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Dal 25 luglio all'8 settembre - 2

 GLI IMPERIOSI DOVERI DELL'ORA

(IL DISCORSO DEL "BAGNASCIUGA")

24 giugno 1943

 

Il 24 giugno 1943 a Roma Mussolini presiedeva a Palazzo Venezia la riunione del Direttorio del PNF. Alla relazione di Scorza, Mussolini rispose con un discorso reso pubblico, con numerose varianti, il successivo 5 luglio. Il discorso è passato alla storia per il controverso utilizzo del termine « bagnasciuga » quale indicazione della battigia. Al di là di questo rappresenta la fuga dalla realtà non solo di Mussolini ma di una parte della classe dirigente italiana, ormai incapace di considerare il baratro che si stava spalancando davanti alla nazione.
Il testo riportato è quello ufficiale.

 

 

Relazione tenuta dal Segretario del Partito Nazionale Fascista, Carlo Scorza

 

In questo primo Direttorio, che voi ci fate l'onore di pre­siedere, prima di darvi la forza del Partito e delle organizza­zioni da esso dipendenti, è doveroso presentarvi il ruolino di coloro che sono caduti in nome del Fascismo per la grandezza della Patria nella presente guerra. Caduti 41.352 iscritti, così divisi: gerarchi 1.427; squadristi 650, fascisti 39.275. Il Par­tito offre all'Esercito in questo momento 1.606.140 iscritti così divisi: fascisti 1.548.015, universitari 58.125. La forza totale de­gli iscritti ai Fasci di Combattimento al 10 giugno dell'anno XXI è di 4.770.770. Per i presenti alle armi esiste la dispensa dal tesseramento, dispensa alla quale molti hanno rinunciato riti­rando la tessera a mezzo dei Corpi presso i quali sono in forza...

 

Come voi vedete il numero dei tesserati continua ad essere gran­dissimo nonostante la rigida disciplina, le selezioni operate e l'in­vito a non ritirare la tessera per coloro che non sentono di poter servire voi e il regime secondo le direttive di rigore religioso da voi emanate. Questo va detto a scorno e ad ammonimento di coloro i quali pensano che le legioni fasciste non sappiano o non possano resistere al clima duro che l'ora della Patria richie­de... Duce! Queste sono le cifre, ma le cifre hanno un valore assoluto solo se rappresentano spirito e volontà. La volontà e lo spirito che animano le forze inquadrate sotto i segni del Littorio si chiamano fedeltà, disciplina, resistenza, vittoria.

 

 

La risposta di Mussolini

 

Le cifre sulle forze numeriche del Partito sono veramente in­dicative e meritano qualche commento. Dimostrano che la massa dei tesserati è sempre imponente e credo che anche quando sia­no compiute le necessarie selezioni ed epurazioni, la massa ri­marrà sempre considerevole. Saremo sempre, come dobbiamo essere, un partito di massa, perché per governare e dirigere una nazione di quarantasei milioni di abitanti che saranno fra non molto cinquanta, ci vuole una massa, ci vogliono decine e decine di migliaia di gerarchi che intorno debbono avere centinaia di migliaia di collaboratori animati dalla stessa fede. L'importante è di selezionarli a mano a mano, a seconda delle necessità e a seconda delle epoche.

 

Il mio intervento a questa riunione è dovuto al fatto ch'io vo­glio riferire al Direttorio sull'indirizzo che mi è stato rimesso dal Segretario del Partito, e che io ho ritenuto di dovere rendere di pubblica ragione. Avrei potuto farne anche a meno, come non sono state rese di pubblica ragione altre decisioni del Direttorio. Ma ho reputato fosse bene renderlo noto alla nazione, perché quelle sono idee non solo del Direttorio del Partito, ma le mie. Ed è bene che la nazione sappia che ad un certo momento la vita potrebbe stringersi con un rigore che forse taluni non so­spettano ancora.

 

Le reazioni a questo indirizzo, per quello che riguarda l'estero, sono state le solite e non vale di occuparsi di loro. Non si pole­mizza con le nazioni nemiche se non a colpi di cannone: la mi­gliore polemica è quella delle armi. Vi si può aggiungere anche l'altra; ma l'altra non può sostituire la prima, evidentemente.

 

Per quello che riguarda viceversa l'interno, ci sono stati alcuni sfasamenti e temporanee deviazioni polemiche, nonché erronee interpretazioni. Il camerata Scorza è intervenuto, perché, evi­dentemente, non era lecito uscire dal seminato. È certo che io difendo il Partito, sempre, in ogni caso, comunque e dovunque. Ora il Partito in tutte le sue epoche è stato all'altezza dei suoi compiti. Gli uomini hanno commesso degli errori: li vedremo fra poco. Ma furono sempre commessi in buona fede.

