROMEMORIA DEL RE PER BADOGLIO

16 agosto 1943

 

— L'attuale Governo deve conservare e mantenere in ogni sua mani­festazione il proprio carattere di governo militare come enunciato nel pro­clama del 25 luglio e come chiaramente risulta dalla sua stessa composi­zione: Maresciallo Badoglio Capo del Governo. Funzionari esclusivamente tecnici tutti i ministri.

 

— Deve essere lasciato ad un secondo tempo e ad una successiva for­mazione di Governo, l'affrontare i problemi politici in un clima ben di­verso e più tranquillo per i destini del Paese.

 

— Bisogna mantenere fede all'impegno enunciato dal re nel suo pro­clama, controfirmato dal Maresciallo Badoglio: nessuna recriminazione sarà consentita.

 

— L'eliminazione, presa come massima, di tutti gli ex-appartenenti al Partito fascista da ogni attività pubblica deve quindi recisamente cessare.

 

— Tutti gli italiani, dinanzi alla provata buona fede, devono avere lo stesso dovere e lo stesso diritto di servire la Patria e il re.

 

— La sola revisione delle singole posizioni deve essere attentamente curata per allontanare e colpire gli indegni e i colpevoli.

 

— A nessun partito deve essere consentito, né tollerato, l'organizzarsi palesemente e il manifestarsi con pubblicazioni e libelli, democrazia del lavoro repubblicano, ecc. Sono in circolazione molti fogli la cui paternità è facilmente individuabile e che le leggi vigenti severamente colpiscono,

 

— Ogni tolleranza è debolezza, ogni debolezza mancanza verso il Paese.

 

— Le Commissioni costituite in misura eccessiva presso i Ministeri sono state sfavorevolmente accolte dalla parte sana del Paese; tutti, all'interno e all'esterno, possono essere indotti a credere che ogni ramo delle pubbliche amministrazioni sia oramai inquinato. Tutti possono attendersi che ad ogni mutamento di Governo le leggi e le istituzioni possano essere sconvolte.

 

— Ove il sistema iniziato perdurasse, si arriverebbe all'assurdo di im­plicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del re.

 

— La massa onesta degli ex-appartenenti alle organizzazioni del Par­tito fascista, di colpo eliminata da ogni attività senza specifici demeriti,sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di ogni Go­verno d'ordine.

 

— La maggioranza di essa, che si vede abbandonata dal re, perseguitata dal Governo, mal giudicata e offesa dall'esigua minoranza dei vecchi par­titi che per venti anni ha supinamente accettato ogni posizione di ripiego, mimetizzando le proprie tendenze politiche tra non molto ricomparirà nelle piazze in difesa della borghesia per affrontare il comunismo, ma questa volta sarà decisamente orientata a sinistra e contraria alla monarchia.

 

— Il momento è difficile. Il Governo potrà meno difficilmente superarlo, se gli Italiani, tolta ogni preoccupazione di sempre nuove repressioni, visti e giudicati con un unico sia pur severo apprezzamento, potranno riprendere la loro vita normale che per tutti gli onesti ha indistintamente inizio dal 25 luglio, come il re ha solennemente promesso.

 

 

 

 

 

DISPOSIZIONI ITALIANE E TEDESCHE A TUTELA DELL'ALLEANZA

 

COMANDO IV ARMATA

Stato Maggiore - Ufficio Operazioni

n° 15.000 di prot. op. - P.M. 1, li 12 agosto 1943.

 

Oggetto: Decalogo per le truppe tedesche nel settore IV Armata.

 

Al Comando del I Corpo Armata, P.M. 43;
Al Comando del XV Corpo Armata, P.M. 15;
Al Comando del XXII Corpo Armata, P.M. 78;
Al Comando M.M. Italiano in Francia, P.M. 78;
Al Comando Aeronautico della Provenza, P.M. 43;
Al Comando 5' Div. Alpina Pusteria, P.M. 206;
Al Comando Artiglieria d'Armata, Sede;
Al Comando Genio d'Armata, Sede;
All'Intendenza di Armata, P.M. 169. E per conoscenza:
Al Comando Difesa Territoriale, Alessandria;

Al Co­mando Difesa Territoriale, Torino;

Al Comando CC.RR. d'Armata, Sede.

(Diramazione estesa fino ai comandi di compagnia o unità corrispondenti.)

 

Il Comando dell'87° C.A. germanico ha diramato fra le proprie truppe il decalogo di cui viene unita traduzione. In armonia con l'operato del comando dell'87° C.A. é indispensabile che i Comandi italiani illustrino e ottengano da tutti i dipendenti la più cameratesca collaborazione. Richiamo segnatamente la necessità del saluto reciproco. Gli ufficiali, con opportune istruzioni, facciano conoscere ai dipendenti i distintivi di grado dell'eser­cito alleato. Una volta di pi ú la severità di vita, la serietà del servizio, l'in­teressamento a favore dei dipendenti sono indispensabili per affermare presso gli alleati la forza vitale del nostro Esercito.

 

Il Generale di Armata Co­mandante

Mario Vercellino

 

 

DECALOGO PER I SOLDATI DELL'87° C.A.

 

1. L'Italia è entrata in guerra nel 1940, dissanguata nei precedenti conflitti in Africa Orientale ed in Spagna, per tenere fede al patto con la Germania. Non è bello ricordare al soldato italiano che il suo armamento è insufficiente.

 

2. L'Italia non è un paese d'occupazione. Ha proprie leggi, proprie istituzioni e proprie norme. Tocca al soldato alleato in Italia di unifor­marsi ad esse quali ad esempio: disciplina stradale, limitazione nell'uso di macchine fotografiche per necessità di segreto, militare, divieto di frequen­tare determinati locali pubblici, obbligo di esibire documenti di riconosci­mento e di dare le proprie generalità, se richiesto, a superiori ed organi di polizia italiana.

 

3. L'Italia è una terra povera. Far grandi acquisti per la larga dispo­nibilità di danaro significa arricchire gli speculatori e guadagnarsi l'odio della popolazione.

 

4. L'italiano è geloso della sua piccola proprietà terriera e delle sue donne. Occorre rispettare la proprietà privata e le abitudini italiane.

 

5. La differenza di lingua porta sovente ad equivoci. Invece di pre­tendere di farti ragione da te, segnala gli eventuali torti ai tuoi superiori che provvederanno ad assicurare giustizia per te quando avrai ragione.

 

6. Il vino ed i liquori nel clima caldo d'Italia sono pericolosi. L'ita­liano disprezza l'ubriaco e considera l'ubriachezza un'aggravante.

 

7. È difficile per il soldato italiano riconoscere i gradi dell'esercito germanico. Non ritenere che il mancato saluto sia dovuto a cattiva volontà. In caso di dubbio saluta ugualmente perché è atto di civiltà.

 

8. Il regime fascista è caduto per questioni di politica interna e non per ragioni di guerra. Non interessarti e non fare apprezzamenti su que­stioni interne italiane.

 

9. Il soldato italiano è fedele, tenace e capace di ogni sacrificio. No­nostante oltre tre anni di sorte avversa sa ancora resistere. Se vuoi che combatta spalla a spalla con te devi mostrargli che hai compreso i suoi dolori ed i suoi sacrifici.

 

10. La propaganda anglo-americana insinua costantemente che i ger­manici sono, nei riguardi degli italiani, sleali e prepotenti. Dimostra con il tuo contegno che il soldato germanico è invece schietto e giusto. Ri­corda che incidenti fra italiani e tedeschi possono essere sfruttati dalla propaganda nemica per dividerci, mentre è vitale interesse reciproco restare insieme fino in fondo per la vittoria delle nostre armi.

 

 

 

 

 

DISPACCIO DEL MINISTRO DELLA MARINA DE COURTEN

A TUTTI I COMANDI DIPENDENTI

(numero di protocollo B 33556)

 

È stato segnalato che, da qualche tempo, per evitare incidenti con l'alleato, comandanti di vario grado, reparto o singoli militari assumono un atteggiamento remissivo ed acquiescente di fronte a richieste germaniche non legittimate né da ordini né da direttive superiori. Sono avvenuti altresì casi di atti di violenza commessi talvolta a , mano armata, da taluni ele­menti delle FF.AA. germaniche. E in questi ultimi giorni si sono avuti altri atti di violenza estesi anche contro pubblici funzionari ai quali è stato imposto a mano armata di violare le consegne. Avviene poi che non sempre si reagisce ad atti di violenza, ingiustificati, lesivi per il normale [Errata nel testo originale: sta, evidentemente, per “morale”] delle no­stre truppe e della popolazione e può in definitiva nuocere ai reali inte­ressi dell'Italia e della Germania, mentre è inammissibile che militari ita­liani si lascino trattare in tal modo da Ufficiali e militari germanici.

 

In sede superiore è stata richiamata l'attenzione del Generale germa­nico presso il Q.G. delle FF.AA. italiane sulla necessità che le forze ger­maniche si comportino in modo da non provocare incidenti, che sarebbero pregiudizievoli per il cameratismo e la mutua fiducia tra le forze armate alleate e tra le FF.AA. e la popolazione civile. Ad ogni buon fine, però, gli Enti in indirizzo invitino i Comandi ed Enti dipendenti a far presente con la dovuta forma, al proprio personale che eventuali atti ingiustificati di violenza — specie se tendenti a violare ordini superiori — non debbono essere assolutamente tollerati e che ad essi devesi reagire energicamente e con ogni mezzo.

 

F.to De Courten.

 

 

 

 

 

MEMORIALE CAVALLERO

 

Forte Boccea, 27 agosto 1943

 

Avevo sperato che il delegato del Capo del Governo mi comunicasse le ragioni della mia presente situazione: ciò non essendo avvenuto, credo poter procedere per ipotesi attendibili; perciò toccherò i seguenti punti: 1) mia attività nei riguardi dei recenti avvenimenti; 2) miei rapporti con S.E. Farinacci; 3) miei rapporti coi tedeschi.

