Il raid Roma Tokio del 1920

Il germe del volo Roma-Tokio nasce nella mente del poeta Gabriele D’Annunzio attraverso la conoscenza, avvenuta nei tormentati anni della guerra mondiale, con lo scrittore giapponese Haru-Kichi-Shimoi, sincero ammiratore dell’Italia. L’impresa deve costituire auspicio di amicizia fra i due popoli e dimostrazione delle straordinarie possibilità del mezzo aereo, agli inizi del suo impetuoso sviluppo.
Al termine del conflitto il progetto prende corpo con la definizione dei velivoli da impegnare e delle inedite esigenze logistiche connesse al lunghissimo e complesso volo. Viene dato corso al dislocamento nelle varie tappe, sovente in località remote carenti o addirittura prive di linee ferroviarie, telegrafo o addirittura strade degli essenziali accantonamenti di materiali.
Risulta utile chiarire che tale non indifferente dispiego di mezzi trova la sua ragion d’essere non nell’interesse del Governo di dare lustro alla nazione con una grande impresa aviatoria, quanto nell’intento d’allontanare D’Annunzio dall’Italia nel timore (tutt’altro che privo di fondamento)della sua azione politica svolta negli agitati anni del dopoguerra che vedono il pendere delle questioni relative a Fiume.
Infatti D’Annunzio, in una lettera del 3 gennaio 1920 inviata al colonnello Berliri, principale organizzatore dell’impresa, dichiara di dover rinunciare al raid. Nonostante il cadere della ragione, si potrebbe dire, occulta dell’evento dato il suo stato d’avanzamento si decide per la sua prosecuzione.

Ferrarin si inserisce quasi incidentalmente nell’impresa: convalescente a Parigi da un’operazione apprende da Piccio dell’audace progetto e decide di parteciparvi. Il colonnello Berliri gli formula richiesta che la partenza avvenga nell’arco di una settimana. Ferrarin accetta, chiedendo di poter volare in coppia con un altro apparecchio.

La partenza subisce alcuni ritardi per il danneggiamento dello SVA previsto per il raid e la necessità di utilizzarne un altro in condizioni tutt’altro che ottimali.

 

Un aereo... di fortuna

 

Allora mio cugino Francesco Ferrarin mi suggerì di adoperare il vecchio suo apparecchio giacente al campo di Centocelle, col quale egli aveva tentato il passaggio delle Alpi nel volo che costò la vita al valoroso Capitano Natale Palli.

Il Comandante Ferroni, che aveva in consegna quell’apparecchio, ormai considerato inefficiente, mi sconsigliò di adoperarlo, ma, preso alle strette, decisi di rabberciarlo alla meglio e di servirmene, con l’autorizzazione di cambiarlo, occorrendo, lungo la rotta.

Tappai i buchi delle ali, cambia i pneumatici, gli elastici del carrello ed il motore, il quale era uno SPA6-A residuato di guerra, che sviluppava 180 HP in luogo di 220, per essere stato ridotto di compressione. Questa sola modifica, che consisteva nel collocamento di uno spessore fra il basamento del carter e i cilindri, aveva il vantaggio di rendere il motore più sicuro nel suo funzionamento: ma, data la diminuita potenza, rendeva molto più difficili e rischiose le partenze sui campi limitati, specie sotto climi tropicali.

Questo apparecchio portava 330 litri di benzina anzi che 440, e poteva sostenere solo otto, anzi che dieci ore e mezza di volo. […]

L’apparecchio aveva già all’origine, il difetto di pendere fortemente a destra; ma mio cugino, con espediente ingegnoso, lo correggeva infilando la cloche durante il volo in un elastico ad anello, accomodato di fianco, sulla fusoliera, a sinistra del pilota. Non si poteva infatti correggere il difetto dando all’ala destra maggiore incidenza, data la struttura rigida della cellula dello SVA.

 

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Lo SVA del volo Roma-Tokio

 

Il 14 febbraio alle 11,00 l’avventura ha inizio: i due velivoli decollano dal campo romano di Centocelle con gli auspici dell’Ambasciatore giapponese che stappa le beneauguranti bottiglie di champagne e consegna un messaggio per il Giappone.

La prima tappa è a Gioia del Colle dove Masiero è costretto ad atterrare per un’avaria al motore, la sosta risulta provvidenziale per Ferrarin che sostituisce elica e carburatore.

Superato a bassa quota l’Adriatico i due velivoli fanno tappa a Valona, ove sono ancora presenti reparti italiani, ed il giorno successivo decollano alla volta di Salonicco.

Nella località greca i piloti trovano i rottami dell’aereo di Abba e Garrone, incendiatosi in atterraggio. Alle 18,00 Ferrarin e Masiero riprendono il volo alla volta di Smirne in Turchia ove ricevono il saluto della nave Nino Bixio. Nella tappa incontrano i piloti Origgi e Negrini, anch’essi impegnati senza fortuna nel raid; partiti da Roma il due febbraio saranno fatti prigionieri a Konia nella Turchia continentale il successivo 25 ed avranno l’apparecchio distrutto.

La successiva tappa di Adalia viene interrotta nei pressi di Aidin per un guasto ad uno dei cilindri dello SVA di Masiero che atterra in una zona acquitrinosa; il velivolo viene riparato con l’aiuto di piloti dell’aviazione greca e può riprendere il volo. Sulla valle del fiume Meandro viene scorto un Caproni in avaria, è quello di Sala e Borello. L’avvistamento viene comunicato raggiunta Adalia all’ufficiale di tappa, che provvede alla ricerca dei piloti. Qui le pessime condizioni meteorologiche consigliano Ferrarin di ripartire senza attendere Masiero, impegnato nella riparazione del cilindro del motore.       

Nella successiva tratta da Adalia ad Aleppo Ferrarin incontra un vento fortissimo e quasi non riesce a governare lo SVA che non è stato liberato delle corde di bloccaggio dei timoni.

Molto avverse sono anche le condizioni trovate ad Aleppo con il campo coperto di neve e l’impossibilità di ricoverare il velivolo in hangar.

L’area mesopotamica è funestata da combattimenti tra ribelli arabi e truppe inglesi, che Ferrarin distintamente scorge volando a bassa quota, nonostante le raccomandazioni del Console italiano ad Aleppo di mantenere una quota oltre i 2000 metri per evitare il fuoco da terra. L’arrivo di Ferrarin sull’aeroporto di Bagdad interrompe una competizione calcistica in svolgimento sul campo, data la giornata festiva.

Ferrarin viene festeggiato essendo il primo pilota del raid a raggiungere la città ed apprende la sorte toccata al primo dei trimotori Caproni (pilotato da Scavini e Bonalumi)decollato da Centocelle e costretto dalle avverse condizioni meteorologiche all’atterraggio nel deserto siriaco.

Dopo la consegna della posta affidatagli ad Aleppo Ferrarin prosegue il giorno successivo lungo il corso del Tigri verso Bassora. Al freddo e alla neve sono subentrati caldo torrido e vegetazione lussureggiante.

Accolto a Bassora con il consueto entusiasmo Ferrarin vorrebbe attendere l’attardato Masiero ma viene sconsigliato nel proposito dagli ufficiali inglesi per non incorrere nell’ormai prossima stagione delle piogge.

Dopo tre giorni di vana attesa non gli rimane che decollare alla volta di Bandar Abbas in Persia (l’attuale Iran). Le pessime condizioni atmosferiche lo costringono, però, ad uno scalo intermedio a Buscir, il cui campo viene provvidenzialmente segnalato dal lancio di razzi.