 

Fu forse errore quello di immettere nel Partito tutti i com­battenti della guerra mondiale? Non credo. Vennero i combat­tenti stessi a dirci: “Perché ci volete lasciare sulla porta? Molti di noi, contadini di piccoli centri, credevano che essere nell'As­sociazione o nel Partito fosse la stessa cosa”. Si è pensato che dare questo riconoscimento a questi vecchi, valorosi combattenti della guerra mondiale, fosse un gesto comunque doveroso e in ogni caso non pericoloso, anche se il Partito accresceva i suoi ef­fettivi di alcune centinaia di migliaia di uomini.

 

Può essere stato un errore quello in un certo momento di voler, dirò così, “ufficializzare” troppo il Partito. Se non avessi tirato la martinicca, ad un certo momento diventavano pubblici ufficiali anche quelli che stanno nei bar a distribuire bevande nei Dopolavoro. Anche li però si è peccato per eccesso, non per di­fetto. È chiaro che i gerarchi del Partito devono godere di un'au­torità indiscussa e immediata e devono perciò possedere le attri­buzioni e relative responsabilità di pubblici ufficiali.

 

Il Partito non è solo nelle cifre che vi ha letto in questo mo­mento il camerata Scorza: è nelle sue decine di migliaia di ca­duti, nelle migliaia di volontari, da Pallotta a Borg Pisani. Borg Pisani per me è un uomo che sta alla pari con Cesare Battisti, Nazario Sauro, Filzi, Damiano Chiesa, e con quelli che furono i martiri del nostro Risorgimento. Egli è andato deliberatamente al sacrificio supremo.

 

In tutti questi anni il Partito ha tenuto in piedi il Paese im­pegnato in una lotta come quella che noi sosteniamo e che è in­cominciata dal gennaio 1935.

 

Il Partito ha la sua linea ideale, che sarà sempre da me dife­sa, anche se domani dovessi fare un discorso tipo 3 gennaio. Io distinguo bene quelli che sono i valori eterni da quelli effimeri.

 

Per quello che riguarda i punti che il Direttorio ha segnalato, li esamineremo insieme.

 

 

“1) La repressione severa e, ove occorra, spietata di tutti i ten­tativi che mirino a incrinare la compagine morale e materiale del popolo. Ove le leggi vigenti non bastino, se ne promulghino delle nuove”.

 

Perfetto, ma il popolo italiano merita tutto il nostro rispetto e tutto il nostro amore perché dà un esempio semplicemente me­raviglioso ed io effettivamente non saprei che cosa si possa chie­dere di più al nostro popolo. Esso ci dà i suoi soldati, ci dà i suoi denari. L'ultimo prestito è tutto di piccole sottoscrizioni; i grossi sono stati pochi. Tira la cintura, sta impavido sotto i bombardamenti. Vi è una città che ha dato un esempio che si è rive­lata, non a me che la conoscevo, ma a molti italiani che non la conoscevano e al mondo che la vedeva sotto una luce falsa: par­lo di Napoli e dei settantatré bombardamenti che ha subito.

 

Ci sono naturalmente degli elementi negativi e contrari. Ma volete che in una nazione di quarantasei milioni di abitanti non ci siano mille o centomila individui che, per ragioni di carattere personale, per il loro sistema nervoso debilitato, per la loro co­stituzione organica, sono insofferenti, paurosi, oltre a quelli che sono effettivamente degli oppositori, dirò così, schedati? Non bisogna generalizzare. Noi controlliamo esattamente tutto ciò e non bisogna attribuirvi una eccessiva importanza. Non saranno mai costoro, rottami quasi tutti dei vecchi partiti, che riusci­ranno a spiantare il Regime e nemmeno ad interessarlo al di là di quella che può essere la normale funzione della polizia. E bi­sogna ridicolizzare i fautori e diffusori di romanzi gialli e talora giallissimi, parti di fantasie malate, bisognose di energiche cure ricostituenti.

 

 

“2) L'unificazione, con disciplina severa e, anche qui, ove occorra, spietata della produzione industriale, mentre deve es­sere perfezionata la disciplina unitaria della produzione agricola”.

 

Bisogna mettere, infatti, queste forze dell'economia nazionale sopra un piano di rigorosa disciplina. Si sono fatti i piani della produzione agricola, cioè il piano regolatore che intende disci­plinare quattro milioni di agricoltori, cioè quattro milioni di aziende agricole.

 

È veramente un'impresa rivoluzionaria, anche perché l'econo­mia agricola è varia e complessa da regione a regione, qualche volta da provincia a provincia.

 

Sebbene in questo primo anno non si possa pensare che le cose procederanno tutte a meraviglia, si sono fatti i piani rego­latori della produzione agricola. Bisogna procedere oltre per quanto riguarda la produzione industriale. Bisogna avere il co­raggio di eliminare tutte le industrie, che non hanno più ragione di essere e bisogna avere il coraggio di esonerare tutti gli indu­striali i quali non sono all'altezza della situazione. L'uomo, diceva il filosofo greco Anassagora (scusate la mia erudizione), è la misura di tutte le cose.