 

 

I

 

Nel novembre u.s., allorché S.E. Mussolini fu gravemente malato, si dovette considerare l'ipotesi peggiore. Me ne preoccupai quale Capo di Stato Maggiore Generale e impartii disposizioni per tale ipotesi al gen. Magli, al Capo di Stato Maggiore per l'esercito gen. Ambrosio, al Sotto­segretario alla Guerra generale Squero. Le riunioni a tale scopo furono due; dissi chiaramente che dovevamo essere pronti per assicurare nel Paese e prima di tutto a Roma una situazione ordinata, per consegnarla al So­vrano che avrebbe deciso a chi affidare governo e comando.

Previdi che la persona sarebbe stata S.E. il Maresciallo Badoglio, ai cui ordini, dissi ai miei subordinati, ci saremmo messi tutti quanti.

 

Un inaspettato intervento della Milizia nella questione guastò un poco le cose, però la situazione fu superata dal miglioramento del malato.

 

La questione non riapparve più nei mesi di dicembre e gennaio, per­ché tutta la tensione era assorbita dalla guerra in Africa.

 

A fine gennaio lasciai il comando; però il problema dell'allontanamento di S.E. Mussolini, almeno dal comando, ha continuato a occuparmi.

 

Era mio avviso che, ove fosse caduta la Tunisia, quello sarebbe stato il momento propizio per risolvere la situazione. Ricordo di aver parlato di ciò con varie persone, anche con insistenza. Ne parlai anche col ten. col. Roberto di San Marzano, ripetutamente; debbo aggiungere qui che a questo ufficiale, fratello del mio compianto ufficiale addetto e vecchio amico di casa, avevo detto in precedenza quanto pensavo e, già dal novembre, quanto stavo preparando.

 

Questi miei rapporti col ten. col. di San Marzano erano determinati dal fatto che egli si trovava presso S.A.R. il Principe di Piemonte. Tali rap­porti continuarono fino alla sera del 25 luglio.

 

Del problema si parlò molto altresì col Marchese Giovanni Visconti Venosta, vecchio amico del tempo di guerra e si concluse insieme che con­venisse far giungere il nostro pensiero in alto loco. Visconti Venosta mi assicurò di aver provveduto per parte sua.

 

Venne poi l'attacco alla Sicilia. La situazione diveniva sempre più pressante, il mio pensiero prese forma più concreta.

 

Si pensava con l'amico Visconti Venosta, e oggi riconosco che si aveva torto, che fosse utile far pervenire questo pensiero in alto. Esso pensiero si concretava come segue: S.M. il Re, che aveva delegato il comando a S.E. Mussolini, poteva revocare la delega; con ciò, e col dichiarare tutto il ter­ritorio in istato di guerra, si potevano passare all'autorità militare tutti i poteri; il resto sarebbe venuto da sé.

 

L'amico Visconti Venosta ed io eravamo pienamente concordi nel ri­tenere che il Governo non avrebbe potuto essere affidato ad altri che al Maresciallo Badoglio.

 

Per far pervenire questo nostro pensiero in alto, Visconti Venosta mi chiese se avrei potuto parlarne col Grande Ammiraglio. Questi ha sempre avuto per me benevolenza e perciò aderii. Ebbi col Grande Ammiraglio alcuni colloqui e lo trovai pienamente nel nostro ordine di idee.

 

Avevo fatto studiare l'aspetto giuridico costituzionale del problema dal Consigliere di Cassazione Giovanni Provera, mio compagno di adolescenza. Il Grande Ammiraglio ebbe la grande cortesia di scrivere sotto mia detta­tura il sunto di quell'esame e capii che si sarebbe senz'altro occupato della cosa. Tutto ciò avveniva verso Pentecoste.

 

Frattanto io stavo svolgendo una misurata propaganda nel senso anzi­detto. Per limitare il numero delle persone che cito, ricorderò il senatore Luigi Burgo, mio buon amico, che avevo occasione di vedere nelle mie frequenti gite in Piemonte. Il Burgo fu da me messo al corrente per almeno tre mesi dell'evoluzione del mio pensiero e in parte del lavoro che stavo svolgendo. Egli si entusiasmò nel programma e giunse a dirmi che avrebbe messo, ove necessario, a mia disposizione una somma di 100 milioni, ed anche superiore, per finanziare un eventuale movimento; naturalmente, nel ringraziare della generosa offerta, risposi che il denaro non mi sarebbe stato di bisogno.

 

Avevo saputo, nel frattempo, che fermenti andavano nascendo in seno all'Esercito; ne ebbi terrore perché ritenevo e ritengo che qualsiasi movi­mento fuori della legge costituzionale avrebbe condotto a un disastro. Non mancai di esprimere il mio pensiero e particolarmente con l'Ecc. Ambrosio che trovai perfettamente orientato in tal senso.

 

Un colloquio sull'argomento generale che qui si tratta ebbe luogo con S.E. Ambrosio credo verso fine maggio, essendomi recato da lui per confe­rire, a sua domanda, su una questione di servizio.

Gli apersi l'animo mio, dicendogli quanto stavo facendo e gli feci prevedere, perché in ciò avevo fede, che il fatto auspicato sarebbe avve­nuto. Egli mi disse che gli sarebbe occorso un preavviso di 7 giorni; gli feci prevedere che avrebbe avuto un preavviso di un'ora.

 

Sulle impazienze di cui avevo notizia, trovai S.E. Ambrosio orientato e ben deciso ad impedirle.

S.E. Ambrosio venne a casa mia ai primi di luglio per visitare l'abi­tazione che dovevo cedergli. In quell'occasione gli riparlai dell'argomento dicendogli che il nuovo Capo sarebbe stato certamente il Maresciallo Badoglio e che per intanto io mi mettevo agli ordini di S.E. Ambrosio per ogni occorrenza, del che egli si mostrò grato.

 

Vi sono ancora due persone che giova ricordare quali testimoni con­tinuati del mio travaglio spirituale e al corrente dei miei pensieri: una vecchia signora, che considero come madre, novantaduenne ma di spirito agile e lucida mente: Donna Rosa Celoria Manzi, vedova del senatore Ce­loria astronomo di Brera (Casale Monferrato - Via Vittorio Emanuele 12), e un alto prelato: consigliere spirituale della mia famiglia e perciò anche mio. Di quest'ultimo dirò il nome se necessario.

 

 

II

 

Accenno di sfuggita che i miei rapporti con Farinacci nascono da rap­porti familiari di lui adolescente con zii di mia moglie Zanichelli di Casal Maggiore. Ciò premesso preciserò che pochissimo ho veduto Farinacci prima della mia assunzione alla carica di Capo di Stato Maggiore Generale e durante; salvo il periodo d'Albania, durante il quale era colà distaccato.

 

Dopo la mia cessazione dalla carica ci incontrammo un paio di volte prima del luglio.

 

I nostri rapporti si erano alquanto raffreddati; ma mi interessò molto, all'atto della nomina di Scorza a Segretario del partito, la dichiarazione sua che Scorza era nettamente contrario al Duce.

 

Pur interessandomi di seguire la cosa mi astenni dallo stringere mag­giori contatti.

 

Fu solo dopo la tempestosa riunione dei gerarchi presso il Duce avve­nuta il 15 luglio che Farinacci desiderò vedermi e mi mise al corrente della situazione.

 

Era ben chiaro, nel pensiero di Farinacci, che il Duce dovesse cessare dal comando e che questo fosse ripreso dal Sovrano. Questo per me il punto eccezionale dal quale tutto poteva derivare.

 

Né potevo io, all'oscuro di quanto altrove si progettava, pensare ad una soluzione più radicale che fu per tutti inaspettata. Nell'altro campo del fascismo io non potevo penetrare perché la situazione era tenuta da persona a me ostile (Ciano).

 

Quando, la sera del 25 potei avere da me il ten. col. di San Marzano, lo misi al corrente della situazione ed egli prese alcuni appunti, lasciando poi la mia casa cinque minuti prima del mio fermo.

 

Ritenni che questo mio fermo fosse stato ordinato da S.E. Mussolini, solo più tardi appresi la verità.

 

I miei rapporti con Farinacci in quel periodo si sono limitati a consta­tare e rafforzare in lui il concetto del passaggio del potere militare al Sovrano.

 

 

III

 

Dopo la mia cessazione dalla carica, i miei rapporti, sia diretti che indiretti, con le autorità germaniche, furono nettamente troncati.

 

Non ho più riveduto fino ad oggi, né un comandante tedesco né un loro dipendente. Cosi pure, salvo una volta, della quale dirò, non ebbi più rapporti con l'Ambasciatore, né con l'Ambasciata, se si eccettua un invito del maggio ad una serata musicale, tutta di civili e ad una successiva visita di ringraziamento.

 

Il solo incontro di cui sopra è avvenuto presso l'Ecc. Farinacci, per desiderio di questi, ed io vi ho, dichiaratamente, soltanto assistito (un paio di giorni avanti il Gran Consiglio).

 

Contenuto del colloquio: Farinacci ha fatto un violento attacco contro il Duce; Mackensen si è schermito, Farinacci ha rincarato la dose e Mackensen ha pregato di smettere; poi, però, ha detto che le stesse critiche egli aveva presentato per suo conto al Führer e che questi ne aveva fatto oggetto di rimarco al Duce a Feltre. Poi Farinacci ha chiesto se si potevano attendere rinforzi, specie aerei, dalla Germania, secondo le richieste, a noi non note, fatte da S.E. Ambrosio a Feltre; Mackensen fu vago nel rispon­dere, accennando a condizioni o meglio a premesse che il Führer aveva chiesto fossero realizzate avanti l'invio di truppe o di forze aeree; non pre­cisò queste premesse.

 

Fu accennato, mi sembra da Mackensen, alla questione di un comando unico, con una voluta tendenza a farvi prevalere l'elemento germanico, al che io dissi chiaramente che ciò non poteva assolutamente andare, e che secondo me, si poteva pensare ad aggregare al comando italiano un co­mando tedesco in sottordine.