Il volo prosegue prudenzialmente sul mare per evitare la possibile offesa dei ribelli persiani.

Raggiunto finalmente Bandar Abbas Ferrarin si propone di arrivare a Karaci nell’Impero Indiano effettuando uno scalo intermedio a Ciumbar (Chabahar) nel Belucistan. Decollato di buon mattino, per evitare l’estrema calura, dopo un’ora e mezza di volo deve invertire la rotta e fare ritorno alla base di partenza per il surriscaldamento dell’acqua del radiatore, giunta quasi all’ebollizione. Si pone riparo all’inconveniente rimuovendo la cappottatura del motore che viene assicurata all’assale del carrello. La enormi nubi di sabbia, fitta al pari della nebbia, cominciano a tormentare il pilota che deve spingersi sul mare per trovare condizioni più favorevoli e profittare del monsone, spirante in direzione favorevole.

A Chabahar l’atterraggio avviene in un campo trincerato in quanto la regione si trova di fatto in stato di guerra, né è possibile ricoverare il velivolo in hangar dato che questi sono stati abbattuti dal vento, che addirittura impedisce la revisione del motore da parte di Cappannini. Gli inglesi si dimostrano come sempre molto cortesi e forniscono addirittura un salvacondotto di un capo ribelle in caso di atterraggio di fortuna.

Il successivo volo verso Karaci dovrebbe seguire, su consiglio degli ufficiali inglesi,  la linea telegrafica che collega le due località, peraltro presidiata, ogni cinque chilometri, da reparti indiani avvertiti di fornire aiuto in caso di atterraggio forzato. Il monsone, che spinge colonne di sabbia sino a mille metri di quota, impone nuovamente di dirigersi verso il mare.

Ma ad un tratto l’irregolare funzionamento del motore costringe all’atterraggio presso un agglomerato di capanne ove gli indigeni, dopo un primo ostile contatto, finiscono per ritenerli nulla di meno che … Bulgari! Riparato rapidamente il guasto Ferrarin e Cappannini, con l’aiuto dei locali, decollano in gran fretta.

 

 

 Atterraggio di fortuna in Belucistan

 

 Visto che l'apparecchio perdeva continuamente quota, decidemmo di scendere presso i primi abituri che avessimo scorti in quella deserta località. Non aven­do possibilità di scegliere altro terreno, decidemmo, fa­voriti da forte vento, di atterrare a velocità molto ri­dotta sovra una duna. Ivi ci attendeva una inattesa tra­gedia mutatasi in una inattesa commedia.
Mentre, pensando al da farsi, coprivamo il motore con la capote, perché la sabbia che ancor ci avvolgeva non lo danneggiasse ulteriormente, sentimmo avvici­narsi un cavallo scalpitante, montato senza sella da una virago color rame completamente nuda, salvo una leg­giera e parziale copertura alla cintola: alta quasi due metri, di bel sembiante, di forme snelle e perfette, por­tava al naso un anello d'argento.
Stando a cavallo ci chiamò a sé uno per parte, e, te­nendoci per gli abiti, ci trascinò fin quasi al misero abi­turo ove eravamo giunti; poscia senza profferir parola, ci rinchiuse nell'unica casa di muro e di fango ivi esi­stente. Intanto vedemmo una folla di indigeni racco­gliersi e dirigersi verso l'apparecchio.
Al primo apparire avevo mostrato alla virago il no­stro salvacondotto, ma lo gettò lontano da sé, dopo averlo esaminato senza capirne il contenuto.
Sentivamo dal chiuso molte voci di popolo: non siamo giunti a comprendere dal contegno di quella gen­te se ci fosse ostile o indifferente, ma eravamo piutto­sto persuasi di essere caduti in cattive mani, per il fatto di essere stati rinchiusi e perché avvertiti della grande avversione che quei selvaggi, anche per pregiudizio re­ligioso, avevano verso i bianchi.
Quando Dio volle, fummo fatti sortire dalla tana e sedere sovra un ceppo; la tribù selvaggia, che parlava un idioma sconosciuto, si era seduta a terra a circolo, sempre presente la virago apparsaci a cavallo, da noi ritenuta la regina del luogo, per le evidenti prove di omaggio che le venivano tributate.
Gli uomini erano completamente nudi, ma molti por­tavano alla cintola una pistola Mauser: uno solo di essi, mezzo vestito, e che non so se avesse funzioni di mi­nistro o di cattivo interprete, cominciò a chiederci se eravamo inglesi. Non mi riuscì fargli capire che erava­mo Italiani. Egli aveva in mano un manuale, dove erano segnati i colori delle varie bandiere, e, con evidente sod­disfazione, gli parve capire, confrontando le coccarde del velivolo col suo manuale, che noi fossimo Bulgari. Vista la buona accoglienza fattaci dall'interprete a que­sta fallace identificazione e dato che egli la commentava soggiungendo che i Bulgari erano buoni amici, com­presi subito che quei selvaggi erano amici dei Tedeschi alleati in guerra dei Bulgari, sguinzagliati durante la guerra dai Tedeschi ai danni degli Inglesi. Tutti co­minciarono a danzare e a gioire, e anch'io ho danzato con loro come... un Bulgaro, lieto di constatare che la
avventura stava per avere un lieto fine. Approfittam­mo delle mutate situazioni per tornare all'apparecchio, e lo trovai ricoperto di sabbia: non saremmo più partiti da quel luogo se non avessimo avuta la precauzione di proteggere il motore con la sua capote.
Cercai allora un luogo sufficientemente adatto per trasportare l'apparecchio, per accomodarlo e spiccare il volo. Lo trovai poco discosto, e gli indigeni ci aiutarono al trasporto. A mia richiesta, questi tagliarono una gran- de palma che interrompeva lo spazio e ci saziammo dei suoi datteri, mentre Cappannini esaminando il motore constatò che si erano rotte le due molle di una valvola di aspirazione e provvide a sostituirle.
Il caldo era immenso. Cappannini quasi sveniva: gli indigeni ci portarono dell'acqua puzzolente e sa­pemmo poscia a Caraci essere questa una specie d'acqua benedetta che aveva loro servito per la lavanda rituale dei piedi; ma bastò lo stesso a ristorarci e a confermare le buone disposizioni d'animo dei nostri ospiti, delle quali profittammo per far capire all'interprete che vo­levamo fare un piccolo giro all'intorno.
Messo in moto il motore, tutti fuggirono. Profittammo di tale sbandamento e della gran sabbia solle­vata per ricuperare le cose nostre che gli indigeni ave­vano levate dall'apparecchio: fra queste alcune monete d'oro che erano raccolte in un fazzoletto di seta. Saliti rapidamente a bordo, riprendemmo lietamente il volo verso Caraci, ove ci attendeva una bella sorpresa. Masiero, che avevo lasciato ad Adalia, era giunto a Caraci proprio un quarto d'ora prima di me, coincidenza che parve prodigiosa e che fu cagione ad entrambi della più grande contentezza. Con un volo magnifico di 1150 Km. egli era giunto da Bender-Abbas a Caraci.

 

 

L’arrivo a Karachi è allietato dal ricongiungimento con Masiero che con un balzo di ben 1150 si è portato da Bandar Abbas a Karachi. Ancora una volta le autorità inglesi sopperiscono alle esigenze dei piloti, dotandoli di dettagliate carte geografiche della regione ed indicando, nel contempo, aree fortificate di cui è proibito il sorvolo.