 

Istituzioni mediocri con uomini preparati funzionano bene, istituzioni perfette con uomini deficienti vanno alla rovina.

 

 

“3) La disciplina e il controllo più efficace sull'approvvigio­namento, la distribuzione, il commercio di tutti i generi, elimi­nando implacabilmente interferenze, soprastrutture e incompe­tenze disgregatrici e speculatrici”.

 

Si sono fatti in questo campo progressi e si possono obietti­vamente riconoscere. Ci sono stati naturalmente dei disguidi, dei disturbi, dei disordini, delle perdite, dei deperimenti, ma qual­che volta ciò è dovuto a delle ragioni di carattere puramente obiettivo che ognuno può facilmente intuire.

 

 

“4) La riduzione al minimo indispensabile degli enti econo­mici, molti dei quali si sono dimostrati inutili o sorpassati, o dan­nosi ai fini della disciplina economica di guerra, inquadrandoli nella funzione delle Corporazioni”.

 

Io debbo avere al Senato parlato una volta del labirinto delle sigle. Un giorno incaricai un mio funzionario di raccogliermi tutte le sigle. Ne è venuto fuori un volume di proporzioni ri­spettabili. Io stesso, al Senato dissi che veramente si creavano troppi enti, che molte volte ciò era affatto superfluo e talora dan­noso. Tuttavia, quando si vuole organizzare un settore, bisogna pure creare un organismo. Se non volete chiamarlo ente, lo chia­merete ufficio, istituto, centro, organizzazione. Esempio: nel 1933 l'economia risiera della nazione correva un pericolo mor­tale. Il riso era sceso a prezzi minimi. Vennero da me tutti i rap­presentanti dei risicoltori delle quattro provincie risicole ita­liane, delle principali, Novara, Vercelli, Pavia, Milano; a dirmi che la loro rovina era imminente. Si creò l'Ente risi. Tutti o quasi sono unanimi ora nel riconoscere che questo Ente ha bene lavorato per salvare la preziosissima fonte di ricchezza italiana che è il riso. Un giorno si è pensato che era ora di finirla col considerare l'Italia dal punto di vista della moda, una provincia francese. La moda interessa per lo meno venti milioni di persone, in Italia. E si creò l'Ente della moda. Molti altri Enti hanno egregiamente funzionato. Tuttavia la flora degli enti appare ec­cessiva. Nel tessile, per esempio, i lanieri hanno voluto il loro organismo, e l'hanno chiamato Giunta delle lane. I cotonieri non hanno voluto rimanere indietro, ed hanno creato l'Istituto cotoniero. Quando si è voluto imporre il tessile autarchico, con­tro il quale taluni fanno ancora un larvato residuo ostruzioni­smo, si è creato l'Ente del tessile nazionale. Quando si è voluto proteggere la seta, si è creato l'Ente serico.

 

Tutto ciò può, a un dato momento, sbarcare nel grande alveo che li deve raccogliere. Quando parlo di enti, vi comprendo an­che gli enti che sono proiezioni non sempre necessarie delle amministrazioni dello Stato. L'alveo che può raccogliere tutti que­sti enti è la Corporazione. Abbiamo creato la Corporazione come forza disciplinatrice, coordinatrice di tutte le attività economi­che della nazione. Tutto deve cominciare, svilupparsi, finire, nella Corporazione, che è una creazione attuale e tempestiva del nostro regime. Che domani sarà ovunque, sia pure in altre for­me, applicata, se la economia dovrà passare dalla fase dell'indi­vidualismo liberistico già superata e non vorrà cadere nello sta­talismo burocratico di marca sovietica, dove tutta l'economia dal­la siderurgia alla « permanente » dei parrucchieri, è diventata una funzione economica dello Stato. La Corporazione è una crea­zione tipica, rivoluzionaria del regime e precorritrice di un pe­riodo nuovo della civiltà nel mondo.

 

Anche qui si tratta di vedere se gli uomini che sono alla testa delle Corporazioni sono sempre in grado di assolvere il loro com­pito, di fare veramente i coordinatori dell'economia, nel quale caso restano al loro posto. Se no, anche qui è un problema di uomini. Ormai il Partito dispone di una classe di dirigenti ab­bastanza numerosa e sufficientemente selezionata.

 

 

“5) L'applicazione, da parte delle amministrazioni dello Stato e di tutti gli enti, della più produttiva dinamicità, con l'abban­dono di forme e appesantimenti burocratici, tollerabili forse in tempi normali, ma delittuosi in tempo di guerra”.