 

Mackensen disse che avrebbe riferito il contenuto dei colloqui a S.E. Bastianini.

 

Questo è il solo contatto, come e si vede del tutto anodino, da me avuto le autorità germaniche dal 31 gennaio ad oggi.

 

In fede.

 

 

 

 

Ugo Cavallero – militare (Casale Monferrato 1880 – Frascati 1943)
Avviato agli studi militari nel 1898, sottotenente di fanteria nel 1900, fu insegnante alla scuola centrale di tiro a Parma nel 1906. Ufficiale di vasta cultura, uscito nel 1911 dalla scuola di guerra di Torino presso la cui università aveva anche compiuto studi di matematica pura, tradusse importanti opere geografiche dal tedesco e dall'inglese. Nel 1912 partecipò alla guerra libica col grado di capitano. Durante la prima guerra mondiale fu sempre addetto al Comando Supremo del quale, nel 1917-18, col grado di tenente colonnello, resse l'ufficio operazioni divenendo collaboratore di Badoglio. Ebbe parte di rilievo nell'elaborazione dei piani per le vittoriose battaglie del Piave e di Vittorio Veneto. Alla fine della guerra, promosso generale a soli trentotto anni, fu inviato a Parigi quale membro del comitato permanente interalleato.

 

Nel 1920 fu collocato a sua domanda in posizione ausiliaria speciale: l'elevato numero di generali anziani sembrava infatti precludergli una rapida carriera. Ebbe per qualche tempo posti di responsabilità nell'industria privata e fu, tra l'altro, direttore centrale della società Pirelli. Nel 1924 sembrò che dovesse succedere a Diaz quale ministro della Guerra, ma la candidatura tramontò - pare - per dissensi circa gli stanziamenti in bilancio.

 

Nel maggio 1925, dopo l'assunzione dei ministeri militari da parte di Mussolini fu nominato sottosegretario per la Guerra. Rimanendo nella carica fino al 1928, presiedendo al riordinamento dell'esercito insieme con Badoglio, assurto a capo di Stato Maggiore generale. Durante il sottosegretariato divenne rivale acerrimo di Badoglio: quasi certamente a una sua iniziativa si deve la riforma legislativa del 1927 con cui i poteri del capo di Stato Maggiore generale furono grandemente ridotti. Nel 1928 fu rimosso dalla carica per intervento del re, dopo un clamoroso episodio d'intolleranza tra lui e Badoglio. A una cerimonia militare i due generali non si salutarono: Badoglio, ritenendosi superiore come maresciallo e capo di Stato Maggiore generale, aspettava il saluto di Cavallero che, a sua volta, aspettava il saluto di Badoglio ritenendosi superiore in qualità di sottosegretario.

 

All'atto della cessazione della carica Cavallero, senatore dal 1926, ricevette il titolo di conte. Tornato all'industria, assunse la presidenza della società Ansaldo, dove si adoperò per l'ammodernamento del materiale bellico navale e terrestre (artiglieria contraerea, carri leggeri). Nel 1933 peraltro dovette lasciare l'Ansaldo per l'insorgere di gravi sospetti.Le corazze applicate a un incrociatore non corrispondevano ai campioni i cui marchi erano stati contraffatti.

La documentazione disponibile non consente di stabilire se vi fosse una sua responsabilità personale: la circostanza tuttavia non può

tacersi poiché da essa originano - fondate o meno - le accuse mosse da qualche storico e numerosi memorialisti della seconda guerra mondiale.

 

Dopo un periodo in cui fu delegato italiano alla conferenza di Ginevra per il disarmo venne richiamato in servizio agli ultimi mesi del 1937 e, col grado di generale di corpo d'armata, comandò le truppe nell'Africa orientale appena conquistata. Richiamato in patria nella primavera del 1939 per dissidi col viceré Amedeo d'Aosta, divenne vicepresidente della commissione economica e militare per l'applicazione del "patto d'acciaio" con la Germania. In questa qualità fu latore a Berlino, nel giugno 1939, di una lettera con cui Mussolini avvertiva Hitler che l'Italia non sarebbe stata pronta alla guerra prima del 1943: sarà tale documento, successivo alla firma del patto, a ingenerare più tardi l'errata credenza che il trattato contenesse il reciproco impegno a ritardare la guerra.

 

Fu nominato capo di Stato Maggiore generale il 6 dicembre 1940 in seguito alle dimissioni di Badoglio. Inviato in Albania (dove il 30 dicembre assunse il comando del locale gruppo d'armate in sostituzione del gen. Soddu), si occupò esclusivamente di tale fronte fino alla primavera 1941, mentre a Roma le sue funzioni erano esercitate dal sottocapo gen. Guzzoni. In Albania Cavallero riusciva a evitare la rotta completa delle nostre truppe bloccando a fine gennaio 1941 l'iniziativa greca. Falliva invece la controffensiva italiana in Val Desnizza del marzo 1941, voluta da Mussolini e Cavallero nella speranza di prevenire l'imminente calata tedesca in Balcania. L'ultima fase della guerra lo trovò impegnato a sfruttare il successo tedesco in Grecia e in Iugoslavia: respinto un attacco iugoslavo su Scutari, avanzò fino a Ragusa, in Dalmazia, e si congiunse con le avanguardie tedesche a Dibra e a Struga in Macedonia. Infine le sue forze sospinsero faticosamente i Greci verso il confine albanese, lungo il quale peraltro già si trovavano i Tedeschi risaliti dalla Tessaglia per i passi del Pindo nell’aprile 1941.

 

Nel maggio 1941 rientrava a Roma per esercitare anche di fatto la carica di capo di Stato Maggiore generale. Promulgata una legge (27 giugno 1941) che gli dava poteri direttivi sui capi di Stato Maggiore delle tre forze armate, organizzò in modo ampio e razionale il nuovo comando supremo mirando a un'effettiva coordinazione interforze e a penetranti interventi in tutti i settori della nazione in guerra.

La corretta valutazione dell'opera di Cavallero non può prescindere da due circostanze determinanti: innanzi tutto, l'irreversibile preminenza del comando tedesco anche nel nostro teatro di guerra, alla quale era difficile opporsi; in secondo luogo l'invadenza di Mussolini alla quale non pose neppure quei freni che la sua indubbia preparazione tecnica gli suggeriva.

 

La sua acquiescenza alle velleità mussoliniane (e non a richieste tedesche) costò all'Italia l'invio di crescenti forze in Russia con conseguenze umane e strategiche.

Le dieci divisioni inviate in Russia tra il 1941 e il 1942 assorbirono la quasi totalità delle nostre artiglierie moderne nonché oltre 16.000 automezzi, ossia più di quanti Cavallero stesso ne stimava indispensabili per la programmata motorizzazione dell'esercito africano. Vicenda tanto più grave se si considera che i maggiori armamenti destinati alla Russia furono accumulati proprio nel primo semestre del 1942, quando l'allentamento della pressione inglese sulle rotte mediterranee consentiva più larghi e sicuri invii oltremare.

Nell'organizzazione dell'esercito finì con l'avallare il desiderio mussoliniano di moltiplicare le divisioni. Gli smisurati programmi del 1941 (ottanta divisioni di cui ben sei corazzate) non si realizzeranno per la deficiente produzione bellica e il sopravvenire delle perdite.

Tuttavia è certo che anche la loro semplice adozione ebbe effetti dispersivi contrastanti con la vera natura del problema militare italiano che, come Cavallero ben sapeva e affermava in vari documenti, avrebbe richiesto solo piccole forze altamente qualificate. Va invece ascritta a suo merito l'acuta percezione dei problemi della guerra mediterraneo-africana che era del tutto mancata al predecessore Badoglio.

 

Cavallero non tardò a capire che le brillanti qualità tattiche dimostrate da Rommel nel deserto sarebbero rimaste sterili fin quando non si fosse eliminata Malta, il principale ostacolo alle nostre comunicazioni marittime. Alla fine del 1941 diede perciò impulso alla preparazione di un assalto anfibio da sferrare nell'estate successiva. Per quanto sia vano ipotizzare l'esito di un'operazione rimasta poi solo sulla carta, è certo che a essa egli dedicò attività instancabile e professionalmente valida.

 

Il disegno strategico di Cavallero fu vanificato nel giugno 1942 quando Hitler, dopo la presa di Tobruk, decise l'inseguimento a fondo in Egitto, rinunciando all'attacco di Malta, che pure aveva approvato solo due mesi prima in un incontro al Berghof con Mussolini e Cavallero.

Promosso maresciallo d'Italia il 1º luglio 1942 soprattutto per la necessità politica di equipararlo a Rommel, nominalmente suo subordinato. È tuttavia curioso che la promozione di Cavallero coincida con l'accantonamento dei suoi piani. Nel luglio-agosto 1942 il definitivo arresto a El Alamein dell'avanzata Rommel, dovuto anche alla rinnovata capacità offensiva di Malta, sembrò dar ragione a Cavallero, sul quale gravava peraltro la già accennata responsabilità per l'imprevidente dispersione di mezzi in Russia. Nell'autunno 1942,con l'offensiva inglese a El Alamein e lo sbarco anglo-americano nell'Africa francese, inizia l'ultimo e più difficile periodo del comando Cavallero. Il maresciallo, impegnato nei complessi problemi dello sgombero della Libia e nell'audace improvvisazione di una testa di ponte in Tunisia, doveva anche difendere la sua posizione in patria. Uomini delle forze armate e del regime (soprattutto Ciano) vedevano in lui un pericoloso concorrente nei rivolgimenti politici che la crisi militare pareva rendere inevitabili e che la malattia di Mussolini (novembre 1942) fece per un momento sembrare anche più imminenti.