Nel percorso da Karachi a Delhi avviene superando il deserto di Thar ove vengono trovate le consuete condizioni di aria torrida e agitata. A 200 km. dalla meta nuova panne  per l’aereo di Ferrarin che atterra in un campo nei pressi di una stazione ferroviaria, ove fatta richiesta della distanza dalla città equivoca tra chilometri e miglia e ritiene, erroneamente, di poter raggiungere Delhi prima del calar delle tenebre.

Si trova invece a dover pilotare nell’oscurità, complicata dall’assenza di una sia pur rudimentale strumentazione per il volo notturno. Con una debole luce lunare Ferrarin segue una linea ferroviaria a scartamento ridotto, quando speranza e carburante sono quasi giunti a consumazione ecco apparire le luci di Delhi. Nell’impossibilità di individuare il campo l’atterraggio avviene su una modesta striscia di terreno coltivato, distante dall’aeroporto un chilometro. I solchi del terreno provocano il distacco dell’assale del carrello; il giorno successivo ci si prodiga alle necessarie riparazioni, che riportano in breve l’aereo in condizioni di volo.

Dopo un breve riposo, speso nella visita a luoghi e monumenti della grande città, all’epoca seconda capitale dell’Impero Indiano, il raid riprende verso Allahabad.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

La folla attende Ferrarin ad Allahabad.
Uno degli elefanti che lavorano allo  scarico nel porto di Rangoon.

  

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920 

I sampangs sui quali vivono gran parte degli abitanti di Canton.

 

Salutato alla partenza dalla colonia italiana Ferrarin raggiunge regolarmente la meta e indi prosegue per Calcutta, all’epoca capitale imperiale. L’ippodromo destinato all’atterraggio risulta però occupato da una mandria di vacche. Per sgombrare il campo Ferrarin non esita a portarsi a minima quota con il motore a pieni giri. Neppure suppone d’aver compiuto un sacrilegio essendo tali animali sacri e pertanto inviolabili. Lo SVA è il primo velivolo ad atterrare nella capitale indiana, ma anche qui la disorganizzazione è tale che pilota e motorista si trovano soli con una temperatura che oscilla tra i 40 e i 50 gradi a dover garantire l’incolumità dell’apparecchio, mentre una folla di curiosi cresce rapidamente, e non c’è traccia dell’ambasciatore e dei soldati italiani, che pur sono al corrente dell’arrivo.

A Calcutta, per espresso ordine, la sosta si protrae per ben 27 giorni nell’attesa della pattuglia al comando di Gordesco e composta da Ranza, Marzari, Mecozzi, Grassa, Re, Bilisco. La locale colonia giapponese imbandisce banchetti celebrativi e si succedono voli di propaganda.

Il 31 marzo vista vana l’attesa Ferrarin decide la partenza alla volta di Akyab, in Birmania. Il volo lungo le coste del Golfo del Bengala e le foci del Gange, popolate da bestie feroci e serpenti, risulta facile ma oppresso dal terribile calore tropicale.

Da Akyab, sempre auspici e cordiali le autorità inglesi, la trasvolata prosegue verso Rangoon in Birmania. Vengono superate foreste e montagne inviolate ed ecco, tra la foschia, la cupola dorata della capitale birmana. Nonostante i motori siano, come in precedenza, privati della capote la rottura della pompa dell’acqua provoca l’ebollizione del liquido refrigerante. Per buona sorte il guasto avviene nelle immediate vicinanze dell’area destinata all’atterraggio e quindi Ferrarin può atterrare regolarmente a motore spento. Le riparazioni richiedono diversi giorni, privo di hangar l’aereo è esposto a condizioni climatiche estreme: calore tropicale di giorno e umidità notturna, numerose quindi le avarie alla cellula, rigonfiamenti e svergolamenti del legno, ossidazione delle parti metalliche. Stessa sorte subiscono i materiali accantonati nelle località di tappa.

Il prolungarsi del tempo occorrente per le riparazioni consiglia Masiero,come Ferrarin ad Adalia, a precederlo per non esporre inutilmente il velivolo agli agenti atmosferici.

Infine l’aereo è pronto per affrontare il percorso più impegnativo: la tratta sino a Bangkok: seicento chilometri percorsi su giungle tropicali inestricabili, ove un atterraggio di fortuna equivarrebbe alla morte.

Ma infine anche la capitale del Siam è raggiunta e Ferrarin può godere dei meritati onori resi dallo stesso sovrano e dalla piccola comunità italiana. Nelle pagine di Ferrarin traspare lo stupore per le costumanze di quei remoti paesi, ove un soldato – prima che l’Aviatore si corichi – suona un flauto per far uscire dalle coltri rettili, qualora vi fossero annidati.

E il viaggio riprende: la meta è ora l’Indocina prima tappa a Hubon, ove i rifornimenti sono giunti a dorso di elefante in quindici giorni di marcia attraverso la foresta. E’ un luogo remoto privo di servizio telegrafico ove ad attenderlo è un soldato, solo europeo presente nella regione.

 

 

 In volo sulla foresta tropicale

 

 

Da Bangkok a Hubon la regione é piana, ma è talmente ricoperta e gonfia di vegetazione esuberante che il terreno, dall'alto, sembra quasi una superficie di muschio e di velluto: le stesse foreste dell'America non sono a queste paragonabili, né per la densità della vegetazione, né per l'assoluta solitudine dei luoghi. È peggio che volar sul mare.

Il motore funzionò egregiamente, e arrivai a Hubon dopo sei ore di volo. Al nostro campo di tappa, unica radura creata artificialmente fra le selve, presiedeva non un ufficiale, ma un semplice soldato, unico europeo della regione, che si trovava per caso sul campo, giacché, mancando anche il servizio telegrafico, non poteva esser stato preavvisato del nostro passaggio. E trascorsi così un'altra notte in un carro ridotto a giaciglio e protetto da reti metalliche per impedire ai serpenti di nuocermi.

 

Il successivo volo verso Hanoi viene effettuato puntando sul prima sul Fiume Giallo e quindi procedendo sul mare, poi è la solita nebbia a costringere l’aereo a procedere in volo radente ma infine anche Hanoi è raggiunta e Ferrarin può dire conclusa la parte più difficile del

raid. Nella capitale dell’Indocina si ricongiunge con Masiero, giunto il giorno precedente,ed ha il dispiacere d’apprendere il mortale incidente occorso in atterraggio a Bushir a Gordesco e Grassa.

Il governatore francese offre signorile accoglienza sconsigliando l’immediata ripresa del raid, stante l’inclemenza della stagione delle piogge.

Ma i piloti italiani decidono altrimenti, alle 9 del mattino del 21 aprile decollano alla volta di Canton; un diluvio d’acqua in crescendo e la nebbia divide i due apparecchi, avvicinandosi la notte Ferrarin comprende che non potrà raggiungere la metropoli cinese e si decide a scendere presso un’isola. Atterrato sopraggiungono di corsa degli uomini,rammentando come il governatore francese li abbia ammoniti circa la presenza di pirati e temendo che tali essi siano, ridecolla in tutta fretta atterrando su una spiaggia non lontano da Macao.

Altrettanto movimentato l’arrivo a Canton, il campo ridotto alla stato di una risaia, Masiero, che vi è atterrato il giorno precedente, lo ha trovato in condizioni ancora accettabili ma ora non rimane che scegliere uno spazio d’emergenza, costituito da una piazza ove il pilota porta all’atterraggio lo SVA in una piazza tra lo scompiglio generale.

 

 

Movimentato arrivo e partenza da Canton

 

Sotto un vero diluvio, arriviamo tuttavia a Canton.