 

Non bisogna fare della burocrazia italiana una specie di testa di turco, per cui, quando le cose non vanno alla perfezione, il burocrate deve pagare o deve essere messo sul banco dell'ac­cusa. Ora, a parte che ci sono organismi privati che hanno una burocrazia veramente numerosa, non bisogna confondere i di­pendenti dello Stato, che sono circa seicento, settecento, otto­cento mila, adesso, con l'aumento dovuto alla guerra, con la burocrazia vera e propria. Non si possono chiamare burocrati i centocinquantamila ferrovieri, i trentamila postelegrafonici, i centoventimila maestri, tra maschi e femmine, i più di dodi­cimila professori di università e di scuola media, i quindicimila magistrati, cancellieri e altre categorie di questa specie, laonde per cui la burocrazia, la vera burocrazia, è definita da me quella che può in qualche modo influire sulle direttive politiche ed economiche dello Stato. Quella è la vera burocrazia. Allora la buro­crazia si limita a poche decine di persone. I direttori generali dei Ministeri possono influire sull'amministrazione dello Stato ed è nelle loro attribuzioni il farlo, poiché essi rappresentano una “continuità”. Si tratta di uomini assai preparati per quanto ri­guarda la materia: lo dimostra il fatto che alti funzionari dello Stato sono molto desiderati dai privati.

 

La legge votata dall'ultimo Consiglio dei Ministri permette ai singoli ministri di allontanare i direttori generali che non sono all'altezza del loro compito. Credo che non siano molti.

Quanto al resto della burocrazia italiana, io che sono il capo di questa burocrazia e mi reputo uno degli impiegati più diligen­ti dello Stato — pensate che in ventun anni non ho mai smar­rito una qualsiasi, anche insignificante pratica, dico mai, e alla sera il mio tavolo è sgombro di pratiche — io impiego molto il telefono. Quando voglio sapere quanti proiettori sono già stati costruiti, la vecchia moda mi consiglierebbe di scrivere una let­tera al prefetto, il quale farebbe una lettera al direttore della fabbrica, il quale risponderebbe con una lettera al prefetto, che mi manderebbe copia di questa lettera. Io telefono, qualche volta direttamente al direttore della fabbrica, qualche volta al prefetto, dandogli il tempo strettamente necessario per informarsi e ri­spondere. Ciò è semplice. Si carteggia ancora troppo nella bu­rocrazia italiana. C'è un « gusto del carteggio », per cui qualche volta si carteggia dal piano due al piano tre, qualche volta dalla stanza vicina all'altra stanza attigua. Qualche volta questi carteg­giatori ci mettono un impegno veramente commendevole nel so­stenere la loro tesi con richiami a leggi che vanno talora molto a ritroso nel tempo. Bisogna che la burocrazia, per essère veloce, si giovi dei mezzi moderni che la tecnica e la scienza abbondan­temente ci offrono. Si deve però aggiungere che la burocrazia italiana è una delle meno numerose fra quelle di tutte le na­zioni. È la meno retribuita, è la più onesta ed è quella che trova una troppo scarsa collaborazione nel pubblico. Il pubblico, essen­do ancora abituato con reminiscenze storiche alle vecchie buro­crazie degli stati stranieri, deve aggiornarsi e pensare che si trova di fronte a un servitore dello Stato, a un collaboratore del regime. La burocrazia in questi ultimi tempi è stata innervata con elemen­ti giovani; tuttavia una riforma si imporrà, per renderla più scor­revole, più rapida nelle sue decisioni; e per abituarla in tutti gli scalini ad avere la massima cortesia e la piú lunga pazienza nei confronti del pubblico, specialmente del pubblico minuto, specialmente del popolino, il quale non conosce le leggi, e non ha il tempo evidentemente per leggerle. Si deve applicare uni­versalmente una formula che io proclamai una volta a Napoli: “Ascoltare con pazienza e operare con giustizia”.

 

 

“6) La repressione, con ogni mezzo, del mercato nero, feno­meno comune a tutti i Paesi in guerra, ma addirittura incompa­tibile con l'etica fascista”, eccetera.

 

Questo mercato cosiddetto nero è già oggi sottoposto a una fiera persecuzione. Questa sarà assolutamente draconiana il gior­no in cui mi riesca di aumentare le razioni fondamentali: pane, pasta e grassi. Ci sarà allora una concomitanza di interessi; quelli che vorrebbero speculare sottraendo generi all'ammasso, pense­ranno che non ci sarà più tanta richiesta, perché la razione sarà sufficiente, e quelli della razione sufficiente non saranno portati a qualunque costo a rifornirsi nelle zone b e c. La zona a è quella tesserata, la zona b è quella contingentata più o meno, la zona c è quella del mercato libero clandestino. Il “mattinale” dei Carabinieri, i quali hanno il compito di agire in questa lotta, mi informa quotidianamente. Tutte le merci sequestrate sono asse­gnate all'ammasso o alle mense aziendali o ai poveri dei comuni.

