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Dal 25 luglio all'8 settembre - 4

L'ULTIMA SEDUTA DEL GRAN CONSIGLIO
(24-25 LUGLIO '43)

a cura di Mario Benedetti

 

Allorché Mussolini, poco prima delle ore 19, ebbe terminato l'esposizio­ne introduttiva, nessuno dei presenti sapeva come il dibattito sarebbe proseguito e nessuno chiese la pa­rola. Fu perciò Mussolini stesso, dopo una pausa piuttosto lunga e, pare, imbarazzante, a concederla al più anziano dell'assemblea: il quadrunviro Emilio De Bono.

 

De Bono non senza allusioni polemiche nei confronti di Mussolini, tenne la difesa di ufficio, non solo dell'esercito, ma del suo Stato maggiore che, un po' per ciò che Mussolini aveva detto, un po' per quel che aveva lasciato intendere Farinacci e un po', infine, per il clima generale del mo­mento, appariva agli occhi di tutti quale l'oggetto — se non l'imputato — su cui quell'assemblea era chiamata a discutere. Rammentò De Bono che le accuse indiscriminate contro i generali, non gli sembravano né giuste né produttive; che lo Stato maggiore dell'esercito era stato forgiato durante vent'anni dal regime fascista e che, se carenze o difetti gli si volevano attri­buire, occorreva rimontare alle cause politiche. Sicché, concluse, bisognava piuttosto decidere se si aveva intenzione di resistere e se se ne avevano i mezzi (parecchi dei presenti domandarono con tono diverso, che andava dal provocatorio, allo sfiduciato, allo speranzoso: “I mezzi? Ci sono i mezzi?”). Per il modo come De Bono conchiuse il suo intervento, era chiaro che i mez­zi avevano certo la loro importanza, ma si sarebbero dovuti facilmente tro­vare purché ci fosse stata la volontà e lo “spirito”.

 

Mussolini in un'interruzione polemica e quasi rabbiosa, fornì alcune in­formazioni relative ai problemi riguardanti la marina, che esplicitamente ponevano in dubbio la fedeltà degli alti Comandi. Citò episodi ed esempi dai quali si doveva dedurre che, proprio negli ambienti dello Stato mag­giore della marina, dovevano trovarsi spie e traditori.

 

Farinacci s’inserì con foga nella scia di questa interruzione e, senza chiedere autorizzazione a parlare, svolse una frettolosa requisitoria contro l'alto Comando italiano, estendendo le sue accuse a tutto lo Stato maggiore e proponendo formalmente, nel caso si volesse affrontare una discussione approfondita, l'immediata convocazione del gen. Ambrosio nella sua quali­tà di capo di Stato maggiore generale (molti ebbero la sensazione che, se ciò fosse accaduto, quel consesso si sarebbe trasformato in una sorta di tribunale in cui Farinacci avrebbe assunto la parte di pubblico accusatore. Egli possedeva, in materia di tradimenti e di traditori, notizie sempre pre­cise: chi gliele forniva? I tedeschi?). Mussolini non raccolse quella solleci­tazione e la proposta di convocare Ambrosio cadde.

 

De Vecchi al pari di De Bono, assunse la difesa d'ufficio dell'esercito, distinguendosi tuttavia da lui nel rimproverare ad alcuni capi militari insi­pienza e perfino disfattismo.

 

Mussolini lo interruppe dicendogli che egli muoveva queste accuse per fatto personale: aveva recentemente chiesto un Comando e si era visto asse­gnare, giusto un paio di giorni prima, quello di una divisione costiera: la 216a, dislocata in Toscana (fu questa — a quanto i testimoni rammenta­no — l'unica interruzione aspra e personalmente ingenerosa di Mussolini).

 

Di questo passo, però, la discussione minacciava di disperdersi tra ac­cuse generiche, battute retoriche, recriminazioni meschine.

 

Bottai la ricondusse sul piano del realismo con un discorso lucido e duro. Premesso che egli non s'intendeva di questioni militari, disse di non rite­nere attendibile l'ipotesi formulata dallo Stato maggiore che gli angloame­ricani non avrebbero attaccato la Penisola. Poiché quella in corso, come Mussolini aveva detto, era una guerra di religione, affermò che gli anglo­americani non avrebbero rinunciato ad occupare la prima sede della religio­ne avversaria; cioè Roma. Poi rilevò che proprio da quanto Mussolini aveva esposto, non gli pareva esistessero quelle possibilità di resistenza sulle quali De Bono si era pronunciato con ottimismo. “La tua relazione”, disse rivolto a Mussolini, “è stata una ben dura mazzata sulle nostre ultime illusioni.” E terminò denunciando che, tra insufficienze tecniche e insufficienze di co­mando, l'Italia si accingeva ad affrontare l'attacco nemico in condizioni di palese impotenza.

 

Mussolini ascoltò attento, un po' torvo, senza interrompere; poi, quasi per provocare l’affondo che il discorso di Bottai aveva preparato, si volse in direzione di Grandi, disponendosi di sghimbescio sullo scranno, quasi per fronteggiare meglio quella che egli stesso definì poi “una filippica.” Fu al­lora che quelli dei presenti i quali erano informati dell'ordine del giorno con il quale Grandi si era presentato alla seduta, si accinsero ad assistere alla sua fase culminante.

Grandi si mostrò, in effetti, risoluto e abile. Esordi sottolineando che quanto stava per dire aveva valore per gli altri membri del consesso, perché al duce lo aveva già detto: mossa che servi, o comunque poteva servire, a convalidare la sensazione di alcuni dei presenti che Mussolini fosse, non solo informato, ma sostanzialmente consenziente con le proposte contenute nel famoso ordine del giorno. Procedendo a spiegarne il significato, Grandi disse poi che esso intendeva far assumere al massimo organo del regime le responsabilità affidategli dallo stesso duce attraverso la legge istitutiva. Re­spinse l'accusa di essere favorevole alla resa a discrezione, ma avverti che gli anglo-americani intendevano distruggere soltanto il regime. E perciò, disse, non si poteva esitare a sacrificare regime e partito, se questo era ormai il prezzo necessario per salvare la patria. I rovesci militari, secondo Grandi, erano dipesi in gran parte dai metodi di comando dittatoriale; metodi che con la loro degenerazione, avevano anche in altri campi prodotto effetti ne­gativi, frenando sostanzialmente lo sviluppo della rivoluzione, come egli aveva avuto modo di constatare rientrando in Italia nel '39 dopo otto anni di soggiorno all'estero. Denunciò poi, in questo contesto, “La formula ristretta e imbecille della guerra fascista” e la melensaggine con cui i giornali l'ave­vano propagandata (e qui sollevò le proteste del ministro della Cultura Po­polare Polverelli, che tacitò con un'osservazione feroce). Era proprio questa impostazione che aveva reso impopolare la guerra. Sicché egli poté fare appello all'unità nazionale al di sopra di ogni fazione, anche di quella fa­scista, e, nel tornare ad illustrare la validità del proprio ordine del giorno, ebbe anche l'astuzia di dargli un'interpretazione quasi antimonarchica. “È ora che il re esca dal bosco,” disse. “Dopo Caporetto egli prese posizione e lanciò un appello alla nazione. Oggi tace. O si assume la sua parte di respon­sabilità storica, e allora ha diritto di rimanere capo dello Stato. O non lo fa, e allora egli stesso denuncia la carenza della dinastia”.

 

La “filippica”, durata quasi un'ora, fece notevole impressione sull'as­semblea. A convalidarla, concorse la circostanza che anche di fronte alle accuse più cocenti, Mussolini non aveva mai interrotto l'oratore. Riferiscono, anzi, i testimoni che, quando questi ebbe finito, Mussolini, quasi volesse dar prova di maggiore impassibilità, volse lentamente lo sguardo su ciascuno dei presenti e lo fermò su Ciano, che sedeva a cinque posti di distanza da Grandi. Sapeva — e lo si capisce — che da lui, dopo Bottai e Grandi, gli sarebbero venuti gli attacchi più seri.