Ben sapevo che il nostro campo di tappa si trovava presso una grande pagoda, verso la quale mi diressi: ma per la pioggia quel preteso campo di volo era ridotto un vero lago, che male si distingueva dalle circostanti risaie, tanto che avrei voluto andare alla ricerca di località più adatte.

All'improvviso Cappannini mi avverte che siamo già senza benzina. Egli mette mano alla riserva. Ho pochi minuti utili per atterrare. Passo vicino all'« Hótel Asia», molti mi salutano da una terrazza e comprendo che fra essi è Masiero, ma nessuno mi indica con gesti un punto d'atterraggio. In condizione tanto disperata, e sempre fra la pioggia, risolvo per necessità di atterrare in una piccola piazza che vedo dall'alto, benché mi apparisca cinta di case da tre lati, ostruita da navi alberate nel quarto lato e occupata qua e là da Cinesi con l'ombrello aperto.

Deciso di giuocar tutto per tutto, e lo scasso dell'apparecchio e la vita di qualche Cinese e la mia, atterrai invece fermandomi incolume sulle aiuole di un giardino e senza alcun danno all'apparecchio; fracassai l'ombrello a un Cinese, che, di rimbalzo e per lo spavento, cadde con le gambe all'aria. Masiero, che tutto aveva veduto dall'alto, scese ad abbracciarmi.

Il personale di tappa non aveva potuto farmi i segnali d'uso, perché sul campo non era più possibile atterrare, mentre Masiero, giunto il giorno precedente, aveva trovato il campo meno allagato.

Con grande alacrità i Cinesi protessero l'apparecchio costruendo all'intorno una specie d'hangar di bambù e di stuoie.

La popolazione, composta di due milioni di abitanti, dei quali un quinto vive sull'acqua sovra imbarcazioni dette sampang, assai s'interessò di noi e delle nostre avventure.

Il Governatore ci offerse un gran pranzo, durante il quale ricordò che, come il primo europeo giunto per terra a Canton era stato Marco Polo, italiano e veneto, così noi, italiani e veneti, eravamo i primi che giungevamo per le vie del cielo.

Questa evocazione, che ci procurò legittima soddisfazione e che sentimmo poscia assai spesso ripetere, ci fu per la prima volta diretta in cinese dal governatore di Canton, le cui parole venivano a noi tradotte dal console italiano.

Eravamo assai preoccupati per la partenza: non avrei potuto partire con carico dalla piazza ove ero sceso, né Masiero dal campo, che, istituito com'era sopra una risaia allagata, non serviva più ad alcun scopo.

Méssici alla ricerca di qualche località opportuna, non ci riuscimmo. Consigliai di trasportare i nostri due apparecchi, sovra chiatta, a cento chilometri dalla città, nel punto stesso della costa ove avevo atterrato la sera precedente il mio arrivo a Canton.

Ma la proposta parve inattuabile. Dopo lunghe ricerche, Masiero propose per la partenza un piccolo piano sulla vetta di un colle, quantunque disturbato da alberi e da una casa: e la proposta fu accolta in mancanza di meglio.

L'apparecchio di Masiero fu portato accanto al mio, nella piazza della città, che, con l'abbattimento di una casa e col livellamento del terreno, fu resa ampia quanto più fu possibile, in modo da permettere una partenza da soli, senza motoristi, senza pesi, con la benzina appena sufficiente a raggiungere il colle scelto per la partenza.[…]

Se l'atterraggio di Canton era stato il peggiore del percorso, non meno facile fu la partenza. Il campo era lungo appena 180 metri, ma pantanoso per le piogge e limitato da alberi e da una casetta.

Prevedendo una partenza molto pericolosa, alleggeriamo l'apparecchio di metà della benzina, leviamo tutti i pesi inutili, e ci proponiamo di giungere solo fino a Foochow, ove sapevamo esistere un piccolo campo di soccorso, anzi che fino a Shangài.

Partii per primo, perché avevo il motorista più leggero. Feci trattenere l'apparecchio per le ali dal nostro personale di tappa, mettendo il motore a pieno regime. A un segnale convenuto i soldati abbandonarono l'apparecchio, che cominciò a muoversi abbastanza bene, secondato dalla china del campo che durava per una ventina di metri. Ma, arrivando sulla zona pantanosa del terreno, si arrestava come fosse frenato, per riprendere la velocità sul terreno battuto e solido. Procedevo così con alterna fortuna, a seconda della natura della zona sulla quale l'apparecchio passava.

A tre quarti del percorso mi vidi perduto, perché, fra l'altro, il campo era limitato da un fosso assai profondo nel quale sarei andato a finire se avessi spento il motore. Rischiando tutto per tutto, preferii tenere il motore in pieno regime: e incontrata per vera fortuna una zolla di terreno asciutto, riuscii a librarmi, con una brusca impennata, rasentando miracolosamente la casa e gli alberi. Superato questo ostacolo con un salto vero e proprio, sarei andato a fracassare l'apparecchio, ma poiché dietro gli ostacoli terminava il colle, raggiunsi il vuoto, al disopra della città, e potei iniziare liberamente il mio volo.

Presa quota lentamente su Canton, ritornai, come era convenuto, sovra il colle, al punto di partenza, e vidi Masiero, che con gesti mi faceva cenno di andarmene. Partii allora definitivamente, assai impressionato, e credo che anche gli astanti abbiano compreso il rischio di quell'avventura.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920 

La partenza da Canton. Il governatore militare di Canton è al centro, su una portantina; alla sua sinistra, la Famiglia dell’Ambasciatore Paolucci de’ Calboli.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

L’incidente di Canton dal quale Masiero uscì illeso, i resti dell’apparecchio caduto in una risaia, al centro l’albero che causò l’incidente.

 

 Il governatore di Canton formula richiesta a Ferrarin di volare, ove sia possibile, sopra i centri abitati al fine di permettere alla popolazione la vista dell’aereo, mezzo sconosciuto in quelle regioni. Anche la tratta verso Foochow è funestata da pioggia e nebbia e, in un primo tempo, Ferrarin quasi decide di prendere terra su una spiaggia, ma poi intraviste le luci della città si porta all’atterraggio sul terreno predisposto. Fra la folla accorsa vi sono anche italiani, uno dei quali sviene alla vista del connazionale!

Ancora ricevimenti, decorazioni, doni, discorsi ufficiali in cui viene reso il parallelo con Marco Polo, ancora pioggia che quasi rischia di sommergere il velivolo, spetta ai solerti soldati cinesi provvedere a mantenere il velivolo sollevato dalle acque. Arriva il momento di partire, Ferrarin si libera di ogni carico superfluo e compie l’ennesimo fortunoso decollo.

La meta è Shangai e il tempo, finalmente, volge al bello. Oramai ad ogni arrivo si aduna una folla entusiasta.

 

 

Shangai 

 

Appena atterrato, la folla irrompe verso di me ed ho appena il tempo di fermare il motore per evitare che l'elica possa procurar disgrazie. Corre ad abbracciarmi un italiano, certo Toledano, il quale, benché piccolo di statura, giunge a me primo fra tutti; e con tale slancio di corpo e di anima che mi sviene anch'esso fra le braccia. Dopo che tutti, specie gli Italiani, si sono sfogati a baciare le ali, ad apporvi firme e a gridare evviva all'Italia, seguono, quasi per reazione, momenti di reli­gioso silenzio, durante i quali una intensa commozione pervade la piazza; anch'io non posso resistere al fa­scino e al bisogno delle lacrime.