 

Quando avremo aumentato le razioni fondamentali, allora si troverà il modo di andare a fare il controllo su tutto e su tutti. Nell'interesse di tutti. Nell'interesse anche di coloro che temono di morire di fame e si fanno delle abbondanti provviste e riserve. Bisognerebbe dire a questi signori: “Non lo fate, siate intelli­genti”.

 

Ripeto che questa lotta contro il mercato nero avrà un dato positivo: aumento delle razioni fondamentali, e un lato nega­tivo; e cioè con pene ancora più severe di quelle già abbastan­za severe oggi vigenti.

 

 

“7) Il più severo controllo, e se del caso, la chiusura dei gran­di alberghi, delle pensioni, dei ristoranti di lusso” eccetera.

 

Sono favorevolissimo alla chiusura di questi alberghi di lusso, dove questi sfollati e queste sfollate danno spesso scandalo e va a finire che mi corrompono anche la psicologia fin qui sana, del villaggio. Esempi. L'altro giorno, — come voi sapete, io leggo molto i giornali della provincia, nelle pagine interne, non nelle prime, poiché nelle prime ci sono i soliti telegrammi — ho visto che le signore sfollate di Rapallo hanno organizzato una partita di “golf” con ben ventidue buche. Ciò è di un interesse enorme. Pensate: ventidue buche! Ora le signore che si dilettano dei “golf” con ventidue buche, meriterebbero di essere mandate, e saranno mandate a lavorare nelle fabbriche e nei campi. Que­sti sono veramente i casi classici di quella che io chiamo la sfasatura cretina, della gente che è infelice se non può giocare a pinnacolo. E qui torniamo al punto della borghesia. Sempre si discute di questa borghesia, cioè di coloro che hanno molta “fa­coltà” di spendere.

 

Comunque si possono tranquillamente chiudere questi alber­ghi di lusso. Cosi pure tutte le sartorie maschili e femminili di lusso, eccetera. Noi siamo ancora ad un regime di molta larghezza. Il nuovo Governo dell'Argentina ha già decretato l'abito unico. L'Inghilterra ha già stabilito che le donne non possono sce­gliere per i loro abiti che tre colori. Roosevelt ha ordinato un ulteriore accorciamento delle camicie da uomo. Si suppone che riusciranno a coprire l'ombelico. L'Italia è ancora oggi il paese che ha la gente meglio vestita di tutti i paesi del mondo: dove non è mai stato possibile fare grandi fabbriche per vestiti a se­rie, perché ognuno vuole il suo sarto particolare. Bisognerà smo­bilitare i troppo ancora forniti guardaroba femminili e maschili. Si potranno realizzare tessili per alcune classi di soldati.

 

 

“8) Rimpatrio di tutti gli stranieri”, eccetera.

Gli stranieri in Italia erano centodiecimila, dei quali molti so­no stati rimpatriati. Altri sono stati “concentrati”.

 

Bisogna che i federali nelle provincie siano vigilanti per quello che riguarda non solo gli stranieri, ma il trattamento fatto ai pri­gionieri. In taluni casi il trattamento fatto ai prigionieri è semplicemente deplorevole. Tutti quelli che ritornano dalla prigionia, raccontano cose veramente raccapriccianti per quello che riguar­da la perfidia, la crudeltà manierata degli inglesi, che sono rimasti, malgrado la loro vernice esteriore, un popolo di briganti, un popolo che ha conquistato il mondo col terrore, col ferro e col fuoco, che ha distrutto intere popolazioni di milioni e milioni di uomini, che ha fatto una guerra per imporre al Governo della Cina l'uso dell'oppio, che ha debilitato fino all'abbrutimento un quarto del genere umano.

 

È sintomatico che ufficiali ritornati dalla prigionia mi hanno chiesto una sola cosa: di fare i direttori dei campi di concentra­mento di prigionieri.

 

L'ultima parte dell'indirizzo concerne il lavoro obbligatorio.

Bisogna sfruttare tutto il materiale umano della nazione. Finora non lo si è fatto in pieno. Tentativi più o meno riusciti, ma per quello che riguarda gli ebrei, per esempio, non si è fatto gran che. È chiaro che dobbiamo procedere energicamente su questa strada mobilitando tutte le energie maschili e femminili. Questo si è fatto in tutti i paesi del mondo, con misure molto più dra­stiche e draconiane di quelle che noi sin qui, dico sin qui, abbia­mo adottato.

 

Così pure è giusto che tutti i fascisti siano impegnati a creare quella ch'io l'anno scorso definii “l'atmosfera dell'ammasso”. Abbiamo bisogno del conferimento totale all'ammasso perché ripeto, voglio aumentare le razioni.