 

Il 31 gennaio 1943 fu rimosso dalla carica e sostituito dal gen. Ambrosio. La sua caduta va principalmente addebitata al bisogno di Mussolini di trovare un capro espiatorio per i disastri militari (a quelli africani si aggiungeva la perdita dell'armata in Russia). Vi influirono però anche profonde correnti di ostilità che lo avevano sempre avversato nell'esercito e nel mondo politico. Nel luglio 1943 Badoglio, divenuto capo del governo, provvide subito, e senza precisi motivi, al suo arresto, poi revocato per intervento del re. Il 23 agosto successivo Badoglio lo fece nuovamente arrestare imputandolo di un molto dubbio complotto. Tradotto a forte Boccea, Cavallero dettò al gen. Carboni, capo del Servizio informazioni militari, un documento (noto come "memoriale Cavallero"), nel quale rivendicava il merito di aver cospirato contro Mussolini fin dal novembre 1942 e di aver previsto il governo Badoglio. Tali affermazioni non salvarono certamente il loro autore agli occhi di Badoglio, ma lo compromisero di fronte ai tedeschi che sembra abbiano ritrovato il documento sul tavolo dello stesso Badoglio l'8 settembre 1943. La posizione di Cavallero divenne difficile quando il maresciallo tedesco Kesseiring, suo amico personale, dopo averlo liberato, gli offrì il comando delle forze armate della nascente repubblica fascista.

La mattina del 14 settembre 1943 fu trovato ucciso da un colpo di pistola nel giardino dell'albergo Belvedere di Frascati, all'indomani di una cena e di un colloquio con Kesselring.

È controverso se si sia tolta la vita o se i Tedeschi l'abbiano assassinato. È comunque certo che aveva espresso fermo proposito di rifiutare la collaborazione che gli veniva sollecitata.

 

 

 

Hans-Georg Viktor von Mackensen - Diplomatico tedesco (Berlino 1883, Costanza 1947)

Iniziò nel 1919 la sua carriera alla Wilhelmstrasse. Segretario d'ambasciata a Roma ed a Bruxelles, nel 1929 fu promosso incaricato d'affari in Albania e nel 1933 ministro plenipotenziario a Budapest. Nel marzo 1937 fu nominato segretario di stato (carica corrispondente al sottosegretariato agli esteri) alla Wilhelmstrasse. Il 1° aprile 1938 divenne ambasciatore a Roma. La rapida e brillante carriera durante il nazionalsocialismo fu dovuta soprattutto alla pronta esecuzione di ogni ordine dei suoi superiori. Contrariamente al suo predecessore a Roma von Hassell, non aveva idee proprie per valutare freddamente la politica dell'Asse e le complicazioni diplomatiche e politiche cui doveva necessariamente condurre.

 

 

 

 

 

DICHIARAZIONI DEL GEN. GIUSEPPE CASTELLANO RILASCIATE ALLE AUTORITÀ GIUDIZIARIE DI BARI RIGUARDO

L'EX PREFETTO TEMISTOCLE TESTA

 

Bari, 1° novembre 1948

 

Io sottoscritto, Generale Castellano Giuseppe fu Francesco, a disposi­zione del Comando Territoriale di Bari, dichiaro quanto appresso:

 

Ho conosciuto il prefetto Testa Temistocle il 9 aprile 1941 a Fiume dove mi ero recato, nella mia qualità di Sottocapo di Stato Maggiore della II Armata, a presenziare l'azione delle nostre truppe all'atto dello sconfina­mento in Jugoslavia.

 

Tale sconfinamento avvenne nella forma più pacifica perché il prefetto Testa aveva già ottenuto dal Comando Jugoslavo la resa della città di Sussak.

 

Oltrepassata questa località, si presentava il primo ostacolo per le nostre truppe che dovevano conquistare il Monte Kameniak, modernamente for­tificato, per poi procedere verso Karlovac.

 

Verso tale ostacolo inviai le prime truppe disponibili e cioè il 12° regg. Bersaglieri al comando del col. Vittoria Vincenzo.

 

Con la colonna, che affrontava una impresa molto difficile, volle, ad ogni costo, andare il prefetto Testa vincendo la mia iniziale opposizione perché non vedevo un borghese prendere parte ad un combattimento.

 

Oltrepassato il Kameniak il reggimento Bersaglieri raggiunse a marce forzate Karlovac, giungendovi prima dei tedeschi i quali volevano im­padronirsi di questa regione molto ricca dal punto di vista agricolo.

 

Testa fu sempre con i bersaglieri.

 

Per tale suo comportamento gli fu conferita la medaglia di bronzo al valor militare.

 

Conquistata la Jugoslavia, il prefetto Testa fu nominato Alto Commis­sario del territorio fiumano alla dipendenza del Comando di Armata. In questo suo incarico ebbi modo di constatare la sua attività, il suo equilibrio politico, la sua dinamicità.

 

In particolare debbo ricordare quanto egli operò per salvare centinaia di ebrei dalla persecuzione tedesca e ustascia e la organizzazione economico-finanziaria per lo sfruttamento delle risorse dei territori occupati.

 

Queste sue qualità e questo suo comportamento fecero ben presto di­venire il prefetto Testa uomo di fiducia del generale Ambrosio e mio anche per la indiscussa influenza nell'ambiente fascista e sullo stesso Mussolini, al quale spesso il gen. Ambrosio faceva pervenire le proprie considerazioni e i propri suggerimenti tramite lo stesso Testa.

 

Fu proprio Testa che da me pregato si adoperò ed ottenne la nomina a Sottosegretario della Guerra del generale Sorice, nomina che ci era ne­cessaria per l'ulteriore sviluppo del piano da me ideato di abbattimento del fascismo, mettendo a capo dell'amministrazione militare un uomo incline ad ascoltare i suggerimenti di Ambrosio.

 

Le confidenze che il generale Ambrosio ed io facevamo a Testa erano suggerite dalla grande fiducia, mai smentita, che riponevamo nel suo pa­triottismo e nella sua perfetta dirittura, confidenze che giunsero alle cose più delicate e nell'interesse del Paese e che avrebbero compromesso le no­stre stesse persone.

 

Nell'aprile 1943 e precisamente il giorno prima della partenza di Mus­solini per Salisburgo il Gen. Ambrosio ebbe col prefetto Testa un colloquio di estrema importanza e che io posso in sintesi ricostruire in base a quanto sia Ambrosio che Testa mi hanno detto.

 

Ambrosio disse a Testa che sarebbe partito l'indomani per Salisburgo e che desiderava metterlo al corrente dell'azione che egli avrebbe svolta presso Mussolini, per ottenere un esito felice del Convegno.

 

Ambrosio riteneva urgente ed indispensabile ottenere da Hitler quegli aiuti militari che molte volte erano stati richiesti e mai erano stati concessi e senza i quali non era possibile evitare la invasione dell'Italia da parte anglo-americana.

 

Ambrosio fece vedere a Testa l'elenco dei mezzi che noi chiedevamo e disse che questa era l'ultima occasione per Mussolini di salvare l'Italia e se stesso. Che se il Duce fosse tornato da Salisburgo a mani vuote e se cioè fosse definitivamente caduta l'ultima speranza per la difesa del nostro Paese, sarebbe stato necessario togliergli il potere.

 

Ambrosio soggiungeva di non essere d'accordo con me che avrei vo­luto arrestarlo subito e che — a tal uopo — avevo studiato un opportuno progetto e ciò perché ritenevo che Mussolini dovesse sganciarsi dai tedeschi.

 

Soltanto nel caso che Mussolini non ottenesse nulla dai tedeschi e non avesse il coraggio di rompere l'alleanza con essi, Ambrosio sarebbe stato d'accordo con me per l'arresto.

 

Testa obiettò ad Ambrosio che era stato, sino allora, un fedele soldato al servizio del regime e che perciò prima di essere d'accordo circa l'arresto di Mussolini sentiva il dovere di riferirgli quanto Ambrosio gli aveva detto: invitava lo stesso Ambrosio a fare altrettanto direttamente col Duce.

 

Ambrosio dopo alquante esitazioni acconsenti che Testa parlasse in tal senso a Mussolini, impegnandosi anche lui a fare altrettanto in treno durante il viaggio per Salisburgo.

 

In caso contrario sarebbe stato applicato il mio progetto.

 

Al ritorno da Salisburgo Ambrosio e Testa mi dissero che Mussolini era tornato a mani vuote, ma aveva ottenuto da Himmler l'armamento e l'equipaggiamento per costituire una Divisione corazzata della milizia.

 

Testa mi soggiungeva di aver avuto un colloquio drammatico con Mus­solini e di essere ormai persuaso che non rimaneva altra soluzione che quella di applicare il mio piano.

 

Risposi a Testa che la costituzione della Divisione corazzata della mi­lizia era un'altra prova circa la malafede di Mussolini, che pensava più a se stesso che al Paese e che, per quanto riguardava il mio progetto, non solo si era perduto già molto tempo ma dubitavo che si attuasse in breve lasso di tempo, stante la indecisione del Re che sino allora era rimasto sordo ai nostri disperati appelli.

 

Comunque gli promisi che lo avrei tenuto al corrente in Sicilia, dove egli si recava quale Alto Commissario; nomina che Testa ebbe per l'in­fluenza di Ambrosio e contro qualche riluttanza di Mussolini. Ambrosio vedeva in Testa l'unico uomo capace per salvare una situazione tragica nella quale la Sicilia versava, mentre gli anglo-sassoni si approssimavano allo sbarco.

 

La fiducia che anche in questo campo Ambrosio riponeva in Testa ebbe convalida dall'azione di quest'ultimo, che in realtà, in una situazione pressoché disperata, seppe realizzare il difficile rifornimento dell'Isola.

 

In quell'epoca il Testa mi mise in contatto col nuovo Capo della Po­lizia Chierici, che io desideravo frequentare per averlo dalla mia parte il giorno in cui il Re si fosse deciso a far applicare il mio progetto.

 

Prima di partire per la Sicilia Testa mi disse di essere realmente de­presso perché Mussolini non capiva più niente e mi raccomandò di spingere Ambrosio perché influisse sempre più il Re (sic) per la decisione suprema.