 

Ciano, contrariamente a, ciò che si afferma, si tenne entro i limiti dell’ortodossia e del rispetto. Partendo dalla premessa che bisognava stare ai patti, rammentò con calma che chi per primo non era stato ai patti era l'alleato tedesco. Citò date e dati precisi, rammentò episodi spiacevoli, atti di vera slealtà e di insolenza. Sapeva bene che queste cose, anche se feriva­no l'orgoglio del suocero dette in pubblico, trovavano eco nel suo animo.

 

Concordato o no che fosse, il gioco di squadra di Bottai, Grandi e Ciano sorti il suo effetto. Dopo le divagazioni e le stonature del rapporto introduttivo di Mussolini e le chiose vacue e personalistiche che De Bono e De Vecchi vi avevano portato, ora i fatti essenziali, nudi, crudi, dramma­tici, erano lì, sul tavolo, davanti a tutti: l'impossibilità di proseguire ragio­nevolmente nella guerra, dimostrata da Bottai; le origini politiche della sconfitta e la pur precaria via d'uscita dell'appello al re, indicate da Grandi; la tesi comprovata da Ciano che, in ogni caso, di fronte alla storia, l'Italia non avrebbe tradito l'alleanza con la Germania, ma sarebbe stata essa vitti­ma di un tradimento.

 

Gli astanti erano scossi; non comprendevano se Mussolini tirasse lui le fila di quel gioco — come molti seguitarono a dubitare anche in seguito — senza dubbio inconsueto e azzardato (ma non era eccezionale e rischiosa la situazione?), oppure esprimesse sorpresa e sgomento di trovarsi, per la prima volta, al centro di tante critiche, che lo investivano anche personalmente (Grandi gli aveva gridato: “Togliti dal bavero quella ridicola doppia greca che ti sei goffamente attribuito”). Diversi dei testimoni, tra i più attendibili e seri, diranno poi di aver avuto l'impressione che egli, non solo si aspet­tasse, ma quasi desiderasse provocare, con una sfuriata risolutiva, quella gragnola di colpi.

 

E i colpi non erano finiti.

 

Farinacci pur collocandosi su una posizione opposta a quella di Ciano — cioè assumendo la difesa dei tedeschi — fu anche lui d'estrema violenza. Fu anzi il primo che mancò, anche sostan­zialmente, di riguardo a Mussolini quando lo rimproverò di aver tolto agli stessi membri del Gran consiglio la libertà d'incontrarsi senza la sorveglian­za della polizia. Ma i suoi strali più velenosi, come si sapeva, furono rivolti contro lo Stato maggiore, che accusò apertamente di tradimento. Concluse illustrando il proprio ordine del giorno nel quale, dopo un richiamo allo statuto, si proponeva la restituzione del supremo comando delle forze armate al re, ma non dei poteri politici. In ciò la differenza dall'ordine del giorno Grandi.

 

Mussolini (era la prima volta che riprendeva la parola), replicò piuttosto debolmente, secondo alcuni, proprio contro il comune richiamo allo statuto dei due documenti. “Che significa”, disse, “tornare allo statuto? Ricordia­moci che combattiamo contro tre imperi e non è con questo genere di revi­sioni interne che li si affronta”. Poi, sempre tenendosi sulla difensiva, tornò sul tema del comando militare chiarendo meglio i retroscena relativi alla delega che gli era stata conferita dal sovrano. Trasse dai documenti che aveva nella sua cartella un'altra lettera di Badoglio, del maggio '40, e la lesse per intero all'assemblea. In termini adulatori per le qualità di stratega del duce, il maresciallo proponeva che egli esercitasse, in luogo del re, l'effettivo co­mando supremo delle forze armate, ravvisando in ciò una garanzia di suc­cesso.

 

Benché le responsabilità e le piaggerie dell'antico capo di Stato maggio­re generale, che aveva avallato l'entrata in guerra dell'Italia e ne aveva diretto l'infelice condotta iniziale, non facessero buona impressione sui presenti, co­desto tentativo quasi puerile di Mussolini di nascondere le proprie respon­sabilità dietro quelle di un così mediocre e squalificato personaggio, anziché restituirgli prestigio e autorità, incoraggiarono i suoi critici. E a questo punto egli, che detestava le disquisizioni giuridiche, dovette subire l'intervento sot­tile, causidico, da costituzionalista del ministro guardasigilli.

 

De Marsico illustrò il senso giuridico e morale dell'ordine del giorno Grandi e della sua richiesta, di fronte alla crisi in atto nelle istituzioni del regime, di restituire al sovrano le sue prerogative e “quella suprema ini­ziativa di decisione” che non tutti avevano ancora capito cosa significasse. Non si può dire se con intenzione o per imprudenza (il suo intervento fu commentato criticamente ad alta voce da Farinacci), De Marsico lasciò in­tendere chiaro che quella formulazione restituiva al re piena libertà di prendere, di fronte alla rovina del Paese, qualsiasi decisione ritenesse necessaria: anche l'accettazione di una pace separata dalla Germania.

 

Mussolini ostentò di seguire con noia e fastidio — anzi, di non seguire affatto — le argomentazioni di De Marsico; ma fu proprio ad esse che ri­spose quando ritenne giunto il momento di replicare.

 

Prima, vi fu una proposta di rinvio della seduta, avanzata da Scorza (e suggerita, come alcuni testimoni ritengono, da Mussolini stesso) ma pronta­mente respinta da Grandi, il quale rammentò come in altre occasioni meno gravi il Gran consiglio era stato trattenuto fino all'alba. Pertanto si prosegui con gli interventi di Federzoni e di Bignardi, entrambi favorevoli all'ordine del giorno Grandi e entrambi di non particolare rilievo. E si decise — man­cava ormai poco alla mezzanotte — di sospendere la seduta per una diecina di minuti.

 

Fu in quell'intervallo — in effetti protrattosi circa mezz'ora — che an­che coloro i quali erano intervenuti senza una speciale preparazione o pre­meditazione, si resero conto che quella riunione stava assumendo un'impor­tanza eccezionale, forse decisiva, pur senza presagirne le conseguenze estre­me a cos í prossima scadenza. Fu, altresì, in quell'intervallo che alcuni i quali si ritenevano i depositari della fedeltà assoluta al duce, come Gal­biati, o avevano motivi vari di diffidenza, come Buffarini-Guidi, Tringali­-Casanova, Farinacci stesso, cominciarono a vedere nella denuncia, pur obiet­tiva, della gravità della situazione formulata dagli elementi più responsa­bili e seri, un sottinteso insidioso: sempre, nei sistemi totalitari, la ragione che non fa comodo e cui non si sa come rispondere, diventa tradimento. E alcuni si adoperarono fin da allora per istigare Mussolini a non consentire ai “traditori” di condurre a termine il loro disegno.

 

In questo clima di tensione e di agitazione, si collocano impressioni, stati d'animo e anche gesti all'apparenza contraddittori, che vale la pena di registrare in quanto sono all'origine di certe versioni fantasiose e, soprattutto, indicativi di come talvolta la storia possa essere ricostruita, appunto, sulle fantasie.

 

Buflarini-Guidi, ad esempio, che durante l'esposizione introduttiva di Mussolini aveva continuamente mormorato all'orecchio di Bottai, accanto al quale si trovava, commenti ironici e sprezzanti sulla grossolana imperizia militare del duce, fu proprio quello che durante l'intervallo entrò nel suo studio e gli suggerì di far subito trarre in arresto quanti avevano osato criticarlo.