 

Le masse operaie. Le sospensioni, talune di brevissima durata, del lavoro del marzo scorso furono sporadiche e a fondo econo­mico. Ogni tentativo di tramutarle in “politiche” fallì nella maniera più ridicola e pietosa. All'invito “clandestino” di dimostra­zioni in piazza, nessuno, dico nessuno, rispose. Le classi operaie sono in linea col resto della nazione. Credo che un nuovo impulso alla vita sindacale convincerà gli operai che veramente il regime fascista è il migliore regime che essi si possono attendere in qualsiasi parte del mondo. A tal proposito è bene che i diri­genti dei sindacati vivano fra gli operai, non “sopra” gli ope­rai, bensì “tra” gli operai. I quali, del resto quando non siano viziati dalle chimere bolsceviche sono delle brave persone educa­te, tranquille e che chiedono soltanto di essere apprezzate nella loro fatica e informate.

 

Per quello che riguarda la gioventù, la mozione del Diretto­rio, mi trova naturalmente consenziente. Io sono sempre d'avviso che bisogna fare largo ai giovani. E altra volta ho detto che se­gno infallibile di una senilità incipiente, è la gelosia veramente assurda verso i giovani. Bisogna fare largo ai giovani, ma non a quelli che lo sono soltanto per il fatto dell'anagrafe. Posto ai gio­vani, che oltre ad essere giovani, cioè oltre al fatto di essere nella migliore e fugace stagione della vita hanno anche delle qua­lità intrinseche.

 

È chiaro che se un uomo a diciotto anni è uno stupido, la sua situazione è aggravata dal fatto che ha diciotto anni e che ri­marrà stupido per altri cinquanta.

 

È mia convinzione che l'indirizzo impresso al Partito farà dei giovani i nostri continuatori. Questo noi dobbiamo volere. L'ho detto in piazza a Milano nel 1936. Noi dobbiamo essere orgogliosi e felici di consegnare i nostri labari ai giovani, perché solo in questo modo, da generazione in generazione, la rivoluzione si arricchisce di nuove, intatte, entusiastiche energie.

 

Sono molto lieto di constatare che nella nomina dei federali di oggi moltissimi sono delle classi che vanno tra il 1905 e il 1915, cioè uomini che hanno ventotto e trent'anni.

 

Ora c'è la questione che mi è stata sottoposta dal Segretario del Partito che si riallaccia a questo problema: la questione della “Guardia ai Labari”. Questa “Guardia ai Labari” non può co­stituire un doppione della Milizia, perché la Milizia è stata ed è veramente la guardia armata della rivoluzione. La Milizia merita l'ammirazione e l'amore del popolo italiano. La Milizia in tutti i campi di battaglia dove è stata portata, si è letteralmente co­perta di gloria. La Milizia oggi ha centinaia di migliaia di uo­mini; ha dei battaglioni “M” che sono lo specchio, dovrebbero essere lo specchio per tutti; ha una divisione corazzata, il cui armamento ci è stato fornito, in forma di solidale simpatia, dalle “SS” germaniche. Anche per evitare questioni annesse e con­nesse, ho deciso che la “Guardia ai Labari” sia affidata ai gio­vani, cioè alla Gioventù Italiana del Littorio. Si tratta di una guardia ideale. Sono gli anziani che vedono in questo fatto una perennità. Saranno quindi cento-centocinquantamila giovani, i quali, comandati da uno squadrista della vigilia, avranno questo compito che certamente, ne sono convinto, esalterà il loro orgo­glio e sublimerà la loro fede. Questi giovani dovranno essere scelti molto bene, anche dal punto di vista fisico. Gli squadristi dovranno essere squadristi della prima ora, che abbiano ancora combattuto, mutilati, decorati, gente di fede cristallina e certis­sima.

 

Tutti gli uomini del Partito, tutte le gerarchie del partito de­vono essere convinti, e devono fare di questa convinzione van­gelo per tutto il popolo italiano, che in questa guerra non ci sono alternative, non c'è un “o” e un “oppure”. Questa è una guerra che non ammette che una strada: continuarla fino alla vittoria. O si vince, come io credo fermissimamente, insieme coi camerati dell'Asse e del Tripartito, o altrimenti l'Italia avrà una pace di disonore, che la respingerà al quarto o al quinto posto come po­tenza.

 

Non più tardi di questa mattina leggevo in un articolo di una ri­vista inglese questa frase: “L'Inghilterra deve dominare il Medi­terraneo. Non sarà più permesso all'Italia di contare in qualsiasi modo come potenza militare”.

 

Chi crede o finge di credere alle suggestioni del nemico, con relativa guerra dei nervi, è un criminale, un traditore, un bastar­do. La pace significa la capitolazione; la capitolazione significa il disonore e la catastrofe. La prima logica cosa che il nemico farebbe sarebbe quella di disarmare l'Italia, fino ai fucili da cac­cia, lasciando all'Italia soltanto delle polizie municipali. Sarebbe la distruzione di tutte le industrie, perché non avendo più noi la facoltà di armarci, è chiaro che tutta l'industria siderurgica, metallurgica, meccanica, sarebbe soppressa. Sarebbe la fine anche dell'industria meccanica dell'automobilismo. Ford fece già due tentativi di venire in Italia: una volta voleva piantare le sue ten­de a Livorno e un'altra volta a Trieste. Tentativi vani. I nemici ci lascerebbero gli occhi per piangere. Non è escluso che ci por­terebbero via anche tutti i tesori artistici, per pagarsi. È del resto già avvenuto molte volte nella storia che i conquistatori hanno depredato l'Italia, non escluso Napoleone.