 

Dopo il 25 luglio Ambrosio ed io sentimmo la necessità di avere Testa a Roma ed io stesso ne parlai ad Albini perché lo richiamasse.

 

Testa giunse a Roma pochi giorni dopo.

 

Ambrosio ed io gli facemmo presente al suo arrivo che lo avevamo fatto richiamare perché occorreva tenere d'occhio i tedeschi, essere informati dei loro divisamenti e mantenerli a bada, tanto più che si parlava e spe­cialmente al Ministero degli Esteri, di una imminente notte di S. Barto­lomeo.

 

Testa ritenne che bisognava avere in mano le SS e precisamente, il solo uomo che aveva autorità al riguardo e anche su Kesselring: il col. Eugenio Dollmann con cui Testa era in ottimi rapporti, in quanto astutamente era riuscito ad accaparrarsene la fiducia.

 

È da notare che Testa aveva già agganciato il colonnello Dollmann all’epoca del convegno di Salisburgo, parlandogli per averne l'appoggio circa quanto si voleva ottenere dai tedeschi.

Testa quindi divisò di dichiarare chiaro e tondo al Dollmann che, dopo l'insuccesso di Salisburgo, non poteva meravigliarsi dell'arresto di Mus­solini e che d'altro canto a lui, Dollmann, constava come il Comando Supremo e lo stesso Testa avessero fino allora seguito una rettilinea condotti, giungendo sino a chiedergli di intervenire in occasione del convegno di Salisburgo.

 

Testa mi precisò che avrebbe sostenuto con Dollmann la stessa tesi: eliminato Mussolini in seguito agli insuccessi nei confronti del Führer, si era eliminato l'ostacolo maggiore per una intima intesa fra i due Stati Maggiori, perché Mussolini era un dilettante della guerra, e non capiva gli sviluppi ed era soltanto un succube di Hitler al quale aveva persino paura di parlare. La scomparsa, quindi, di Mussolini dalla scena politica doveva significare una pi ú intima intesa tra gli Stati Maggiori dell'Asse e cioè un potenziamento di essi.

 

La tesi di Testa mi apparve subito ottima ragione per cui sollecitai il suo incontro con Dollmann, soggiungendo che io stesso avrei volentieri parlato col colonnello tedesco a rincalzo e a sostegno della tesi di Testa e come garante del Comando Supremo.

 

Di questo piano non feci alcun cenno al Gen. Ambrosio, il quale mi avrebbe senza dubbio inceppato il cammino dato il suo temperamento in­deciso e la sua incapacità nel far prevalere una tesi propria nei confronti del Maresciallo Badoglio.

 

Testa vide Dollmann e ritornò da me subito dopo il colloquio, dicen­domi di averlo trovato inferocito soprattutto contro la mia persona che considerava la maggiore responsabile dell'arresto di Mussolini.

 

Ciò malgrado egli lo aveva convinto e Dollmann fini per accettare un incontro con me. Naturalmente egli non sapeva le mie idee e non sapeva cioè che l'arresto di Mussolini non era stato se non il primo atto dell'a­zione complessiva che doveva portare il distacco dell'Italia dalla Germania.

 

Per me si trattava di convincere Dollmann della mia buonafede nei confronti dei tedeschi. L'incontro avvenne il giorno 28 nell'appartamento di Testa all'albergo Ambasciatori.

 

Superato, per merito di Testa, il primo momento di freddezza, io di­chiarai a Dollmann che lo Stato Maggiore Italiano desiderava continuare a combattere con l'alleato tedesco, che considerava la presenza di Mussolini al potere come un intralcio alla collaborazione militare tra i due Paesi e che desiderava cercare una intima intesa tra gli Stati Maggiori dell'Asse; a questo scopo io pensavo che fosse indispensabile un costante e diretto con­tatto tra me e lui.

 

In questo modo ottenevo di guadagnare tempo evitando la reazione tedesca, la cui minaccia incombeva sull'Italia e specialmente su Roma.

 

Dollmann mi comunicò che era stato fissato il Convegno di Tarvisio e mi disse che da parte dei diplomatici, sia italiani sia tedeschi, si sarebbe insistito perché il Convegno non fosse soltanto militare ma anche politico. Ed egli stabili con me che ci saremmo tenuti reciprocamente al corrente di ogni eventuale sviluppo della situazione e chiamò Testa garante con la sua vita, di questo impegno. Ciò naturalmente impegnava me verso Testa e Testa verso Dollmann.

 

A tale terribile patto Testa ed io giungemmo, con una intesa che passò nel lampo del nostro sguardo, alla chiara visione che soltanto in questo modo saremmo stati sicuri di avere tempestive notizie qualora fosse arri­vato l'ordine di attuare la terribile notte di sangue che Dollmann aveva fatto comprendere pendeva su Roma.

 

Dollmann ed io stabilimmo di riconoscere ufficialmente in Testa la persona pi ú indicata non solo per la garanzia degli impegni, ma anche per mantenere i successivi contatti.

 

Il colloquio con Dollmann mi lasciò fortemente impressionato perché soltanto allora io ebbi la visione del pericolo che sovrastava sull'Italia.

 

E perciò raccomandai caldamente a Testa di non abbandonare Doll­mann nemmeno per un istante, al fine di seguirne l'attività e per cercare di appurare ogni minimo particolare nel progetto di rappresaglia tedesca.

 

Dopo il colloquio, Testa ebbe da Dollmann assicurazione che il piano di rappresaglia tedesco era stato rimandato proprio in virtù di quelle assi­curazioni da noi fornite.

 

Ma la situazione era sempre delicata e ancor più lo era per me in quanto ché mi ero assunto così grave responsabilità senza informare il Go­verno che — preso dal panico pur senza conoscere i progetti tedeschi — avrebbe avuto il collasso definitivo da una notizia del genere facendo trapelare nel conseguente stato di orgasmo e nell'alchimia politica quanto si stava per effettuare.

 

In analoga delicata situazione si trovava Testa.

 

Per questi motivi sollecitai Testa per un ulteriore incontro con Doll­mann dopo Tarvisio, incontro che avvenne nel suo appartamento all'al­bergo Ambasciatori.

 

Dollmann mi raccontò i particolari del convegno e mi disse che mentre i diplomatici avevano dato ai tedeschi una pessima impressione, era rico­nosciuta da Von Keitel la dura franchezza di Ambrosio. In conclusione egli si sentiva autorizzato a convalidare gli accordi presi con Testa e con me subordinatamente alla nostra garanzia di tenerlo informato di qualsiasi av­venimento o progetto in contrasto con gli impegni presi.

 

Dollmann mi fece capire chiaramente che l'atteggiamento incerto del Ministro degli Esteri Guariglia gli faceva sospettare che il Governo italiano tramasse qualche cosa di diverso. E mi disse anche che il progetto venti­lato a Tarvisio di un nuovo incontro con la partecipazione del Re e del Principe Umberto poteva essere niente altro che un tranello per sequestrare detti personaggi; mi ripeté ancora che si rendeva garante di qualsiasi rappresaglia tedesca contro l'Italia.

 

Era evidente che Dollmann aveva ormai sposato in pieno la tesi di

 

Testa e mia, che metteva i militari al di sopra e contro i diplomatici, i quali, con le loro incertezze, portavano il Paese all'estremo disastro.

 

E questo dette a Testa ed a me una maggiore spinta per premere su Ambrosio acciocché ottenesse dal Maresciallo Badoglio l'ordine di allacciare contatti militari con gli anglo-americani, superando tutte le pastoie e tutte le incertezze della diplomazia.

 

In quei giorni era stato di prezioso aiuto per noi il conte Luca .Pie­tromarchi, alto funzionario degli Esteri; uomo di grande intelligenza, al quale io avevo sempre confidato ogni particolare della mia azione e che rappresentava l'unico diplomatico che condividesse pienamente le mie idee. Ed è per questo che Testa ed io ci trovammo quasi giornalmente riuniti con Pietromarchi.

 

L'11 agosto ebbi un ultimo colloquio con Dollmann a palazzo Vido­ni. Egli mi dichiarò che la situazione diveniva ogni giorno più grave tra noi e i tedeschi ed egli desiderava una nuova conferma sulle vere inten­zioni dello Stato Maggiore Italiano. Assicurazione che io naturalmente ho dato.

 

Testa subito dopo questo incontro, mi riferì come Dollmann uscendo da palazzo Vidoni in sua compagnia gli avesse detto: “Oggi abbiamo salvato la Valle Padana dall'occupazione tedesca ed io ho avuto un'arma molto forte per oppormi a ben più tragici progetti criminali di cui un giorno dirò.”

 

Confesso di essere rimasto seriamente impressionato da questo discorso di Testa, anche perché Dollmann diverse volte aveva parlato di reazioni punitive a nostro danno e raccomandai perciò a Testa di curare sempre più la sua relazione con Dollmann.

 

Solo recentemente ho potuto conoscere i particolari del progetto puni­tivo sull'Italia, sia attraverso le dichiarazioni del generale Jodl al processo di Norimberga, sia dalla lettura di documenti tedeschi.

 

Da essi nacque che dopo il 25 luglio, Hitler e i suoi diretti collabo­ratori Himmler e Kaltenbrunnen avevano inviato in Italia un tale Skor­zeny, specializzato in repressioni punitive, con 50 ufficiali e sottufficiali di un gruppo di SS particolarmente addestrate a queste operazioni. Lo Skor­zeny poteva disporre anche della Divisione paracadutisti del gen. Student, dislocata a Pratica di Mare.

 

Queste notizie come ho detto sono venute a mia conoscenza da po­chissimi giorni, però ricordo che Dollmann pur non facendo il nome dello Skorzeny e non parlando specificamente del suo incarico aveva detto chiaramente a Testa che “se la propria vita ormai era in gioco, era in gioco anche quella di Testa, qualora lo Stato Maggiore Italiano fosse venuto meno ai suoi impegni, presi attraverso le mie parole.”