 

Parecchi tra questi ultimi, o degli altri che non avevano ancora parlato, rimasti durante la pausa nella sala del Pappagallo o portatisi in quella do­v'era stato approntato un buffet “autarchico" (bibite analcoliche e tramezzini di modesta consistenza), hanno ammesso di aver trascorso momenti di orgasmo e di aver temuto che, invece di veder rientrare Mussolini, potes­sero irrompere nella sala militi o poliziotti per trarre tutti in arresto.

 

Galbiati, nel contempo, che pur si sentiva dalla parte di quelli che avrebbero dovuto arrestare i “traditori”, confessò come, uscito dalla sala del Gran consiglio, rimase assai impressionato di non rintracciare il proprio ufficiale d'ordinanza che lo aveva accompagnato a palazzo Venezia e di aver sospettato che la polizia, già al servizio dei “congiurati”, avesse prov­veduto ad allontanarlo.

 

Un altro ex gerarca ci ha dichiarato di aver provato una penosa im­pressione quando, uscendo per primo dalla sala della riunione, si accorse che il capo della polizia Chierici, il segretario particolare di Mussolini De Cesare, i capi della scorta del duce Stracca e Agnesina e qualche altro poli­ziotto erano appostati dietro la porta a origliare.

 

Altri ci hanno confessato che nessuno dei partecipanti alla seduta osò, durante quell'intervallo, accostarsi al telefono per dare o ricevere notizie.

 

Tringali-Casanova, presidente del Tribunale speciale, pare abbia avvicinato alcuni dei gerarchi minori, dicendo loro esplicitamente che quella seduta sarebbe sboccata in una serie di rapidi e sommari processi.

 

Farinacci, per contro, avrebbe preso da parte Ciano per dirgli, ammiccan­do verso Albini, che era sottosegretario agli Interni: “Avete preparato ogni cosa a modo, assicurandovi la protezione preventiva della polizia”.

 

È facile ricostruire che, appunto la contemporanea presenza di militi e di agenti di P. S.,, all'interno del palazzo, abbia provocato due diverse e op­poste correnti di terrore, entrambe infondate.

 

Durante quella mezz'ora d'intervallo, Grandi raccolse sulle due copie del suo ordine del giorno (disse che il primo dei fogli era destinato al re, il secondo al duce) nuove adesioni. A Ciano sconsigliò di firmare, rammen­tandogli i suoi vincoli di parentela con Mussolini. Ma il giovane delfino ri­spose che aveva ben ponderato la responsabilità della sua decisione e che, in quel momento, non pensava al suocero ma al padre. “Se egli fosse qui stasera, sarebbe con noi”, avrebbe detto. Con quella di Alfieri, che sotto­scrisse dopo essere uscito dallo studio di Mussolini dove questi lo aveva convocato, le firme raccolte da Grandi assommavano a venti.

 

Quanto a Mussolini è difficile, se non impossibile, stabilire quali siano stati i suoi sentimenti e le sue reazioni. La sola cosa che si può dire è che tenne a ostentare impassibilità e indifferenza. Ritiratosi nello studio, si fece accompagnare, appunto, da Alfieri che sapeva legato a Ciano e a Grandi, lo fece attendere mentre sfogliava i telegrammi notturni dai diversi settori ope­rativi e poi gli chiese della situazione in Germania, insistendo caparbia­mente nel rifiutare il giudizio pessimistico che Alfieri ne dava. Licenziato l'ambasciatore a Berlino, ricevette Scorza, Buffarini-Guidi e Galbiati; ed è probabile che, in quell'occasione, abbia riesaminato l'ordine del giorno che il primo si accingeva a presentare in contrapposizione a quello di Grandi, ma è certo che respinse ogni suggestione a reagire con la violenza.

 

Alla ripresa, verso la mezzanotte e un quarto, Mussolini lesse ai gerar­chi i dispacci dalla Sicilia: continuava l'avanzata delle truppe anglo-americane su Messina e Palermo. Mussolini commentò la notizia come un'ulte­riore prova dell'incapacità o della cattiva volontà dei Comandi italiani; poi diede la parola al sottosegretario agli Esteri.

 

Bastianini, pur parlando con molta deferenza verso il duce, denunciò l'esistenza di una frattura tra regime e Paese e prospettò un nero quadro della situazione internazionale e la conseguente opportunità di orientarsi verso una “soluzione politica del conflitto”; cioè, una pace separata. Sugge­rí, nell'attesa, la formazione di un blocco tra Italia e Paesi dell'Europa orien­tale satelliti dell'Asse, da contrapporre all'egemonia tedesca.

 

Alla luce di quanto oggi si sa, l'intervento di Bastianini, che parve sconcertante ad alcuni dei presenti, non faceva altro che rivelare e svilup­pare quelle che erano ormai le linee di una “nuova politica” che Mussolini stesso andava perseguendo o che almeno lasciava perseguire dai suoi più diretti collaboratori: l'obiettivo finale era lo sganciamento dalla Germania, e su questo, ormai, i quattro quinti dei presenti concordavano; solo si chie­devano, non senza apprensione, come avrebbe potuto essere realizzato.

 

A questo punto cominciò la controffensiva dei fedelissimi.

 

Tringali-Casanova pronunciò parole violente contro l'ordine del giorno Grandi, in un intervento breve, povero di argomenti, ma non scevro di sot­tintese minacce che, venendo dal presidente del Tribunale speciale, diffusero nell'assemblea una certa preoccupazione.

 

Biggini, ministro dell'Educazione, pronunciò un discorso più intelligen­te, sostenendo l'incompetenza del Gran consiglio, organo consultivo, a de­liberare, specie nel senso indicato dall'ordine del giorno Grandi. Rivelò una certa ingenuità retorica nell'osservare che il documento ignorava sistemati­camente il termine “duce” e lasciava trasparire un ingeneroso tentativo di addossare ogni colpa per la grave situazione determinatasi sulle spalle di Mussolini.

 

Galbiati prese la parola subito dopo con un intervento ancor più mar­catamente retorico, che Mussolini definì in seguito “lirico, da soldato e da vecchia camicia nera”. Con impeto, il capo della milizia affermò che la frattura cui si era accennato, non esisteva tra partito e Nazione, ma c'era, e profonda, tra il Paese e i gerarchi che ora si schieravano all'opposizione. Negò che la responsabilità della mancata preparazione dell'Italia po­tesse farsi risalire al duce, asserendo che essa risiedeva “negli imprevedibili sviluppi del conflitto, il quale ha assunto proporzioni assolutamente impari alle risorse del nostro Paese”. Assicurò, però, che la volontà di combattere “esistente in basso, non in alto”, sarebbe bastata a vincere qualsiasi deficien­za tecnica. Trascinato dalla sua stessa oratoria — pare — egli disse anche che, in una simile condizione, un ordine del giorno come quello di Grandi equivaleva a un tradimento, aggiungendo (ma per modo di dire, spiegò poi) che, ove esso fosse stato approvato, non avrebbe esitato a far intervenire nella sala i suoi militi per punire i “ribelli”.

 

I testimoni, a cominciare da Galbiati, attribuiscono senso difforme a codeste minacce: cioè come il semplice prodotto dell'enfasi retorica o come l'espressione di un intendimento effettivo. Sebbene sia da ritenere più pro­babile la prima ipotesi (Mussolini, infatti, non si scompose e, secondo chi crede d'interpretarne i sentimenti e gli intendimenti, avrebbe, nell'altro ca­so, interrotto l'oratore; il quale, per altro, si scusò, alla fine, della propria foga). Fu a questo punto — pare — che Grandi passò di sotto al tavolo una delle due bombe che si era messo nella sahariana a De Vecchi, che gli sedeva accanto sul lato d'angolo. Non manca, tuttavia, chi contesta anche questo particolare, asserendo che la manovra si sarebbe notata, almeno da parte dei più lontani dirimpettai che avrebbero avuto visibilità completa anche per ciò che poteva avvenire sotto il piano dei tavoli.