 

La stessa agricoltura sarebbe sacrificata perché i grandi pro­duttori cerealicoli del Nord America direbbero: “La vostra è un'agricoltura antieconomica: vi daremo noi il grano. Voi potete coltivare soltanto degli ortaggi facilmente deperibili”. L'Italia tornerebbe ad essere come la preferirono sempre i suoi secolari nemici: una semplice espressione geografica. Io mi rifiuto di pen­sare che ci siano degli italiani, degni di questo nome, che pos­sono prospettarsi una cosa di questo genere senza sentirsi spro­fondati nella più ontosa delle umiliazioni e delle vergogne.

 

Ci sono dei dubbiosi e non bisogna meravigliarsi.

 

Cristo non ebbe che dodici discepoli, e se li era coltivati du­rante tre anni con una predicazione sovrumana attraverso le col­line riarse della Palestina. Eppure nell'ora della prova, uno lo tradì per trenta denari, un altro lo rinnegò tre volte, e alcuni altri erano piuttosto incerti. Non c'è dunque da stupirsi se vi sono dei dubitanti. A questi dubitanti bisogna dire che questa guerra ha degli sviluppi che non possono essere preveduti, svi­luppi di natura politica, e non soltanto politica, che sono in ge­stazione.

 

I massacri dei negri a Detroit dimostrano che la famosa Carta atlantica è diventata una carta. Voleva l'eguaglianza delle razze. Si è visto che l'americano bianco ha una insofferenza fisica, irre­sistibile, inguaribile per il negro. I negri stessi dopo la carne­ficina di Detroit, si saranno convinti che le promesse di Roose­velt sono menzognere. Chandra Bose che non digiuna, è alle porte dell'India. Il nemico “deve” giocare una carta. Ha troppo pro­clamato che bisogna invadere il continente. Lo dovrà tentare questo, perché altrimenti sarebbe sconfitto prima ancora di aver combattuto. Ma questa è una carta che non si può ripetere. Fu concesso a Cesare di invadere per la seconda volta la Britannia, dopo che un naufragio gli aveva disperso i legni coi quali aveva tentato la prima invasione.

 

E ancora bisogna distinguere tra “sbarco” che è possibile, “penetrazione” e, finalmente, “invasione”. È del tutto chiaro che se questo tentativo fallirà, come è mia convinzione, il ne­mico non avrà più altre carte da giocare per battere il Tripartito. Giudica male gli sviluppi di questa guerra, colui che si ferma agli episodi.

 

Il popolo italiano è ormai convinto che è questione di vita o di morte. Bisognerà che non appena il nemico tenterà di sbar­care, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia, dove l'acqua finisce e co­mincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all'ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra Patria, ma l'han­no occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale.

 

Il dovere dei fascisti è questo: dare questa sensazione, e, più che una speranza, la certezza assoluta, dovuta ad una decisione ferrea, incrollabile, granitica.

 

Cosi il Partito si avvia ad adempiere la sua funzione, in que­sto formidabile momento. Il Partito, che è mia creatura, che amo e difendo, della quale sono geloso. In questo periodo il Partito deve essere più che mai il motore della vita della Nazione. Il sangue che circola, l'aculeo che sprona, la campana che batte, l'esempio costante. L'esempio. Non vi è alcuna cosa al mondo che possa superare in efficacia l'esempio.

 

Stare in mezzo al popolo, assisterlo, perché il popolo merita di essere assistito. Parlargli il linguaggio della verità. E tener duro. Tener duro, perché questo è voluto dall'onore. Coloro che oggi ci lusingano o ci mandano dei messaggi tra ingiuriosi e ridi­coli, ove domani noi cedessimo alle loro lusinghe false, ci fa­rebbero un sorriso cortese, ma nel loro interno ci disprezzereb­bero. Direbbero: “Veramente questi italiani non sono capaci di resistere fino alle dodici. Alle undici e tre quarti mollano”. Questo per quanto riguarda l'onore al quale dobbiamo tenere in sommo grado.

 

Poi ci sono gli interessi supremi della Nazione e la conquista di una vittoriosa pace che dia all'Italia da trent'anni in guerra guerreggiata, la calma e i mezzi per assolvere la sua storica mis­sione che la impegnerà per il resto del secolo.