 

Dollmann pregò Testa di riferire a me questo suo discorso per te­nermi legato agli impegni stessi. Non è qui il caso di ricordare quanto è scritto nei documenti tedeschi, ma ritengo doveroso far presente che il piano di repressione era di una ferocia inaudita e si estendeva persino al Va­ticano.

Dopo l'ultimo colloquio con Dollmann, Testa parti per Porretta ed io, che prevedevo una mia prossima partenza per l'estero, gli raccomandai ancora una volta di tenere in mano le fila del nostro complotto, tenendo presente che dal suo coraggio e dalla sua capacità dipendevano le sorti d'Italia.

 

Rividi Testa dopo il mio ritorno da Lisbona e gli consigliai di partire per Porretta e di non farsi vedere da Dollmann perché ormai le cose erano giunte ad un punto tale che sarebbe stato insostenibile continuare nella commedia con Dollmann.

 

Quanto sopra costituisce il racconto degli avvenimenti.

 

Sento il dovere preciso di mettere in evidenza che l'opera del prefetto Testa non può essere valutata nella sua pienezza se non riferendoci a quel­l'atmosfera dei tragici giorni dal luglio al settembre 1943 e se non si tien conto del travaglio morale sopportato da quest'uomo che, fedele servitore del fascismo, non appena ha intuito il precipizio nel quale il suo Capo get­tava il Paese, non ha esitato un momento per schierarsi contro di lui.

 

Ciò ha fatto non soltanto a parole, ma con fatti precisi esponendo la propria vita e quella dei suoi cari, per l'interesse della Patria.

 

Dal tragico colloquio avuto sul treno in partenza per Salisburgo con Mussolini, al quale disse che gli si presentava un'ultima occasione per sal­vare l'Italia e che se non l'avesse saputa cogliere sarebbe stato giustamente punito; ai suoi quotidiani contatti con me, che lo esponevo di fronte ai fascisti, ai contatti tenuti con Dollmann; alla garanzia da lui data a costui circa la veridicità delle mie asserzioni, è tutta una gamma di opere di cui difficilmente può trovarsi paragone in altro italiano.

 

 

 

 

 

Lettera di Suardo al Senatore Raimondi

 

Alla caduta di Mussolini, il conte Giacomo Suardo si di­mise dalla Presidenza del Senato. Il sen. Raimondi gli scrisse di condividere l'atteggiamento astensionistico tenuto in Gran Consiglio esprimendo l'opinione secondo cui egli, per dare un voto, avrebbe dovuto essere preventivamente autorizzato dai suoi colleghi.

 

SENATO DEL REGNO

 

Maggio, 28 luglio 1943

 

Caro Suardo,

ho compreso benissimo la tua astensione nella seduta del Gran Consiglio. Vi partecipavi nella qualità di Presidente del Senato e non potevi esprimere un voto senza esservi autorizzato dall'alto Consesso. Ma mi rammarica molto il vederti lasciare il posto nel quale ti eri accattivata la stima e la simpatia non solo, ma l'af­fetto di tutti i Senatori senza distinzione di tendenze politiche, con la tua bontà, l'affabile e squisita gentilezza e con la forse ec­cessiva modestia.

 

Ti sgravi di una cura faticosa, preoccupata e forse molesta e puoi essere lieto; non posso esserlo io: ma anche in questo mo­mento il mio pensiero va a te con cuore sempre memore e grato.

 

Vogli gradire il mio devoto affettuoso saluto.

 

Tuo aff.mo

Antonio Raimondi

 

 

 

 

 

Il 17 agosto 1943 Dino Grandi, prima di imbarcarsi sull'aereo diretto a Ma­drid e poi in Portogallo, consegnò al marchese Zamboni la se­guente lettera.

Da essa risulta anche che Grandi consegnò al Ministro della Real Casa il testo della deliberazione votata in Gran Consiglio — con in calce le firme autografe dei 19 membri che l'avevano approvata — perché il documento fosse subito rimesso nelle ma­ni del Sovrano. Grandi aggiunse — in quell'alba del 25 luglio alle 4 antimeridiane — che del documento erano stati fatti due originali: uno, era stato consegnato al Capo del Governo perché fosse da questi rimesso direttamente al Re; il secondo esemplare Grandi faceva trasmettere subito al Sovrano per fornirgli , ad ogni buon fine, previa ed immediata conoscenza.

Il memoriale inedito è di particolare importanza in quanto, non provenendo dall'archivio Grandi e concordando nei dati informativi, autentica i particolari che l'ex Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (ignaro che quel testo fos­se sopravvissuto alle dispersioni prodottesi durante il regno del Sud, dopo l'8 settembre 1943).

 

Roma, 17 agosto 1943

 

Caro D'Acquarone,

 

il latore Ti informerà sulle ultime circostanze della partenza per la mia missione.

Spero che, coll'aiuto di Dio, potrò essere di qualche servigio alla Patria e al Re.

Conto di poterti tenere informato.

Cordialmente

 

Dino Grandi

 

 

A S.E.

il Duca D'Acquarone

Ministro della Casa del Re

Roma

 

 

 

 

 

RELAZIONE DEL MAGG. ALBERTO BRIATORE
DELLA DELEGAZIONE MILITARE ITALIANA INVIATA AD ALGERI
stralci

6 settembre 1943

 

Il giorno 6 settembre alle ore 15, come da ordini ricevuti, mi presentai al C.do Deposito 2° Bersaglieri, in Roma, dove si doveva concentrare la missione incaricata di un servizio segreto all'estero. Arrivai sul posto quando ancora non vi era nessuno ma subito dopo si presentarono anche gli altri ufficiali: Col. De Carli, col. Pederzani, ten. col. Gualano, ten. col. Ducros, ten. col. Chiapparelli, magg. Tessitore, cap. di vascello Giuriati, ten. col. R. A. Donadio, magg. Rocca, cap. Guarrasi, s. ten. Lanza. Dopo una lunga attesa in una sala del circolo ufficiali, dove eravamo stati invitati a riunirci con preghiera di non uscire, il col. De Carli, che era il più elevato in grado e più anziano, fu chiamato al C.S. per ricevere istruzioni. Ritornò alle di­ciotto e ci disse che si doveva subito partire ma che non conosceva, né ci avrebbe potuto dire, la destinazione e il compito. [...]

 

Si arrivò a Palermo alle 9,30 circa del 7 e, siccome eravamo in uniforme militare, il trasferimento all'aeroporto fu eseguito con scrupolosa cautela, in automobili chiuse. [...]

 

Ripartiti dopo due ore arrivammo all'aeroporto di Cartagena alle 15,30 circa e di qui in auto raggiungemmo Salambò dove ci sistemarono in una villa isolata [...]. Alle 17 fummo invitati a recarci in altra villetta per con­sumare il tè. Il sig. gen. Castellano che c'era venuto a salutare all'aeroporto non si era fatto più vedere. Riapparve soltanto all'ora di cena. Prima della mensa ci riunì sul terrazzo per renderci edotti del compito della missione. Dopo brevi parole per dimostrare le ragioni che avevano indotto il governo a fare questo passo, ci disse che lo avremmo dovuto coadiuvare in un se­condo tempo e precisamente quando, ad armistizio concluso, saremmo stati avviati quali ufficiali di collegamento presso le G.U. (grandi unità - N.d.A.) anglo-americane operanti in Italia. Ma che fino allora avremmo dovuto rimanere inattivi perché lui era abituato a lavorare da solo perché soltanto così facendo era sicuro che le cose andavano bene. In quella circostanza domandò a ciascuno degli ufficiali componenti la missione la propria pro­venienza; giunto il mio turno gli dissi che ero del S.I.M.; egli non poté frenare e celare un gesto di disappunto dicendo: “Che cosa c'entra qui il S.I.M.!” E aggiunse: “Resta ben inteso che qui non si raccolgono e non si ricercano notizie. Si tratta di un ordine, informazioni qui non se ne fanno!” E alzando la voce e guardandomi bene in faccia terminò: “Hai ben capito? È un ordine preciso”.

 

Risposi che ero perfettamente orientato e che avrei senz'altro eseguito il suo ordine, ma lo pregai di dirmi come ci si doveva regolare, dato lo spirito di leale collaborazione che doveva intonare i nostri rapporti con gli anglo-americani, qualora ci fossero stati richiesti dati e notizie. Il sig. gen. Castellano autorizzò tutti a dare tutte le notizie a nostra conoscenza sulle truppe tedesche. Subito dopo il gen. Castellano diede ordine al col. De Carli di metterci in libertà. Ma prima ancora che l'ordine fosse a noi dato dal col. De Carli, dissi al sig. gen. Castellano che avevo urgente bisogno di riferirgli alcune notizie e consegnargli dei documenti di grande importanza. Per tutta risposta abbozzò un sorriso ironico e disse: “Va bene, ora andiamo a mangiare”. E, facendo seguire l'azione alle parole si sedette a tavola. Compresi che non era opportuno insistere.

 

Non sto a dilungarmi per descrivere l'atteggiamento da superuomo che assumeva il gen. Castellano mentre parlava degli avvenimenti in corso. Gli anglo-americani erano per lui una manica di fessi che lui si cucinava a suo piacimento; tutto ciò che aveva fatto e che stava facendo era un capolavoro di intelligenza e di astuzia di cui si gloriava; ci faceva comprendere che ave­va ottenuto grandi successi e che presto l'Italia sarebbe stata considerata al­leata e come tale sarebbe infine seduta al tavolo della pace. Mai ha fatto cenno che lui seguisse direttive che gli venivano da Roma o quanto meno una linea di condotta a un programma precedentemente stabilito; mai ha fatto il nome di altro generale, salvo qualche velato cenno alla Ecc. Ambro­sio; tutto era parto della sua intelligenza e della sua iniziativa. [...]

 

Durante la cena non avevo mancato mai di attirare l'attenzione del sig. generale per fargli ricordare che avevo assoluto bisogno di parlargli; ed egli lo aveva capito tanto bene che, alla fine del pranzo, alzandosi ebbe a dirmi: “Tu vorresti parlarmi ma io ora non ho tempo perché ho cose ben più importanti da fare e debbo recarmi ad una riunione presso il co­mando inglese. Ci vedremo domattina”, e accompagnava le parole col solito significativo sorriso ironico [...].