 

Sta di fatto che le dure parole di Tringali-Casanova, quelle piene di fede e di rassegnazione, insieme, pronunciate da Biggini e il discorso di Galbiati, ridiedero animo a coloro che si opponevano all'ordine del gior­no Grandi, anche se più per antipatia e diffidenza verso il presentatore che per un sostanziale dissenso rispetto al suo contenuto. È a questo punto, comunque, che s'inserì il terzo intervento del duce su un terreno d'analoga mediocrità, anche per gli impliciti ricatti .di varia natura che conteneva.

 

Mussolini affrontò l'ordine del giorno in discussione negli aspetti po­litici illustrati dal presidente della Camera e in quelli giuridici su cui si era soffermato De Marsico. E considerò l'ipotesi che confluisse sul documento la maggioranza dei voti dei presenti, preannunciando così, senza volerlo (o, invece, intenzionalmente), che il documento stesso sarebbe stato, contro ogni consuetudine e precedente di quell'assemblea, posto in votazione. “I casi sono due – affermò – il sovrano può dirmi: « Caro Mussolini, io ho fiducia in voi; rimanete al vostro posto e continuate a dirigere le sorti della guerra e quelle del fascismo. Se i vostri vi abbandonano, il re vi rimane vicino ». E allora, signori, quale sarà il giudizio che spetterà ai firmatari dell'ordine del giorno Grandi? Oppure il re mi dirà: « Caro duce, di fronte alla situazione determinatasi con il voto di sfiducia che il Gran consiglio ha pronunciato contro di voi, capo del governo, io, quale capo dello Stato, ritiro la delega con cui avevo ceduto all'inizio della guerra il comando supremo delle forze armate, lasciandovi soltanto le vostre funzioni di primo ministro ». In que­sto caso, signori, anch'io ho la mia dignità, ho sessant'anni, posso considerare questi ultimi vent'anni come una bellissima avventura e, a simili condizioni di minorazione, risponderò al re: « Io, maestà, non posso rimanere ». Avete, signori del Gran consiglio, pensato a tutto questo?”

 

Dopo questo, politico, venne il ricatto personale, a quanto i più riferi­scono. A proposito della frattura determinatasi nel Paese, che gli ultimi ora­tori avevano discusso, Mussolini domandò se, per caso, essa non dipendesse dall'improvvisa fortuna finanziaria di taluni gerarchi. “Si sa tutto”, disse con tono marcatamente allusivo, “sui grossi patrimoni degli Agnelli, Pirelli, Volpi, Donegani, Cini; ma degli altri, degli ultimi venuti, il popolo sussur­ra”. Segui, infine, il ricatto sentimentale con un accenno piuttosto insistito alle proprie condizioni di salute. Venne poi un ultimo ricatto, o meglio, un discorso che, a seguito degli altri espliciti ricatti e per il modo ermetico con cui fu tenuto, diede quell'impressione e sorti l'effetto contrario da quello che è da presumere Mussolini si ripromettesse. Egli ammise, cioè, che negli ultimi due anni la fortuna lo aveva abbandonato (come se l'andamento della guerra dovesse considerarsi una questione di fortuna o di sfortuna, e soprattutto un fatto suo personale), ma aggiunse di possedere “ancora una chiave per risol­vere la situazione bellica. Ma – avvertì – non vi dirò qual è”.

 

E ciò era proprio il contrario di quello che ci voleva, in quanto, se aves­se davvero potuto dare agli incerti (e erano la maggioranza) un'indicazione positiva, un filo di speranza, molti avrebbero preferito confermare, come per tanti anni, la fiducia a lui. In realtà, su questo punto, anche volendo, Mus­solini non avrebbe potuto essere più chiaro, poiché la “chia­ve” cui alludeva erano le armi segrete delle quali gli aveva parlato cinque giorni prima Hitler, vincolandolo al più assoluto riserbo.

 

Per quanto maldestro, il discorso provocò un certo effetto, disorientando parecchi dei meno informati e decisi tra i presenti. A costoro il colpo più duro venne poi dato da Scorza, con un intervento che per la maggioranza risultò sorprendente, in quanto fino a quel punto si era ritenuto che il segre­tario del partito fosse sostanzialmente favorevole all'ordine del giorno Gran­di. Viceversa, ne presentò uno suo, nel quale, pur mantenendo alcune delle proposte di rinnovamento dei metodi e degli istituti contenute nei docu­menti sia di Grandi che di Farinacci, eludeva il riferimento al re e soprat­tutto poneva quella che potrebbe dirsi la questione di fiducia. Illustrandolo, Scorza si appellò esplicitamente all'obbligo di fedeltà e di obbedienza dei fascisti e marcò il fatto che quell'ordine del giorno, più che suo, doveva considerarsi quello del segretario del partito. Rivolgendosi, nella chiusa, a Mussolini, disse: “Voi, duce, non siete un dittatore. Siete stato l'uomo più disobbedito del mondo; tuttavia i fascisti sono tutti con voi, vicino a voi, fedeli a voi”.

 

Era chiaro, insomma, che respingere il suo ordine del giorno, signifi­cava compiere un atto d'insubordinazione e molti ritennero — e ritengono tuttora — che il documento di Scorza era stato preparato previa intesa con Mussolini e rappresentava, anzi, una manovra di quest'ultimo e, per di più, con l'impronta delle vetuste e sprezzate manovre parlamentari.

 

Ma in quel clima, che era tutto irreale e paradossale rispetto alle tradi­zioni del regime, la manovra parve sortire subito buoni effetti.

 

Polverelli annunciò che ritirava la sua precedente adesione all'ordine del giorno Grandi per appoggiare quello di Scorza.

 

Suardo dichiarò con le la­crime agli occhi che si sarebbe astenuto, non comprendendo bene come stavano le cose.

 

Frattari espresse l'opinione che era necessario continuare la guerra e resistere fino alla fine accanto ai tedeschi e che, perciò, si sentiva più vicino a Scorza che a Grandi. Anche Cianetti manifestò le proprie perplessità.

 

La frana sarebbe probabilmente continuata, se i tre maggiori protagoni­sti, fiancheggiati adesso da De Stefani e da Alfieri, non avessero ricondotto il discorso sul terreno della concretezza politica, fuori dai sentimentalismi e dai ricatti.

 

Ciano intervenne per primo, sostenendo che restituire il comando su­premo delle forze armate al re non significava confessarsi sconfitti e che, del resto, si poteva trovare un modo dignitoso per porre fine alla guerra, stante il fatto che si era “combattuto con valore contro forze superiori, di fronte alle quali si è dovuto alla fine cedere”.

 

L'argomento convinse solo quelli che volevano essere convinti e provo­cò, invece, in diversi un senso di disagio poiché, anche tra quegli altissimi esponenti del regime, c'era chi comprendeva come una simile formulazione teorizzasse, poco simpaticamente, il concetto fascista che le guerre andavano sempre condotte contro paesi che avessero “forze inferiori”: l'Abissinia, la Spagna repubblicana, la Grecia...

 

Dove Ciano si mostrò ancor meno felice, fu nell'avanzare la proposta che si fondessero i tre ordini del giorno in discussione in un unico documen­to gradito a Mussolini. Aggiunse infine, criticando l'ordine del giorno Scor­za, che il richiamo in esso fatto al papa non sarebbe stato gradito in Vati­cano.

 

Grandi fu contrario alla proposta; che, del resto, non fu raccolta da nes­suno ma fini con l'avere un effetto distensivo, sia pur solo in superficie.