 

La sosta a Shangai si prolunga per una settimana, è l’occasione per far conoscere l’Italia anche in quelle remote regioni. Ferrarin è assediato dai cacciatori d’autografi e riparte con la carlinga colma di fiori.

Il competente ufficio della metropoli cinese non ha, però, avuto cura d’avvertire il pilota dell’avvicinarsi di un tifone, il vento contrario sconquassa il povero velivolo e gli fa ritardare di due ore l’arrivo a Tsing Tao ove è accolto dalle salve di due corazzate giapponesi; i nipponici hanno infatti occupato il territorio in precedenza dei tedeschi (Si tenga presente che il Giappone fu, nel corso della I guerra mondiale alleato di Francia, Inghilterra e Italia). Ugualmente giapponesi sono i funzionari che accolgono Ferrarin e gli comunicano che il Mikado gli ha conferito la spada d’oro di Samurai, la più alta onorificenza di quella nazione e che lo SVA sarà conservato presso il museo di Tokio ospitante i trofei di guerra.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

La partenza da Foochow (è visibile il piano inclinato che facilitò la partenza. L’arrivo all’ippodromo di Shangai. La distribuzione della prima posta aerea arrivata in Cina.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

L’arrivo a Tsing-Tao.

 

Dopo nove giorni di festeggiamenti, i giapponesi hanno letteralmente costretto Ferrarin a parteciparvi arrivando a minacciare di non rifornire l’aereo di carburante, si può ripartire alla volta di Pechino. All’apparire dell’aereo sul cielo di Tien Tsin, sede delle concessioni internazionali, viene fatto segno al saluto dei connazionali, a Pechino l’hangar è coperto di decorazioni floreali e accolto dalla colonia italiana, dai diplomatici stranieri e dalle massime autorità del governo cinese. I sette giorni di permanenza nella capitale sinica sono spesi ai palazzi e monumenti di quella civiltà millenaria.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

In volo con il generale cinese Ting.
Lo stesso depone la propria firma sull’ala dell’apparecchio.

 

Per le ultime tappe del viaggio diamo la parola a Ferrarin fornendo integrale trascrizione del nono capitolo del suo libro “Voli per il mondo”.

 

 

 

Capitolo IX

FINALMENTE A TOKIO! 

 

La partenza fu solenne quanto l'arrivo. A Pekino, come a Shangài, mi riempirono la carlinga di rose, rose dal profumo intenso.

Anche in questo tratto di volo fui colto da fortissimo mal di mare. Dopo di allora, non avendone più sofferto, ritengo ne fosse causa il disordine dietetico cagionato dai pranzi esotici e dall'aroma intenso delle rose. A meno che... non si debba credere alla divulgata convinzione che i fiori portino sfortuna agli aviatori in volo.

Da Pekino avrei voluto volare direttamente a Shingishu in Korea, ma, per ordine del marchese Durazzo, dovetti fare una breve sosta a Kowpangtze, vicino a Mukden, dopo aver sorvolata la quasi favolosa muraglia della China, che si innalza formidabile su colline rocciose, serpeggia fra avvallamenti verdeggianti e corre diritta per lunghe pianure fino al mare. Chi costruì quella barriera non avrebbe certamente pensato che gli uomini avrebbero potuto un giorno superarla tanto facilmente.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Gli scolari festanti salutano Ferrarin a Shingishu.
La mascotte dell’apparecchio.

Un curioso arco d’onore a Shingshu.

 

 Genti di Manciuria a conoscenza del mio passaggio accorsero anche da lontano in carovana, e perfino si accamparono nei dintorni volendo vedermi.

Da Pekino il comandante di tappa aveva mandato un nostro soldato a sorvegliare il piccolo campo provvisorio di fortuna ove dovevo atterrare, ma fu insufficiente a domare quella folla, che non aveva mai visto un aeroplano e che non mi lasciava neanche lo spazio occorrente a discendere, tanto che volevo quasi rinunciare a fermarmi in quel momento.

Ma finalmente, roteando rumorosamente a volo e a bassa quota per spaventare la gente, potetti farmi lo spazio bastevole.

Un cerimoniere vestito all'europea, venuto da Mukden per conferirmi una decorazione, cominciò un discorso vicino all'aeroplano tosto che fui disceso. Disturbato però dalla folla, che, rumorosa, si riconcentrava attorno a me e all'apparecchio, dovette sospendere la cerimonia. Il nostro soldato, per rifare il largo e non bastando spinte e scudisciate, sparò in aria la rivoltella. Siccome egli stava all'estremità dell'ala inferiore, che è meno lunga della superiore, nella confusione sparava senza alzare la testa, e fece, senza avvedersene, tre buchi nell'ala, uno dei quali forò a parte a parte il longarone. Lo fermai prima che arrivasse a scaricare tutto il caricatore e producesse guai maggiori.

Questa mia imprevista tappa a Kowpang-tze ritardò fin quasi a notte il mio arrivo in Korea, il defunto impero diventato colonia giapponese. E il ritardo si fece ancor più lungo, perché volli divergere verso Porto Arturo, la località il cui nome ci è particolarmente noto pei ricordi della guerra russo-giapponese.

A Shingishu, come mi narrò all'arrivo l'ufficiale di tappa Paolucci, Coreani e Giapponesi, aspettando invano da ore e ore il mio arrivo, con la pazienza e con l'ordine propri a quelle popolazioni, finirono con l'abbandonare il campo, credendo che in quella sera più non giungessi : ma vi si rovesciarono a frotte quando il rombo del motore annunciò l'arrivo.

Fui portato di peso al palco; dopo vari discorsi in giapponese, un dignitario puntò sul mio petto e su quello di Cappannini una medaglia d'oro commemorativa del volo.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Omaggio di fiori a Masiero e Ferrarin, all’arrivo a Osaka.
L’automobile camuffata da aeroplano sulla quale avvenne l’ingresso in Osaka.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

L’Ambasciatore Paolucci de’Calboli saluta l’apparecchio in arrivo a Tokio.
cartolina di saluto lanciata su Tokio all’arrivo.

 

Bandiere italiane e giapponesi rallegravano l'animatissimo ricevimento, e devo al bravo Paolucci se ho trovato modo di ristorare alquanto la mia estrema stanchezza prima di riprendere i festeggiamenti notturni, che ebbero principio con un lussuoso pranzo alla giapponese, di trecento presenze.

La nota caratteristica di quella bella serata consistette nell'apparizione di un vero stuolo variopinto di leggiadre geishe venute a intrecciare graziosissime danze attorno a me.

Il mattino seguente mi fu impedito di partire per dar modo al capitano Riva di approntare un atterraggio a Seoul, la capitale della Korea, ove avrei dovuto soltanto sorvolare. Ma il marchese Durazzo mi comandò di atterrarvi, per soddisfare anche al desiderio di quella capitale.

Ho quindi goduto a Shingishu, in attesa di ordini da Seoul, quel po' di riposo che mi era concesso dalle, riprese e non interrotte onoranze, fra le quali ricordo particolarmente quelle tributatemi dai bimbi delle scuole che gridavano « banzai Italia ».

Al mattino successivo posso finalmente partire, verso le dieci, alla volta di Seoul, fra gli evviva delle autorità e del popolo, mentre lo stuolo di geishe compare ancora improvviso a, danzare intorno all'apparecchio e a cospargerlo di fiori.