 

Che cosa potevo io fare per rimediare, dal momento che non mi era concesso di allontanarmi dal ristretto spazio in cui eravamo come prigio­nieri? Mi aiutò la fortuna, però; poco dopo che era uscito il sig. gen. Ca­stellano, il maggiore inglese dell'I.S. Jhonsthone, che parlava perfettamente in italiano venne alla ricerca di un ufficiale del S.I.M.; egli rivolse la ri­chiesta al s. ten. Lanza, il quale lo accompagnò subito da me. Ci appartam­mo sul terrazzo della palazzina e ci intrattenemmo in conversazione per circa un'ora [...].

 

Il giorno 8 mattino, dalla villa dove eravamo alloggiati, mi recai per tempo alla palazzina della mensa per essere sicuro di incontrare il sig. generale prima che si allontanasse per qualche altra riunione. Egli si alzò molto tardi perché il convegno della notte si era protratto fino alle prime ore del mattino. Attesi che venisse a far colazione; pazientemente aspettai che avesse terminato di mangiare e poi, siccome avevo intuito che stava per andarsene senza concedermi il colloquio, gli ricordai che dovevo con­segnargli i documenti. Egli non seppe nascondere il suo disappunto per la mia insistenza, ma si decise ad ascoltarmi; lo seguii sul terrazzo. Gli dissi che i documenti mi erano stati consegnati dalla Ecc. Carboni [...]. Gli esposi in breve la situazione; gli feci vedere la dislocazione delle trup­pe; gli spiegai i movimenti che dovevano effettuarsi per il concentramento del C. d'A. corazzato nella zona di Tivoli e quelli per la sostituzione delle divisioni con altre truppe per il presidio delle zone che abbandonavano; insistei nel raccomandare che era di preminente importanza l'azione aerea tempestiva, a momento opportuno, sui concentramenti tedeschi in modo da impedire o, quanto meno, ritardare il loro afflusso verso Roma. Gli pre­cisai che bisognava ottenere il concordato concorso della divisione paraca­dutisti e che era indispensabile che giungessero in tempo utile gli aiuti al­leati perché le truppe che difendevano Roma da sole non avrebbero potuto resistere più di tre o quattro giorni perché difettavano di carburante e di munizioni. Gli aggiunsi che avevo degli appunti riguardanti il servizio informazioni e gli chiesi se glieli dovevo consegnare e se avesse pensato lui a dare notizie al Comando anglo-americano. Ritirò soltanto le carte con la dislocazione e mi disse di portare dopo nell'ufficio del suo capo di S.M. gli appunti del S.I.M. Poi mi congedò e si allontanò.

 

Al suo ritorno, verso le ore 12, disse che alla sera alle ore 18,15 il gen. Eisenhower avrebbe fatto alla radio la comunicazione della firma dell’armistizio e che un quarto d'ora dopo l'Ecc. Badoglio avrebbe dovuto, secondo gli accordi, fare identica comunicazione. Espresse il dubbio che la sorpresa della precipitazione — l'avvenimento era previsto per il 15 — potesse determinare qualche incertezza e malinteso e che l'Ecc. Badoglio non rispondesse. Aggiunse che, in tal caso, noi saremmo stati prigionieri. Gli altri ufficiali, che non erano al corrente delle trattative e degli accordi precedenti, non si rendevano conto della gravità di questo imprevisto anti­cipo e delle disastrose conseguenze che avrebbe potuto determinare.

 

Essi attorniavano il gen. Castellano che si affannava a dimostrare che tutto sarebbe andato bene, che l'esercito italiano avrebbe combattuto tena­cemente e che infine, progressivamente, con lo sviluppo degli avvenimenti, da nazione vinta saremmo passati nel rango di alleati e che ne avremmo tratto enormi vantaggi. Si vantava di aver ottenuto un grande successo, come se tutto fosse stato condotto da lui, ed esclusivamente da lui, con grandissima ed ineguagliabile abilità.

 

[...]

 

Egli, tra l'altro, si vantava che ogni qualvolta si presentava ai gene­rali inglesi e questi gli facevano i convenevoli di saluto egli rispondeva, mentre stringeva loro la mano: “In dè natiche”. Domando e dico se uno su cui grava la responsabilità della salvezza della Patria, possa comportarsi in modo così volgare e sciocco. Il funzionario Montanari che, in funzione di interprete, accompagnava il generale in tutte le missioni ebbe più volte a criticare e a biasimare questo suo contegno affermando che gli anglo­americani, anche se non comprendevano il vero significato delle parole, capivano che si trattava di una volgarità. Anzi egli non mancò di pregare il sig. generale di astenersi dal ripetere in seguito tale deplorevole frase.

 

Nella mattinata stessa si seppe che doveva arrivare il Sottocapo di S.M. Ecc. Rossi per fare un estremo tentativo per ottenere una dilazione. Ma già il gen. Castellano aveva dichiarato che non sarebbe stato possibile ottenerla. La sua previsione era giusta perché difatti alle ore 18,30 il generale Eisenhower fece la nota dichiarazione alla radio.

 

L'Ecc. Rossi quando arrivò aveva l'aria di uomo stanco, scoraggiato e avvilito; parlava poco. Egli si espresse in termini che dimostravano chia­ramente che disapprovava quanto era avvenuto; faceva previsioni disastrose e fece capire che lui era sempre stato contrario all'armistizio.

 

[...]

 

Il gen. Castellano rincuorava l'Ecc. Rossi affermando che l'Italia avreb­be tratto vantaggi dalla conclusione dell'armistizio e che l'iniziativa delle trattative avrebbe incontrato il favore del popolo italiano. Io, in cuor mio, ero del suo avviso circa la necessità e l'opportunità di avere intavolato trat­tative per venire ad una intesa; ma la precipitazione mi incuteva sgomento. Temevo fortemente che la difesa di Roma, per le ragioni già in altro punto esposte e a me note, non avrebbe potuto tenere e sarebbe stata sopraf­fatta.

 

[…]

 

Tra le altre cose, il gen. Castellano disse che la difficoltà dei collega­menti, l'ostinazione anglo-americana nel rifiutare qualsiasi proroga, la im­perfezione delle intese determinata dall'imprevista precipitazione, avrebbe potuto indurre il Governo italiano a ritardare la sua comunicazione e ad­dirittura a non dare la risposta. Egli stette tutto quel pomeriggio in ango­sciosa ansiosa attesa. Di che cosa si preoccupava egli? Della salvezza del Paese o piuttosto della posizione e del prestigio suo personale? [...] Nella concitata impazienza del gen. Castellano intravvedevo qualcosa che non era naturale. Quando alle 18,30 venne finalmente la dichiarazione di Eisenhower e mancò la risposta immediata dell'Ecc. Badoglio, il capo della missione era ammutolito e cambiò di colore varie volte. Affannosamente si cercava alla radio la stazione di Roma, si facevano mille congetture e tutti parte­cipavano al malumore e all'agitazione del capo.

 

Quando finalmente l'Ecc. Badoglio, mi pare fossero le 19,45, fece la tanto attesa e desiderata comunicazione, il viso del gen. Castellano si ri­schiarò. Egli divenne immediatamente di lieto umore. Sembrava che avesse ottenuto un vero trionfo e che quella che egli considerava opera sua — e soltanto sua — avesse ottenuto il più grandioso dei successi. E per quel senso di servilismo proprio di quella categoria di ufficiali che componevano la missione, tutti partecipavano alla soddisfazione del generale che poté finalmente sedersi a tavola trionfante e soddisfatto. E siccome l'Ecc. Rossi faceva qualche riserva e non si dimostrava altrettanto entusiasta, il gen. Castellano con aggressività le controbatteva sostenendo che tutto andava per il meglio. Di quello che sarebbe accaduto in Italia e dei pericoli che correvano gli esponenti principali del nostro Governo egli non si preoc­cupava [...].

 

Il mattino successivo, 9 settembre, si ebbero le prime notizie radio. Lo sbarco alleato era avvenuto, o meglio era in corso a Salerno; neppure a Napoli; quindi ben lontano da dove si aspettava. Nessuna notizia di in­tervento della divisione paracadutisti americana. Nessun bombardamento aereo sulle truppe concentrate nei dintorni di Roma. In sostanza nulla era avvenuto di quanto era stato concordato. Ciò voleva dire impossibilità per la difesa di Roma di ricevere in tempo utile quell'aiuto senza il quale la resistenza non poteva andare oltre il terzo o il quarto giorno dall'inizio della prevedibile e quasi certa azione tedesca.

 

Non appena potei vedere il gen. Castellano gli dissi apertamente che ero sorpreso per lo sviluppo degli avvenimenti e che non mi rendevo ra­gione del mancato intervento della aviazione alleata che io, per incarico dell'Ecc. Carboni, gli avevo detto di chiedere. Gli domandai anzi se egli aveva fatto le necessarie insistenze. Mi rispose: “Ma io gliel'ho detto; vuol dire che tenterò di nuovo”. La risposta era, però, molto tiepida e mi venne il dubbio che egli non ne avesse neppure fatto cenno agli anglo-americani. Dimenticanza? Determinato proposito? Biasimevole e delittuosa manche­volezza in entrambi i casi.

 

Ebbi, qualche giorno dopo, la possibilità di sincerarmi che le carte che io gli avevo portato non erano mai state fatte vedere e tanto meno consegnate agli inglesi. Esse erano state riposte insieme ad altro inutile carteggio in un armadio dell'Ufficio del col. Pederzani che il generale ave­va, in quel giorno stesso, nominato suo capo di S.M. Si pensi un po': una missione di 12 ufficiali comandata da un generale che sente il bisogno di nominarsi un Capo di S.M.! [...]