 

Bottai redarguì con energia Cianetti per la sua irrisolutezza e sostenne anche lui che le differenze fra i tre ordini del giorno non erano insormon­tabili, ma tenne a precisare che quelli di Farinacci e di Scorza gli parevano inadeguati alla gravità della crisi. “Una crisi che investe tutta la nazione nei suoi interessi storici – disse – non può essere risolta in sede di partito, ma va prospettata nella sua interezza alla suprema decisione della corona”. Terminando, fu patetico: “Ho lungamente meditato durante mesi e giorni di tormento, prima di concludere che il mio dovere d'italiano e di fascista è quello di assumere la posizione che ho preso questa sera e che sola risponde all'interesse della nazione e degli ideali per cui il fascismo sorse venticinque anni or sono tra l'entusiasmo degli italiani. Da due giorni non mangio e non dormo – concluse rivolgendosi a Cianetti – ma se ora ritirassi la mia firma all'ordine del giorno Grandi, non mi sentirei più un uomo”.

 

De Stefani venne di rincalzo con un discorso pacato e sicuro, che aveva preparato prima della riunione e che fece buon effetto tra i presenti. Ricordò le responsabilità e i doveri del Gran consiglio e disse, con tono efficace (e perfino affettuoso, rivolgendosi a Mussolini), che tra questi c'era anche quello di mettere il duce al riparo dalle sventure, di cui tutti dovevano assumere la responsabilità.

 

Albini si affiancò agli oppositori con un rapporto allarmante sulla situazione del Paese, citando esempi e dati circa il malumore dell'opinione pubblica, gli scioperi e altre manifestazioni di opposizione che tutti i presenti avevano fino a quel momento ignorato. Ag­giunse Albini che l'opera di sobillazione trovava ovunque terreno propizio e ormai l'ampiezza del sommovimento antifascista era tale da vanificare l'opera della polizia, per quanto si prodigasse.

 

Era un quadro inaspettato che provocò molta impressione, anche per­ché la maggior parte di quei gerarchi erano da anni abituati a non por mente a questo genere di cose, considerando che, per esso, ci fosse appunto la polizia e che il suo compito dovesse essere quello di provvedere ai mal­contenti e di non far giungere, a chi operava al vertice, neppure sentore che essi ci fossero per non disturbarne l'attività.

 

De Marsico, in un'atmosfera divenuta drammatica, ribadì che l'unica via d'uscita era la restituzione dei poteri alla corona.

 

De Bono non solo ancora una volta e con accenti appassio­nati assunse la difesa dell'esercito e dello Stato maggiore, ma fece presente che anche queste erano forze sulle quali il regime doveva fare affidamento.

 

Federzoni invocò la creazione di un fronte nazionale capace d'unire gli italiani al di sopra del partito e del regime.

 

Alfieri ricondusse il discorso su un terreno concreto e compi l'opera gettando una secchiata d'acqua gelida sulle speranze di coloro che si aspettavano aiuti dalla Germania. Disse, molto ascoltato, che era ormai inu­tile farsi illusioni al riguardo: i tedeschi non erano in grado d'inviare altri aiuti, impegnati come si trovavano sul fronte orientale e poco convinti dell’utilizzazione che se ne sarebbe fatta in Italia. Aggiunse, inoltre, due os­servazioni estremamente gravi: che anche per la Germania le probabilità di una vittoria erano ormai assai esigue e che il fronte italiano rappresentava per Berlino solo un antemurale utile a tenere il più possibile lontana la guerra dal territorio nazionale tedesco. Alfieri precisò, infine, che queste cose erano apparse sufficientemente chiare anche al recente convegno di Fel­tre, al quale fece per primo riferimento, dato che, singolarmente, fino allora, né Mussolini aveva dato conto né altri gliene aveva chiesto di un evento di tanta importanza. Richiamandosi a ciò che gli altri “diplomatici” avevano accennato, prospettò infine, in forma del tutto esplicita, la necessità di trovare, in quelle disperate condizioni, un'onorevole via d'uscita e disse chiaro che ciò poteva esclusivamente avvenire attraverso trattative personali tra Hitler e Mussolini, il quale era l'unico che, con una franca spiegazione, poteva risparmiare al Paese l'accusa di tradimento. La testimonianza di Al­fieri colpi profondamente i presenti.

 

Grandi s'inserì subito, per sfruttare il momento psicologico favorevole e evitare che la proposta conciliativa di Ciano fosse ripresa all'ultimo mo­mento. Per riuscirvi meglio e superare le esitazioni degli ultimi incerti, ri­corse, rivelando di nuovo abilità dialettica e tattica, a un espediente. Disse, cioè, che il proprio ordine del giorno poteva rimanere un atto interno, da non rendere noto, un documento di cui solo Mussolini avrebbe deciso che uso fare: con esso, le prerogative e le possibilità politiche del duce sarebbero risultate rafforzate. Infine, cambiando tono, rimproverò al “capo del governo” di aver pronunciato parole di minaccia e di ricatto, che respinge­va e che, d'altro canto, la gravità del momento non potevano consentire. Re­spinse anche l'accusa d'infedeltà (che nessuno gli aveva rivolto in modo esplicito) e aggiunse: “La dittatura non si può opporre a che il Gran con­siglio, organo creato dalla dittatura medesima, esprima la sua volontà, il suo giudizio e anche il suo voto di fiducia o di sfiducia. Tu stesso, duce, nel ‘22, facesti sboccare la marcia su Roma in una soluzione costituzionale. Do­mandiamo che oggi si ripeta lo stesso cammino”. Per chiudere, ricorse ad una battuta ad effetto: “Toglici duce questa casacca che Starace ci ha imposto per troppi anni e restituiscici l'antica gloriosa camicia nera”.

 

Non si è mai riusciti a dare un'interpretazione autentica al motivo per cui Mussolini chiuse la discussione a quel punto: se perché la considerava ormai esaurita a suo svantaggio; o perché — come pensa Grandi — rite­neva ancora di poter contare sulla maggioranza dei votanti e temeva che la prosecuzione del dibattito potesse ulteriormente intaccare questa presunta maggioranza; o, infine, — come molti hanno sempre sospettato — perché giudicava la situazione giunta a un punto di maturità, e precisamente a quello che, nel suo intimo, egli stesso desiderava.

 

Benché il dibattito si fosse protratto per circa dieci ore e parecchi aves­sero preso la parola più di una volta (nelle ultime due ore gli interventi si erano, anzi, accavallati e c'erano state frequenti interruzioni, sicché è impos­sibile ricostruire con assoluta fedeltà la successione dei discorsi), non ave­vano ancora preso la parola quattro gerarchi dei più anziani, e alcuni di notevole prestigio, come Acerbo, Rossoni, Buffarini-Guidi e Marinelli, e tre che intervenivano per la prima volta in quell'assemblea: Balella, Gottardi e Pareschi.