Fra Shingishu e Seoul viaggio facile e noioso, sovra paesi aridi e montagnosi. Atterraggio pessimo e pericoloso, perché il capitano Riva, non avendo trovato di meglio, dovette scegliere per farci atterrare un letto asciutto di un torrente, mentre avrebbe dovuto sconsigliare affatto quella fermata, per non esporci al rischio dì scassare gli apparecchi alla vigilia della vittoria.

Masiero, che avevo, lasciato a Shangài, mi ricomparve nel cielo di Seoul e scese anch'esso con me alla tappa non preventivata. Un soldato indicava con bandieruole il punto preciso ove era appena possibile mettere le ruote per tentare l'atterraggio, che, per vero miracolo, non si risolvette in un disastro.

Ma si capisce che Riva ha dovuto un po’ cedere ai desideri della capitale coreana, ove ci fermammo tre giorni, festeggiatissimi e godendo particolarmente la compagnia di Riva, che per aver dimorato in Cina prima della guerra, parlava anche il cinese e poté quindi narrarci interessanti dettagli sulla vita d'Oriente.

Ricordo una originale danza coreana, ballata con molta abilità da donne vestite di bianco camice, accompagnate da uomini seduti all'intorno, che cantavano al suono di pifferi e di tamburi.

Per la qualità del terreno anche la partenza non era facile, e dovemmo studiare a lungo il migliore modo di effettuarla; riuscì emozionante.

Dopo un breve viaggio, sempre attraverso regioni montagnose ed aride, arriviamo a Taikyu, ultima tappa del continente asiatico. Ci attendeva il tenente Esposito, che, in mancanza di hotels all'europea, ci mise a dormire in un albergo giapponese.

Il Giappone si vanta di essere all'avanguardia della lotta contro l'analfabetismo e forse per questo motivo trovavo ovunque gentili accoglienze da parte della popolazione scolastica, composta di giovanetti, molto ben vestiti e bene educati.

Da una pagoda ho assistito a una lunga sfilata di bimbi, che agitavano bandieruole dai colori italiani e giapponesi, e ricordo che durante questa cerimonia una bimba recitò a memoria una poesia in italiano.

Nella sala dell'albergo ove ero alloggiato ho dovuto ascoltare parecchi discorsi, e non mi sfugge dal ricordo quello di un coreano che scandeva il suo dire battendo il tempo col dito pollice del piede, mentre snodava il rotolo sul quale era scritta l'orazione leggendola da destra a sinistra. E si scorgeva il ritmo del dito pollice perché nelle case si entra in quei paesi a piedi nudi, fatta eccezione per gli stranieri ai quali è concesso calzare le pantofole.

Partimmo per il Giappone, che è separato dalla Korea solo dallo stretto di Tsushima; era facile superarlo facendo capo, occorrendo, all'isola omonima (celebre negli annali della guerra russo-giapponese) che sorge quasi a metà del canale. Ma i Giapponesi, per ragioni militari, delle quali sono inesorabili osservanti, ci impedirono di volare sia sulla piazzaforte militare coreana di Fusan, sia sull'isola di Tsushima, avvertendoci senza tanti complimenti che i soldati ci avrebbero tirato contro se avessimo violato tale prescrizione. Furono inutili le nostre proteste. Le autorità giapponesi ci prescrissero con ogni dettaglio la rotta, tracciandola più a Nord, su carte appositamente a noi consegnate.

Questi ordini ci costringevano a battere una via più lunga di 250 chilometri sul mare aperto, e ciò mi preoccupava perché si trattava di ordine improvviso e imprevisto. Se lo avessi supposto prima di partire da Pekino, avrei, per lo meno, fatta una revisione più accurata del motore, che era sempre valido, ma ormai stanco.

A facilitarci il compito, i Giapponesi scagliarono lungo il percorso tre torpediniere, progressivamente numerate, e, ci indicarono i gradi di rotta che le torpediniere avrebbero seguiti.

In quel momento non avrei pensato che in seguito avrei potuto volare d'un fiato per oltre settemila chilometri, dei quali più di 5000 sul Mediterraneo e sull'Atlantico; ma in quelle particolari condizioni, allora, anche 250 chilometri potevano presentare qualche sorpresa.

Tuttavia mi lanciai a volo confidando, come sempre, nella mia buona stella.

Dopo 50 chilometri dalla costa, scorsi la prima torpediniera, e ne profittai per controllare sulla bussola la mia rotta; ma poi, a cagione delle nubi, persi di vista le altre torpediniere.

Finalmente, a circa 30 chilometri dalla costa giapponese, le nubi diradarono e le condizioni di visibilità si fecero migliori, quasi per secondare la profonda emozione della mia anima, nel momento in cui stavo per raggiungere la costa giapponese, la mèta del mio sogno e della mia fatica.

Man mano che andavo appressandomi al continente e che si delineava il dettaglio del paesaggio meraviglioso, mi sentivo quasi rapito dall'ebbrezza della vittoria e dalla bellezza; delle cose che intravedevo sotto al volo.

L'incanto viene rotto da gravi nubi temporalesche che si affacciano sul percorso tracciatomi dalle autorità militari lungo la rotta dei continente e del mare, mentre il percorso proibito che segue le fortificazioni del mare interno è assai più breve e rischiarato dal sereno.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Una Fiat camuffata da drago per l’entrata trionfale in Tokio.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Al ricevimento in casa Mitzui.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Ad un pranzo d’onore a Tokio. Gruppo di geishe. Una geisha con Cappannini.

 

 

Non esitai quindi a scegliere quest'ultima via e a puntare verso Osaka, prima tappa sospirata, volando spensierato e noncurante lungo le coste fortificate del mare interno.

Ivi si ha la sensazione che il Giappone sia un gran giardino, e l'occhio, stanco della aridità delle montagne coreane, si conforta e si affonda insaziabile nel verde sottostante.

Una nera caligine, che non è più quella delle nubi, ma dell'industria, mi annuncia la apparizione di Osaka, la città laboriosa dagli innumerevoli camini fumanti, che rappresenta il nuovo Giappone, fiero di affermarsi nella civiltà moderna accanto ai segni che attestano la civiltà secolare dell'Impero del Sol Levante.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Tre immagini di una festa studentesca in onore degli aviatori nel parco Jbja a Tokio.

 

Volando a bassa quota sopra la sterminata città, vedevo, stese al vento che soffiava e issate su lunghi pali, quelle che noi chiamiamo « maniche a vento » perché mostrano la direzione dello stesso. Credevo fossero indicazioni apposte per noi, ma invece seppi trattarsi di enormi pesci di seta, lunghi circa tre metri, che in maggio vengono inalberati sovra i tetti delle case nelle quali in quel mese sia nato un maschio.

Ardiamo dal desiderio di raggiungere la mèta.

Alla piazza d'armi, ove atterrammo dopo qualche volo sulla città, era eretto un palco; la grande folla d'intorno era trattenuta da soldati. Era il primo campo di atterraggio buono e normale che trovavamo sul nostro cammino. Ad onta dell'entusiasmo, provvidero i Giapponesi a farmi una minuta perquisizione e a sequestrarmi la macchina fotografica e le negative, appunto perché, contro gli ordini, avevo volato sopra le fortezze del mare interno. Nulla mi trovarono, e mi chiesero ingenuamente se e che cosa avevo visto sovra le fortificazioni. Avendo risposto che nulla avevo notato, lasciarono finalmente si avvicinasse a me il gruppo di ufficiali italiani che prima mi era stato tenuto lontano per prudenza politica.