 

Non ritengo necessario dilungarmi a citare i particolari delle discussioni dopo-radio di quei giorni. Quando la stazione di Roma cessò le trasmissioni si capi che doveva essere accaduto qualche cosa di grave. Ma il gen. Castellano non si mostrò preoccupato e continuava ad essere di lieto umore.

Il mattino del giorno 12, verso le ore 9,30, senza alcun preavviso, mentre mi trovavo a fare colazione, il sig. generale, che stava anche lui nella sala di mensa, rivolgendosi al suo Capo di S.M. disse: “Quei tre ufficiali che debbono rientrare in Italia partiranno oggi alle ore 11 con la
missione inglese”
. Il col. Pederzani chiamò il ten. col. Ducros, poi fece cenno a me di avvicinarmi e disse ad entrambi: “Il sig. generale ha deciso di alleggerire la missione; effettivamente qui siamo in troppi; e allora dovete andare via voi due e il ten. col. Chiapparelli”. Questi era rimasto nella villa dove si dormiva ed ebbe poi da me la notizia. Io dissi che ero contento di andare in Italia ma che non mi sapevo spiegare il perché fossi stato prescelto proprio io mentre fino alla sera precedente egli mi aveva detto che io sarei rimasto alla Segreteria [...].

 

Il giorno 15 sera arrivammo a Taranto, verso le ore 20. Pernottammo a bordo. Il mattino del 16 ci trasferimmo, assieme alla missione anglo­americana, a Brindisi. Ci presentammo al Comando Supremo (il ten. col. Ducros aveva ricevuto una lettera, dal sig. gen. Castellano, da presentare al C. S.). Fummo subito assegnati allo S.M.R.E., che si trovava all'albergo Internazionale. Il Superesercito, in quei primissimi giorni, era costituito da pochissimi generali e da qualche ufficiale a disposizione. Oltre all'Ecc. Roatta, vi erano i generali Mariotti, Di Raimondo, Aliberti e Utili, più il gen. Zanussi, addetto all'Ufficio del Capo di S.M. Si andava alla ricerca affannosa di ufficiali per poter impiantare gli uffici e dimostrare che vi era molto da fare e che l'organismo doveva vivere e svilupparsi. E così, in pochi giorni, gli ufficiali si moltiplicarono, giunsero numerosi i titolati per assumere le funzioni di capi ufficio e capi sezione, arrivarono le macchi­ne da scrivere e la carta cominciò a circolare da un ufficio all'altro, le car­telle cominciarono a riempirsi; ma di concreto e di positivo nulla. Io credo che malgrado l'immane tragedia che minaccia di travolgere la Patria, si pensi ancora agli avanzamenti per meriti eccezionali.

 

I generali non vogliono disarmare; non importa se non vi sono le truppe, se manca l'armamento ed il munizionamento, se l'equipaggiamento è ridotto agli estremi e non vi è possibilità di sostituirlo, se non vi sono automezzi, ecc. Le G.U. debbono essere ugualmente mantenute, bisogna anzi crearne delle nuove, per poter far posto ai generali che, altrimenti, non troverebbero impiego, non potrebbero avere la macchina a loro dispo­sizione. E così si verifica che sull'unica divisione, la “Piceno”, che ha possibilità operative, sovrasta il Corpo d'Armata — la VII Armata —, lo S.M.R.E. e il C.S.; che qualche brigata costiera, scarsa di effettivi e di mezzi, diviene divisione; che dove vi era un solo Corpo d'Armata se ne fanno due, più uno territoriale; ecc. ecc.

 

Intanto, il giorno 18 ebbi la fortuna di incontrare Raimondo Lanza e, quando da lui seppi che il gen. Carboni era riuscito a mettersi in salvo, mi rincorai e mi sentii sollevato.

 

Raimondo mi disse che era già stato ricevuto dall'Ecc. Ambrosio e dall'Ecc. Rossi e che stava andando dall'Ecc. Roatta e che a tutti aveva fatto un'ampia relazione su quanto era avvenuto a Roma nei giorni im­mediatamente successivi all'armistizio, e sull'opera svolta dall'Ecc. Car­boni.

 

[...]

 

Il ten. Lanza mi disse la sera stessa che sperava di poter ritornare presso il gen. Carboni, per riferirgli sulla sua missione. Egli era stato ac­colto da tutti favorevolmente. Ma improvvisamente   la situazione e gli umo­ri cambiarono. Ripresentatosi, come da ordini ricevuti, il giorno dopo al

C.S., fu ricevuto con freddezza e riservatezza ed ebbe la proibizione di ritornare nel territorio controllato dai tedeschi. Egli venne ad invocare l'intervento dell'Ecc. Roatta, ma ogni tentativo fatto dal Capo dello S.M. fu vano.

 

In quel momento io avevo funzioni di capo ufficio ordinamento. Fui chiamato dall'Ecc. Roatta, il quale mi disse che il ten. Lanza doveva es­sere inviato al Campo di riordinamento di Lecce e che lo stesso provve­dimento doveva essere preso a carico del cap. Bellomo, che era giunto a Brindisi assieme al Lanza. Mi diede incarico di rintracciare il Bellomo e di accompagnarlo da lui. Intanto, mi diede un foglio con cui il Comando Supremo ordinava che i due predetti ufficiali fossero inviati al Centro rior­dinamento di Lecce e sottoposti a vigilanza in modo da impedire loro che potessero tornare a Roma. Chiaro sintomo che il C.S. non voleva mantenere rapporti con l'Ecc. Carboni e che lavorava per scalzarlo e met­terlo in cattiva luce. Ma come era avvenuto questo improvviso e inspie­gabile cambiamento? Credo che ciò sia avvenuto in conseguenza dell'im­provviso arrivo a Brindisi del gen. Castellano, che vi rimase un paio di giorni.

 

L'Ecc. Roatta ricevette poi in mia presenza, uno alla volta, i due uffi­ciali, esortandoli a stare tranquilli e a seguire gli ordini senza recalcitrare e senza preoccuparsi. L'indomani il cap. Bellomo e il ten. Lanza partirono per Lecce.

 

Mi fu possibile poi accertare che la relazione Lanza, seguendo la tra­fila burocratica di prammatica, dall'Ufficio informazioni risalendo per il capo reparto (gen. Utili), il Sottocapo di S.M. (gen. Mariotti), era giunta all'Ecc. Roatta e che era poi tornata indietro seguendo la stessa via; ma nessuno l'aveva siglata, contrariamente per quanto avviene per tutte le altre pratiche.

 

Intanto, ogni giorno giungevano a Brindisi ufficiali provenienti dalle zone occupate dai tedeschi e tutti, naturalmente, avevano qualche cosa da dire e perciò erano invitati a compilare relazioni su quanto sapevano. Ognuno si preoccupava di raccogliere notizie, dati, elementi per poter sca­ricare la responsabilità sulle spalle di quelli che erano rimasti al di là. [...] Intanto si continuano a scrivere molte carte, a fare progetti, specchi; e le carte girano da un tavolo all'altro, da un ufficio all'altro. Lo S.M.R.E. fa una proposta e il C.S. subito la modifica, se addirittura non la boccia; lo S.M. dà un ordine alla VII Armata: si può essere certi che questa oppone difficoltà; se lo S.M. insiste, si gira la posizione e interviene subito il C.S., in favore dell'Armata e del Corpo d'Armata. Talvolta è accaduto che una cosa già decisa dallo S.M. fu bocciata dal C.S.; ma, ancor prima che ciò avvenisse già nei corridoi dell'Armata e del C. d'A, si faceva pettegolezzo e si preannunciava l'avvenimento. [...]

 

In uno dei primi giorni di ottobre, mentre mi trovavo seduto al mio posto di lavoro, nell'ufficio del ten. col. Millefiorini, attiguo al mio, era venuto a trattare questioni di servizio il magg. Galatesi del C.S. Si vede che egli si intrattenne a conversare col collega perché un bel momento ho sentito distintamente queste frasi pronunciate dal Galatesi: “Ma il nome del Conte Generale Calvi è venuto fuori così. Il Generale Carboni Co­mandante del Corpo d'Armata corazzato era scappato e perciò lui si è trovato ad essere il più anziano e il responsabile; eccoti spiegato come e perché la radio ha parlato di lui nell'annunciare la resa di Roma”. Non feci a tempo ad intervenire perché, mentre stavo alzandomi, egli già affret­tatamente usciva dall'ufficio del ten. col. Millefiorini e si avviava alle scale. Ma subito al ten. col. anzidetto e al ten. col. Cannone, del mio ufficio, spie­gai che quanto aveva dichiarato il Galatesi non era rispondente alla verità e ne spiegai la ragione ponendo i fatti secondo la relazione Lanza. Cosa questa che facevo continuamente con tutti coloro con cui parlavo di questo argomento.

 

Era chiaro che il Galatesi parlava per aver sentito dire al Comando Supremo e che, presso detto Comando, la parola d'ordine era questa: “Addosso a Carboni, per tentare di salvare noi ed anche il Conte Cal­vi”. [...]

 

Ho saputo che il C.S. ha costituito un S.I.M., a Brindisi, dove afflui­scono numerosi ufficiali provenienti dal territorio controllato dai tedeschi e da oltre mare. Allo S.M.R.E. il ten. col. Ducros sta reclutando ogni giorno nuovi ufficiali, ma non riesco a capire quale attività informativa si svolga. Ritengo che non si faccia altro che far redigere le relazioni per l'ufficio storico del C.S. Naturalmente, si avrà molta cura di conservare quelle ritenute utili ai fini della difesa dei capi responsabili e distruggere, invece, quelle altre che possono compromettere la loro posizione. [...]

 

Allo S.M.R.E. mi è riuscito di leggere un foglio diramato dal C.S., fin dai primissimi giorni di attività a Brindisi, in cui si diffidavano tutti i comandi e i centri di ubbidire agli ordini che eventualmente loro per­venissero a firma del gen. Carboni. È una vera guerra sleale e senza quartiere. Raimondo ebbe ad accennarmi che anche il principe ce l'ha con l'Ecc. Carboni. [...]

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