 

Senza chiedere se qualcuno avesse ancora da parlare, Mussolini si rivol­se con gesto imperioso a Scorza, ordinandogli di mettere ai voti l'ordine del giorno Grandi, essendo quello, disse, che raccoglieva il maggior numero di firme. Scorza, che non comprese — come ancor oggi ammette — quali fos­sero le reali intenzioni del dittatore ma ritenne d'interpretare una sua mossa, stravolgendo l'ordine protocollare di precedenza che voleva i quadrunviri consultati per primi, cominciò l'appello dal proprio nome e rispose con un “no” vibrato e deciso. Poi chiamò Suardo, presidente del Senato, che mor­morò un flebile: “Mi astengo”. Saltò Grandi che, come presidente della Ca­mera, avrebbe dovuto seguire, secondo la logica di codesto nuovo sistema del­le precedenze, e si rivolse a De Bono, il più anziano dei quadrunviri che, nelle ultime due ore aveva dato palesi segni di stanchezza (alcuni assicurano che si era appisolato): ciò nonostante De Bono pronunciò un “sí” forte e sicuro che scosse e impressionò i presenti. Seguirono i voti favorevoli dell’'altro quadrunviro De Vecchi, di Grandi, De Stefani, Rossoni, Bottai, Cia­no, Alfieri, membri di diritto; di Federzoni, dei ministri Acerbo (Finanze), De Marsico (Giustizia), Cianetti (Corporazioni), Pareschi (Agricoltura); dei sottosegretari agli Esteri e agli Interni Bastianini e Albini (inclusi nell'elenco degli appel­landi, pare, per una svista di Scorza poiché — come poi si seppe — costoro erano solo membri invitati al Gran consiglio e non avevano diritto di voto); poi il presidente della Confederazione industriali Balella; i segretari delle Confederazioni dei lavoratori dell'industria e dell'agricoltura Gottardi e Bi­gnardi e, infine, il segretario amministrativo del partito Marinelli.

 

Votarono “no”, oltre a Scorza, Buflarini-Guidi (membro di diritto), Galbiati (capo della milizia), Tringali-Casanova (presidente del Tribunale speciale), i ministri della Cultura Popolare e della Educazione Polverelli e Biggini e il presidente della Confederazione degli agricoltori Frattari. Fari­nacci, membro di diritto, disse che egli dava il voto al proprio ordine del giorno, irritualmente, poiché non era stato posto in votazione.

 

Mussolini, chiuso in sé, assisté passivo ma attento all'appello e poi al computo dei voti, che fu fatto con scrupolo quasi ridicolo, tenendo conto del tipo di assemblea, di ciò che si era già capito e dell'ora avanzata. L'esi­to è noto: 19 si, 7 no, un astenuto e un voto nullo; quello, appunto di Fa­rinacci.

 

Appresolo ufficialmente, Mussolini si levò e disse con voce cupa: “Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”. Poi, prima di voltare le spalle ai presenti, aggiunse che l'indomani avrebbe recato al re l'ordine del giorno approvato, con un tono che non lasciava capire se considerava il gesto una mera formalità o voleva dargli un significato drammatico o, infi­ne, sottintendeva ancora una minaccia.

 

 

 

 

 

TESTO DELLE MOZIONI PRESENTATE

 

 

Ordine del giorno Grandi

 

Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici con bat­tenti d’ogni arma, che fianco a fianco con la fiera gente di Sici­lia, in cui più alta risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di estremo valore e l’indomito spi­rito di sacrificio delle nostre gloriose Forze armate;

esaminata la situazione interna ed internazionale e la con­dotta politica e militare della guerra,

proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risor­gimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano;

afferma la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest'ora grave e decisiva per i destini della na­zione;

dichiara che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla Corona, al Gran Con­siglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali;

invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia, per l’onore e per la salvezza della Patria, assumere, con l'effettivo comando delle Forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia dì Savoia.

 

 

 

Ordine del giorno Farinacci

 

Il Gran Consiglio del Fascismo, veduta la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra sui fronti dell’Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto allo eroiche Forze armate italiane e a quelle alleate, unite nello sfor­zo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle altre genti, alle masse lavoratrici dell'industria e dell’agricoltura che potenziano col lavoro la Patria in armi, alle Camicie nere e ai fascisti di tutta Italia che si serrano nei ranghi con immutata fedeltà al Regime;

afferma il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere fino all’estremo il sacro suolo della Patria, rimanendo fermi nell'osservanza delle alleanze concluse;

dichiara che a tale scopo è necessario ed urgente il ripristino integrale di tutte le funzioni statali, attribuendo al Re, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, al Partito, alle Corpora­zioni, i compiti e le responsabilità stabiliti dal nostro Statuto e dalla nostra legislazione;

invita il Capo del Governo a chiedere alla Maestà del Re, ver­so il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Na­zione, perché voglia assumere l'effettivo comando di tutte le Forze armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il po­polo combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la dignità d’Italia.

 

 

 

Ordine del giorno Scorza

 

Il Gran Consiglio del Fascismo, convocato mentre il nemico — imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze — calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dal mare minaccia la Penisola;

afferma solennemente la vitale e incontrovertibile necessità della resistenza ad ogni costo.

Certo che tutti gli istituti e i cittadini — nella piena e consapevole responsabilità dell'ora — sapranno compiere il loro do­vere sino all'estremo sacrificio, chiama a raccolta tutte le forze

spirituali e materiali della Nazione per la difesa dell'unità dell’indipendenza e della libertà della Patria.

Il Gran Consiglio del Fascismo in piedi saluta le città strazia­te dalla furia nemica e le loro popolazioni che in Roma — madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà — trovano l'espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina;

rivolge il pensiero con fiera commozione alla memoria dei caduti e alle loro famiglie che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento;

saluta nella maestà del Re e nella dinastia Sabauda il simbo­lo e la forza della continuità della nazione e l'espressione della virtù di tutte le Forze armate che — insieme con i valorosi sol­dati germanici — difendono la patria in terra, in mare, in cielo;

si unisce reverente al cordoglio del Pontefice per la distru­zione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto del­la religione e dell'arte.

Il Gran Consiglio del Fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi;

proclama pertanto urgente la necessità di attuare quelle ri­forme e innovazioni nel Governo, nel Comando Supremo, nella vita interna del paese, le quali, nella piena funzionalità degli

organi costituzionali del regime, possono rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano.

 

 

 

 

 

IL TESTO DEI COMUNICATI UFFICIALI

 

Alle 22,45 del 25 luglio 1943 l’annunciatore radiofonico Giambattista Arista, riceve improvvisamente dal direttore del giornale radio, Pio Casali, il testo di un comunicato straordinario portato personalmente dal Ministro della Real Casa Acquarone già dattiloscritto con macchina diversa da quella allora in uso al giornale radio. Un militare scorta l’annunciatore fino al microfono:

 

« Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il. Cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato il Cavaliere, Maresciallo d'Italia, Pietro Badoglio ».

 

 

 

Vengono poi letti i due proclami, compilati Orlando, e ratificati personalmente dal Re che vi apportato delle correzioni. Al termine della loro lettura la Marcia Reale, per la prima volta dopo molti anni, non era più abbinata a Giovinezza.

 

Italiani,

Assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell'ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede, di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita.

Ogni italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che han­no lacerato il sacro suolo della Patria.

L'Italia per il valore delle sue Forze Armate, per la decisiva volontà di tutti i cittadini, ritroverà, nel rispetto delle Istituzioni che ne hanno sempre confortata l'ascesa, la via della riscossa.

Italiani,

sono oggi più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede nell'immortalità della Patria.

 

firmato: Vittorio Emanuele

 

 

 

Italiani,

Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri.

La guerra continua. L'Italia duramente colpita nelle sue Provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni.

Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria; esempio a tutti.

La consegna ricevuta é chiara e precisa: sarà scrupolosamen­te eseguita e chiunque si illuda. di poterne intralciare il nor­male svolgimento, o tenti di turbare l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito.

Viva l'Italia, viva il Re.

 

firmato: Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio

 

 

 

 

 

Schemi di Decreto inviati da Grandi ad Acquarone

25 luglio 1943

 

Nelle prime ore del mattino — a breve distanza dal termine dell'ultima riunione del Gran Consiglio — Grandi trasmette al Ministro della Real Casa, Acquarone, due schemi di Decreti reali, esponendo le ragioni che consigliano l'abolizione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e la soppressione del Gran Con­siglio del Fascismo.

 

Roma, 25 luglio 1943
Ore 8 ant.