 

La polemica nemica è veramente stupida quando punta sudi me, personalmente su me. Questo è l'eterno sistema degli in­glesi. Gli inglesi hanno sempre bisogno di concentrare i loro odi sopra una persona che essi falsi cristiani e autentici anticristiani, indicano come l'incarnazione del demonio. Per quello che ri­guarda la mia responsabilità, la rivendico, naturalmente in pieno. Un giorno dimostrerò che questa guerra non si poteva, non si doveva evitare, pena il nostro suicidio, pena la nostra declas­sazione come potenza degna di storia. Il nemico, e per me il ne­mico numero uno è sempre stato ed è l'anglosassone, sta oramai convincendosi che venti anni di regime non sono passati invano nella vita italiana e che è umanamente impossibile cancellarli.

 

I soldati di tutte le Forze Armate sentono la grandezza del momento e dei loro compiti. Il popolo italiano possiede risorse morali ancora intatte. Prevedevano che sarebbe caduto in tre mesi. È in piedi dopo tre anni.

 

Oggi che il nemico si affaccia ai termini sacri della Patria, i quarantasei milioni di italiani, meno trascurabili scorie, sono in potenza e in atto quarantasei milioni di combattenti, che credo­no nella vittoria perché credono nella forza eterna della Patria.

 

 

 

 

 

APPUNTO CONSEGNATO DA BASTIANINI AL CARDINALE MAGLIONE

17 luglio 1943

 

1. Lo stato della guerra fa ancora oggi pensare ad un prolungamento della lotta nel tempo ad epoca indeterminata. Le forze della Germania infatti sono estremamente potenti ed ogni raccorciamento di fronte non fa che concentrare i mezzi bellici tedeschi.

Il fatto però che la guerra sia stata impostata oggi contro l'Italia e che quotidianamente l'Italia sopporti sacrifici, distruzioni di ricchezze e di tesori d'arte, impone un esame della situazione italiana nel quadro generale della guerra.

 

2. Sono giunte voci a noi d'iniziative che il Papa non sarebbe alieno dal prendere, qualora avesse la sicurezza preventiva di un assenso italiano e tedesco (vedi pratica Russo).

 

3. L'Italia non può prendere alcuna iniziativa da sola sia per motivi mo­rali, dovendo salvaguardare l'onore del paese, sia per motivi materiali, doven­do considerare che ogni tentativo unilaterale di distacco dalla Germania tra­sformerebbe automaticamente il territorio nazionale in un campo di battaglia.

 

4. Qualora la situazione militare in Italia dovesse ancora peggiorare, la sola persona in grado di convincere Hitler a far abbandonare il territorio italiano dalle truppe tedesche è il Duce. Di qui la necessità che l'Inghil­terra e l'America non pongano la pregiudiziale immediata dell'allontana­mento del Duce e ciò nel loro stesso evidente interesse. I tedeschi infatti si ritirerebbero prima alla linea del Po, dove gli anglo-americani dovrebbero affrontarli, e poi alla linea del Brennero. L'intervento di Mussolini presso Hitler può ad essi evitare di affrontare i tedeschi sul nostro territorio.

 

5. L'Italia ha una sua particolare posizione nella regione danubiano-balcanica di cui gli avversari debbono tener conto.

 

6. Necessità di evitare intanto che gli anglo-americani costituiscano un Governo provvisorio di fuorusciti. Questo vorrebbe dire la guerra civile in Italia, una infinita serie di patimenti, che la Chiesa deve certamente evitare.

 

7. È stata notata una differenza di redazione in senso peggiorativo tra il testo dei messaggi di Churchill e Roosevelt diramati dalla Radio e quello dei volantini gettati su Roma.

 

 

 

 

 

LETTERA DI GRANDI AD ACQUARONE

24 luglio 1943

 

Lettera, su carta intestata del Presidente della Came­ra dei Fasci e delle Corporazioni, recapitata al Ministro della Real Casa, duca Acquarone, dal Marchese avv. Mario Zamboni, unitamente al testo dell'o.d.g. Grandi — destinato a Vittorio Emanuele III — in contemporaneità con l'ora d'inizio del Gran Consiglio del Fascismo.

 

Roma, 24 luglio 1943
Ore 17 pom.

 

Caro D'Acquarone,

 

comunico per conoscenza di Sua Maestà il Re, il testo dell' « Ordine del Giorno » che in questo momento mi reco a Pa­lazzo Venezia a sottoporre al Gran Consiglio.

 

Non soltanto come Presidente dell'Assemblea Legislativa ma come italiano e come soldato, oso supplicare Sua Maestà in quest’ora grave e decisiva per le sorti della Nazione e della Monar­chia, di non abbandonare la Patria.

 

Questo la Patria domanda al Re del 24 maggio, del Conve­gno di Peschiera, del Piave e di Vittorio Veneto.

 

Il Re soltanto può ancora salvare la Patria.

 

Dino Grandi

 

A S.E.

il Duca D'Acquarone

Ministro della Casa del Re

ROMA

 

 

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