Discorsi e doni: notevoli certe grandi corone di fiori esposte su treppiedi e che ci avrebbero ricordate quelle in uso da noi nell'attesa del funerale, se una bella artista non si fosse presentata ad offrircele indicando con bel garbo il nome e le qualità dei donatori.

Ci attendeva un'automobile foggiata a guisa di aeroplano e adorna di fiori: con questa facemmo il giro della piazza per farci ammirare dal pubblico che gettava fiori e saluti, e sventolava bandiere italiane e gridava « Italia, banzai ».

Ma quell'automobile trionfale pareva la vittoria àptera; le sue grandi ali erano state mozzate il giorno precedente perché non urtassero contro le case e i pali della luce elettrica.

Sotto la tenda ci fu subito offerta una colazione all'europea inaffiata da champagne italiano: al quale i Giapponesi non fecero mai torto quando, nei pranzi a rito europeo, occorse brindare alla nostra salute: e con cortese ostentazione ci versarono prima della mensa anche il vermouth di Torino.

I discorsi lunghi e frequenti non sono nel Giappone perniciosi come da noi, giacché, per l'igiene di chi li fa e di chi li ascolta, si tengono solo avanti al pasto: la cui fine è invece rallegrata da graziose danze di geishe e da musiche.

Passato il convito, facemmo il nostro ingresso a Osaka, assieme alle autorità, montati sovra l'automobile-velivolo; al quale però non era stata sufficiente la mozzatura delle ali perché alla prima svolta andò a sbattere violentemente contro un palo del telegrafo. Questo incidente ci costrinse a continuare il percorso sovra automobili comuni, fino alle redazioni dei grandi giornali « Asahi» e « Manischi» ove ci recammo doverosamente a render grazie della grande cordialità con la quale la nostra impresa era stata divulgata.

Alla redazione di uno dei giornali ci fu offerto un pranzo: e un altro pranzo ci fu offerto a sera dalle autorità, perché, stante la fugacità della nostra permanenza a Osaka, le dimostrazioni assumevano necessariamente carattere intensivo.

A Osaka cominciammo a gustare il cortese tenore delle conversazioni giapponesi, sempre volte a celebrare con entusiasmo l'Italia e gli Italiani e a mettere in evidenza i punti di contatto fra i due paesi e i due popoli: lunghezza delle coste: abbondanza di fiori: Osaka simile a Venezia; e anche i capelli neri della popolazione. E la smania della somiglianza era giunta a tal punto che si esponevano ritratti di Masiero e miei con gli occhi accomodati alla giapponese!

Il pubblico dopo il banchetto ci volle ripetutamente alla terrazza, per acclamarci.

Al mattino seguente, malgrado il pessimo tempo segnalatoci lungo la rotta, partimmo finalmente per Tokio, ove, secondo il programma, eravamo attesi per mezzogiorno circa.

Viaggio fra le nubi, tanto che perdemmo contatto fra di noi; né potei vedere, pur passandovi accanto, il famoso monte Fujiyama.

Il Governo giapponese aveva mandato ad incontrarci due aviatori che, come abbiamo saputo all'arrivo, erano andati a sbattere per la gran nebbia contro la montagna sacra del Fujiyama: ma quel popolo non spostò per questo né di un attimo né di un tono le accoglienze preparate.

 

 Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

L’apparecchio di Ferrarin nel museo imperiale di Tokio.

  

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920 

Ferrarin in un ricco kimono offerto dalle dame dell’aristocrazia di Tokio. In mano ha il samurai, e alla cintola il pugnale del karakiri.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Il trionfale arrivo a Thiene dopo il volo Roma-Tokio.

 

Arturo Ferrarin raid Roma Tokio 1920

Raccolta dei doni e delle decorazioni di Ferrarin.

 

 

Arrivo, purtroppo, a Tokio, fra nebbia. e pioggia, ma la luce risplende lo stesso nel cuore, perché la bandiera italiana ha finalmente raggiunta la mèta tracciata dal nostro massimo poeta.

 

 

 

L’arrivo a Tokio è comunque un evento eccezionale, la giornata è stata dichiarata festiva. Una folla di duecentomila persone attende sin dalle sette del mattino l’arrivo dello SVA al cui apparire esplode un solo grido: “Banzai Italia!”. Ferrarin e Masiero vengono accolti con grandi onori e portati in parata lungo le vie della capitale nipponica su un’autovettura in fattezze di drago. E’ l’inizio di quarantadue giorni di festeggiamenti in cui i piloti italiani saranno ricevuti dall’imperatrice.

 

Il ricevimento presso la Regia imperiale di Tokio

Tre giorni impiegò un cerimoniere di corte per istruirci in ogni particolare relativo al solenne ricevimento; ne facemmo le prove sul luogo, recandoci nella sala del trono attraverso l’intrico di un vero e proprio labirinto. 

Piccola quella sala e decoratissima: e così misurato lo spazio che il cerimoniere, temendo che il nostro passo troppo lungo non giungesse a procedere secondo il rito, ne segnò la traccia sul pavimento con matematica precisione. Quel paese grande e progredito, non solo a corte e nel tempio, ma anche nella vita cotidiana, mantiene con ammirevole fedeltà le antiche tradizioni.

Il giorno precedente la seduta reale, fummo ricevuti dal principe imperiale Hiroito, attuale Mikado; così impresso egli serbava il ricordo di quel colloquio che, venuto tre anni fa a Roma, volle chiamarmi all’Ambasciata giapponese, ove mi ricevette presenti le Loro Maestà e S.E. Mussolini.

Tanta è la potenza delle cose arcane e la suggestione delle cerimonie che, venuto il gran giorno, Masiero ed io tremavamo, come non abbiamo tremato nei più gravi cimenti del volo.

Accompagnati alla reggia dai colonnelli e dall’interprete addetti al nostro servizio particolare, fummo ammessi alla presenza della sacra Maestà.

Neanche il cerimoniere di Corte fu ammesso nella sala regia, ove entrammo soli, muovendo i passi e facendo gli inchini con dignità da grandi di Spagna di prima classe, e prostrandoci poi in ginocchio avanti la figlia del Cielo.

In quelle dimore, tutte costruite in legno di sandalo immacolato, vergine di nodi, unito senza chiodi da connessure sapienti e invisibili, salivano nella penombra gli aromati come da un incensiere.

Sei generali, nella grande uniforme feudale antica, simili in tutto ai nostri sacerdoti quando vestono la dalmatica, stavano ai lati del trono, tre per parte, impugnando ciascuno la spada da Shamurai.

Accanto alla Imperatrice, che parlava in giapponese, una dama d’onore, parlando in italiano, ci invitò ad alzarci ad un cenno di Sua Maestà.

Quindi l’Imperatrice disse alla dama, che traduceva il discorso ad ogni periodo, che essa augurava al Regno d’Italia di salire in alto come i nostri velivoli; si compiaceva assai con noi che, primi al mondo, eravamo giunti al Giappone dell’Europa per vie celesti, ed ebbe parole di grande elogio per il nostro Paese e per i nostri Sovrani. Ripeté l’annuncio datomi a Tsing Tao che il mio apparecchio sarebbe conservato ed esposto nel museo delle armi. La dama, togliendoli dal tavolo di lacca, porse dei doni alla imperatrice, che volle personalmente consegnarli a noi.

Accortasi poi l’Imperatrice che noi due parlavamo il francese, da Essa conosciuto, ci rivolse direttamente la parola in questa lingua, cosa che negli ambienti giapponesi parve quasi incredibile.