 

Caro D'Acquarone,

 

Ti accludo i due schemi di Decreti Reali, il primo concer­nente l'abolizione della Camera dei Fasci e Corporazioni ed il ripristino della Camera dei Deputati secondo lo Statuto del Re­gno, il secondo concernente la soppressione del Gran Consiglio del Fascismo. Come Ti ho testé detto, credo che questi dovran­no essere i « primi » provvedimenti da adottarsi nell'eventua­lità che le decisioni del Sovrano siano quelle che si sperano. Ti sarò grato se vorrai sottoporre al Re gli schemi in questione.

 

Come già Ti ho detto, io sono d'avviso che bisogna tornare al sistema del « collegio uninominale ». Ma per fare ciò occorro­no anzitutto dei Partiti politici che ancora non dimostrano di esistere. Occorre inoltre, per la legalità costituzionale, una legge elettorale la quale dovrà essere votata dalla Camera prima del suo scioglimento. Soluzione provvisoria quindi, e di pura tran­sizione, per rendere possibile con lo scioglimento della Camera le nuove elezioni.

 

Colla abolizione che propongo all'Art. 3 (oltreché degli Artt. dal 1° all'11°) della legge 19 gennaio 1939, circa 200 degli at­tuali componenti dell'Assemblea Legislativa e che sono tali in quanto rappresentano il Partito Fascista e il Gran Consiglio, re­steranno automaticamente privi di mandato. Rimangono in ca­rica provvisoriamente e fino allo scioglimento della Camera, cir­ca 500 Deputati, ossia esclusivamente quelli che rappresentano le categorie produttive, per metà in rappresentanza dei datori d'opera, per metà, dei prestatori d'opera.

 

 

 

Testo del secondo allegato alla lettera di Grandi.

 

Roma, 25 luglio 1943
Ore 8 ant.

 

SCHEMA DI DECRETO REALE
PER LA SOPPRESSIONE DEL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO

 

Articolo Unico

È abrogata la Legge 9 dicembre 1929, N. 2693, sull'ordina­mento e attribuzioni del Gran Consiglio del Fascismo.

 

 

 

 

 

Grandi ha sempre detto che egli, subito dopo l'ultima se­duta del Gran Consiglio, aveva preparato un comunicato da far divulgare per mezzo dei giornali e della radio, per informare gli italiani e l'opinione pubblica mondiale, su quanto discusso e de­liberato nel supremo consesso del Regime, sul contenuto della mozione approvata con larga maggioranza per appello nominale. Ma Badoglio e il gruppo dei generali che rivendicavano l'esclusiva della estromissione di Mussolini, non permisero la diffusio­ne del comunicato. Grandi si rivolse allora ad Acquarone con la lettera che qui esce dall'inedito. Il testo di Grandi sulla riunione del Gran Consiglio sarà poi pubblicato dai giornali, ma non radiotrasmesso.

 

Roma, 26 luglio 1943

 

Caro D'Acquarone,

 

ecco il comunicato sul Gran Consiglio.

Non potrebbe essere più succinto di così.

Domando ed insisto per la sua pubblicazione.

 

Non capisco perché non si voglia rendere di pubblica ragione questo documento. Pubblicarlo prima delle decisioni del Sovra­no non sarebbe stato riguardoso. Ma oggi gli Italiani debbono sapere come le cose sono effettivamente andate. Mi pare fra l'altro che sia nell'interesse della Corona che i fatti siano cono­sciuti nella loro verità.

 

Si vuole forse accreditare la storia di un colpo di mano mi­litare?

 

Ma questa non è la verità.

 

Dino Grandi

 

A S.E.

il Duca D'Acquarone

Ministro della Casa del Re

ROMA

 

 

 

 

 

COMPOSIZIONE DEL GOVERNO BADOGLIO

26 luglio – 17 novembre 1943

 

 

Affari esteri: Raffaele Guariglia, Ambasciatore

 

Interno: Dott. Bruno Fornaciari, Prefetto

 

Africa Italiana: Generale Melchiade Gabba, Senatore del Regno

 

Grazia e Giustizia: Dott. Gaetano Azzariti, Direttore Generale del Ministero di Grazia e Giustizia

 

Finanze: Domenico Bartolini, Provveditore Generale dello Stato, Senatore del Regno

 

Guerra: Generale Antonio Sorice, Consigliere di Stato

 

Marina: Contrammiraglio Raffaele De Courten

 

Aeronautica: Generale di Divisione Aerea Renato Sandalli

 

Educazione Nazionale: Dott. Leonardo Severi, Consigliere di Stato

 

Lavori Pubblici: Dott. Domenico Romano, Direttore Generale del Ministero dei Lavori Pubblici

 

Agricoltura e Foreste: Prof. Alessandro Brizi, Senatore del Regno

 

Comunicazioni: Generale Federico Amoroso

 

Corporazioni: Dott. Leopoldo Piccardi, Consigliere di Stato

 

Cultura Popolare: Dott. Guido Rocco, Ambasciatore, Direttore Generale per la Stampa Estera

 

Scambi e Valute: Dott. Giovanni Acanfora, Direttore Generale della Banca d’Italia

 

Produzione Bellica: Generale Carlo Favagrossa

 

 

 

 

 

MANIFESTO DELLO STATO D'ASSEDIO E DEL COPRIFUOCO

26 luglio 1943

 

I poteri per la tutela dell'ordine pubblico sono passati alle autorità mi­litari, viene ordinata l'affissione del seguente manifesto da parte dei comandanti di Corpo d'Armata e di Difesa territoriale competenti.

 

 

Assunzione dei poteri per la tutela dell'ordine pubblico.

 

In virtù delle facoltà conferitemi dalla dichiarazione dello stato di guer­ra e dall'art. 217 e seguenti del Testo Unico delle leggi di P. S., assumo la direzione della tutela dell'ordine pubblico nel territorio di questa pro­vincia.

 

Allo scopo di conservare inalterato l'imperio della legge, faccio pieno affidamento sull'alta coscienza del dovere civico e sul patriottismo di tutti i cittadini, sull'impiego della forza ovunque si renda necessario per ridurre alla ragione chiunque contravvenga alle leggi, alle ordinanze delle autorità costituite, alle consuetudini del dovere civile.

 

Ordino:

 

1. Tutte le Forze Armate dello Stato e di polizia residenti nella pro­vincia, le milizie delle varie specialità, i corpi armati cittadini e le guardie giurate passano alle mie dipendenze. I rispettivi comandanti si presenteranno al Comando del Corpo d'Armata per ricevere ordini.

 

2. Coprifuoco. — Dal tramonto all'alba, con divieto di circolazione dei civili, eccezion fatta per i sacerdoti, medici, levatrici, appartenenti a società di assistenza sanitaria nell'esercizio delle rispettive funzioni.

Fino a che perdurerà il servizio notturno dei treni in arrivo e in par­tenza dalle stazioni ferroviarie, i civili che vi si rechino o ne provengano dovranno essere muniti di regolare biglietto ferroviario.

I pubblici esercizi di ogni categoria, i teatri di varietà, i cinematografi, i locali sportivi e similari resteranno chiusi nelle ore del coprifuoco.

 

3. È fatto tassativo e permanente divieto di riunioni in pubblico di più di tre persone, di tenere, anche in locali chiusi, adunate, manifestazioni,conferenze e simili; di vendita di armi e di munizioni di ogni specie; di circolazione di autoveicoli, di motoscafi e velivoli di ogni tipo, eccezion fatta per quelli adibiti a servizi pubblici e militari (i conduttori di questi ultimi dovranno essere forniti di apposito foglio di circolazione, rilasciato dalle autorità civili e militari alle quali fanno capo); di affissione di stam­pati, di manoscritti, di inviti di qualunque specie in luogo pubblico, escluse le chiese di confessione cattolica, per quanto ha tratto al normale svolgi­mento del culto; di uso di qualsiasi segnalazione ottica o luminosa.