E allora, tanto l’elemento umano prorompe ad ogni occasione, smessa la pompa ieratica ed ufficiale del parlare, la imperatrice ci ricordò il suo grande dolore per la morte dei nostri compagni Gordesco e Grassa, che sapeva prodi nei voli di guerra e di pace.

Ci chiese quindi se avremmo gradito che un ufficio funebre fosse stato celebrato, noi presenti, in un tempio giapponese, col rito del paese. Esponemmo la nostra profonda commozione per questo pensiero pietoso e squisito.

Indi Sua maestà ci narrò che, dal giorno della nostra partenza da Roma, era stato ordinato ai bambini di tutte le scuole di età non superiore agli anni tredici, di interpretare e designare a modo loro l’evento del volo Roma-Tokio, con figurazioni reali o simboliche e allegorie. Di questi disegni, come l’Imperatrice narrava, venne raccolto il migliore per ogni classe, e ne furono composti due album, che ci furono consegnati perché li portassimo alla graziosa Regina nostra.

Ci domandò infine se eravamo rimasti contenti delle accoglienze ricevute, e concluse augurando che ancor più propizio ci fosse il soggiorno nei dì venturi, perché potessimo portare agli Italiani l’impressione viva dell’amicizia e dell’ammirazione giapponese. Così terminò il ricevimento durato circa tre quarti d’ora.

Usciti dalla Reggia e alzato il ponte levatoio, un altro spettacolo ci attendeva.

Ai piedi del Colle Sacro, al margine dei giardini incantati, due divisioni di soldati composero un rettangolo: invitati noi due nel mezzo, il Ministro della guerra ci consegnò per incarico del Mikado la gran spada Shamurai, il cui conferimento ci era stato annunciato fin da Tsing Tao. 

 

Sulla via del ritorno subentra il dispiacere per la scarsa o nulla comprensione del governo italiano per l’impresa compiuta, per l’indifferenza all’arrivo in piroscafo a Venezia, compensata, almeno, dall’abbraccio dei concittadini della nativa Thiene. 

E giunge anche il riconoscimento del Re che riceve Ferrarin al Quirinale e gli dedica parole di cortesia ed incoraggiamento.

 

 

Le tappe del volo di Ferrarin  

 

(esclusi gli atterraggi occasionali intermedi) sono riportate nella seguente tabella, con le distanze tra una città e l'altra.

 

ROMA-GIOIA DEL COLLE km 390;

GIOIA DEL COLLE-VALONA (VLORE) km 220;

VALONA-SALONICCO (SALONIKI) km 290;

SALONICCO-SMIRNE (IZMIR) km 440;

SMIRNE-ADALIA (ANTALYA) km 350;

ADALIA-ALEPPO (HALEB) km 585;

ALEPPO-BAGHDAD km 740;

BAGHDAD-BASSORA (BASHRAH) km 460;

BASSORA-BUSHIR-BANDAR ABBAS km 560;

BANDAR ABBAS-CIAUBAR (CHAHBAHAR) km 490;

CIAUBAR-KARACHI km 640; KÀRACH I-DELHI 1.100;

DELHI-ALLAHABAD km 585;

ALLAHABAD-CALCUTTA km 720;

CALCUTTA-AKYAB (SITTWE) km 550;

AKYAB-RANGOON km 510;

RANGOON-BANGKOK (KRUNG THEP) km 560;

BANGKOK-UBON km 485;

UBON-HANOI km 650;

HANOI-CANTON (KUANG CHOU) km 810;

CANTON-FU CHOU (MIN HOU) km 700;

FU CHOU-SHANGHAI km 610;

SHANGHAI-TSINGTAO (CHING TAO) km 550;

TSINGTAO-PECHINO (PEICHING) km 550;

PECHINO-KOW PANGTZU km 490;

KOW PANGTZU-SHINGISHU (SINUIJU) km 270;

SHINGISHU-SEOUL km 360;

SEOUL-TAIKJU (TAEGU) km 240;

TAIKJU-OSAKA km 630;

OSAKA-TOKYO km 410.

 

 

Ansaldo SVA9

 

Caratteristiche 

motore: SPA 6A
potenza: 200 cv.

apertura alare: m 9,18
lunghezza: m 8,13
altezza: 2,65
superficie alare: mq. 26,90
peso a vuoto: kg. 690
peso a carico massimo: kg. 990
velocità massima: km/h 220
tempo di salita: 14’ a 3000 m.

autonomia: 3-4 ore
progettisti: Umberto Savoia, Rodolfo Verduzio
pilota collaudatore: Mario Stoppani
primo volo prototipo: 19 marzo 1917
località: Grosseto

 

Ansaldo SVA9

 

Storia

Velivolo veloce ma non manovriero l’importante realizzazione degli ingegneri Savoia e Verduzio vede impiego, nell’ultimo anno della I guerra mondiale, come aereo polivalente atto al bombardamento ed alla ricognizione.

In questo ruolo debutta per un’impresa bellica di tutto rispetto: il bombardamento effettuato da tre velivoli, oltre un quarto munito di macchina foto planimetrica, sulla stazione ferroviaria di Innsbruck, compiuta con un volo di 250 chilometri sulle vallate alpine e conclusa dopo tre ore di volo.
Dopo aver compiuto una serie di ricognizioni nelle retrovie austriache il 21 maggio 1918 Arturo Ferrarin e Antonio Locatelli raggiungono, con un volo di 700 chilometri, il lago di Costanza, fotografando l’importante centro industriale di Friedrischafen. Altri raids vengono compiuti su località istriane e dalmate con percorrenze che raggiungono i 1000 chilometri.
Ma il volo che darà fama mondiale allo SVA è quello del 9 agosto 1918:  8 SVA (Gabriele D’Annunzio, cap. Natale Palli, ten. Antonio Locatelli, ten. Piero Massoni, ten. Aldo Finzi, ten. Ludovico Censi, ten. Giordano Granzarolo, ten. Giuseppe Sarti, sotto ten. Gino Allegri) decollano alle 6 del mattine dal campo di San Pelagio per portarsi con un lungo volo su Vienna. I velivoli si soffermano per mezz’ora sulla capitale imperiale lanciano manifestini contenenti un proclama di D’annunzio e scattando foto. Il raid ha un valore chiaramente morale e propagandistico e conferma le doti di robustezza e affidabilità del velivolo, che con i 1000 chilometri percorsi, di cui 800 su territorio nemico,realizza la più lunga missione compiuta da aerei durante il conflitto. Unico a mancare all’appello è il velivolo del tenente Sarti, costretto per un guasto al motore ad atterrare sul campo nemico di Wiener Neustadt.

Nell’autunno 1918 l’impiego dello SVA viene intensificato: il biplano è presente sia nei reparti metropolitani terrestri e navali, sia oltremare in Albania e Macedonia.

Durante la decisiva battaglia di Vittorio Veneto gli SVA prendono parte attiva alla lotta specie con azioni di bombardamento.

Nelle ultime settimane di guerra vengono raggiunte le massime cadenze produttive con 250 velivoli consegnati mensilmente. Alla fine del 1918 la produzione dello SVA è di 1245 esemplari terrestri e 50 idro.

La fine delle operazioni belliche non segna il termine della carriera del velivolo che con il raid Roma-Tokio riceve nuovo lustro e vede l’esportazione in Argentina, Brasile, Francia, Lettonia, Lituania, Olanda, Perù, Polonia, URSS, Spagna, USA.

Lo SVA vede i suoi ultimi utilizzi in Africa in missioni di polizia coloniale, collegamento, trasporto postale confermando doti di affidabilità e robustezza. 

http://www.squadratlantica.it/