 

4. Fino a nuovo ordine sono considerati decaduti i permessi di porto d'armi di qualsiasi specie concessi avanti la pubblicazione del presente manifesto.

Le autorità competenti sospenderanno il rilascio dei porto d'armi in corso.

I detentori di armi regolarmente denunciate sono responsabili della conservazione delle medesime nell'interno della propria abitazione, senza possibilità di uso da parte di chicchessia.

 

5. Tutti i cittadini che abbiano necessità di uscire di casa dovranno portare seco i documenti di identità, con fotografia, con l'obbligo di esibirli a qualsiasi richiesta degli agenti dell'ordine e dei comandanti di truppa.

 

6. Stampa. — È ammessa per i quotidiani una sola edizione giorna­liera, con le prescrizioni attualmente in vigore.

 

7. Fabbricati. — Gli accessi alla pubblica via dei fabbricati, limitata­mente all'ingresso principale, devono restare aperti giorno e notte e illumi­nati secondo le disposizioni in vigore circa l'oscuramento. Le finestre di tutti gli edifici devono avere le persiane chiuse durante le ore del co­prifuoco.

Le truppe, le pattuglie, gli agenti della forza pubblica e dell'ordine, co­munque alle mie dipendenze, sono incaricati della imposizione, occorrendo anche con le armi, degli ordini sopra specificati.

I trasgressori saranno senz'altro arrestati e giudicati dai Tribunali mi­litari.

 

 

 

 

 

PER UN'ITALIA DEMOCRATICA E CRISTIANA

« Programma di Milano »

25 luglio 1943

 

Il programma politico « Per un'Italia democratica e cristiana », che traeva ispirazione anche  dai « dieci punti » del Movimento Guelfo di Azione, fu preparato prima della caduta del fasci­smo con il contributo di Alcide De Gasperi, Pietro Malvestiti, Giovanni Gronchi, Edoardo Clerici, Achille Grandi, Stefano Jacini, Enrico Falck, Enrico Casò, Gioacchino Malavasi, Vittorio Giro, Luigi Meda, Ugo Zanchetta, Giuseppe Spataro ed altri. Stampato in un milione di copie, venne distribuito in tutta Italia fra il 25 e il 31 luglio 1943. Il 26 luglio, il Movimento Guelfo di Azione, con un manifesto « agli Italiani degni della Libertà », invitava « i Cattolici tutti ad unirsi sotto le bandiere del Par­tito Democratico Cristiano ».

 

 

1. Nel quadro di una rinnovata Società delle Nazioni — espres­sione della solidarietà di tutti i popoli — federazione degli Stati europei retti a sistema di libertà.

Rappresentanza diretta dei popoli — accanto a quella dei Governi — così nell'una come nell'altra.

Disarmo generale e simultaneo — forze armate, a recluta­mento volontario, ad esclusiva disposizione della comunità internazionale.

Diritto volontario di cittadinanza europea accanto a quello di cittadinanza nazionale.

Parità giuridica fra i cittadini di tutti gli Stati.

Applicazione di tali principi di solidarietà alla economia internazionale.

 

2. Indipendenza e sovranità della Chiesa e dello Stato, in or­dine ai loro fini rispettivi.

Rispetto della coscienza e profes­sione religiosa dei singoli.

Ispirazione cristiana nell'attività dello Stato e nella vita del­la Nazione.

Intangibilità sostanziale del Trattato del Laterano.

Il Concordato mantenuto nella forma attuale fino a che le alte parti non ritenessero di modificarlo concordemente.

 

3. Libertà, fondamento della legittimità e della vita di tutti gli istituti civili e politici. Rafforzamento della famiglia, anche con attribuzioni di carattere pubblico.

Decentramento, autonomia e potenziamento dei Comuni e delle Regioni — attribuzione alla Regione di funzioni nor­mative, specie in materia amministrativa e finanziaria.

Camera dei Deputati a suffragio universale eletta con siste­ma proporzionale.

Rappresentanza elettiva dei grandi interessi nazionali nel Senato.

Governo parlamentare, con garanzia di stabilità.

Potere giudiziario, indipendente — unificazione giurisdizio­nale.

 

4. Riconoscimento del diritto di proprietà inteso come fun­zione sociale e coordinato coi prevalenti diritti del lavoro.

Estensione delle assicurazioni sociali: semplificazione e decentramento della loro gestione.

Sindacato di categoria, autonomo ed obbligatorio.

Libera organizzazione del lavoro e della produzione, con rappresentanza proporzionale in seno al Sindacato di cate­goria.

Contributo sindacale obbligatorio, unico per entrambi i set­tori.

Sciopero vietato nei servizi pubblici.

Nelle altre categorie sciopero e serrata su delibera del Sin­dacato delle rispettive categorie, con votazione segreta de­gli iscritti, dopo esaurimento di tutti i mezzi conciliativi.

Tendenza all'arbitrato obbligatorio.

 

5. Rispetto e protezione di ogni sana iniziativa industriale nel campo della produzione e del lavoro.

Immissione progressiva, con titolo giuridico, dei lavoratori nel processo produttivo delle imprese a tipo capitalistico, mediante compartecipazione agli utili, al capitale e alla ge­stione.

Smobilitazione delle attuali strutture corporativistiche e loro trasformazione in organi superiori consultivi della produzio­ne e del lavoro.

Intervento dei pubblici poteri limitato alla tutela del con­sumatore, al controllo delle grandi imprese di utilità sociale, e a difesa contro la formazione di egemonie capitalistiche.

 

6. Difesa e incremento della piccola proprietà: l'accesso dei contadini alla proprietà facilitato mediante il credito agrario ed il diritto di prelazione nell'acquisto dei fondi.

Incremento alla cooperazione agraria: avviamento alla ge­stione associata delle imprese agricole a tipo industriale. Compimento della riforma del latifondo e della bonifica in­tegrale, salvi i diritti della giustizia e le esigenze della eco­nomia.

 

7. Libertà di insegnamento: potenziamento della funzione educativa della scuola intesa come integrazione di quella della famiglia.

Decentramento regionale della scuola di primo e di secondo grado.

Università autonome.

Libertà dell'insegnamento privato: esame di Stato. Vigilanza dello Stato su tutti i rami dell'insegnamento, con il concorso dei corpi insegnanti e delle associazioni dei pa­dri di famiglia.

Adito gratuito dei migliori alla istruzione di ogni grado: va­glio rigoroso delle capacità.

Incremento della istruzione professionale.

Intensificazione degli scambi culturali internazionali.

Restaurazione e riforma delle Accademie.

 

8. Semplificazione del sistema tributario, decentrato regionalmente.

Imposte progressive sul patrimonio e sul reddito.

Confisca dei profitti illeciti e profonda incisione sui sopra-profitti di guerra.

 

9. Politica di scambi diretta al superamento graduale dell'au­tarchia, all'inquadramento dell'economia italiana nell'ordine economico internazionale, alla difesa e valorizzazione dei prodotti tipici italiani.

 

10. Politica demografica ispirata ai principi della morale cristiana.

Libertà regolata dell'emigrazione: tutela e valorizzazione del lavoro italiano all'estero.

 

11. Restaurazione della dignità déll'impiego pubblico mediante la selezione delle capacità, la liberazione dalle influenze poli­tiche, la adeguata retribuzione.

 

12. Riconoscimento del sacrificio compiuto dai combattenti me­diante provvedimenti in favore dei mutilati e invalidi e del­le famiglie dei caduti e l'attribuzione ai reduci di un titolo preferenziale alla proprietà del focolare domestico.

 

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