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Jsbuschenskij e la Cavalleria italiana in Russia

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942



L’ultima carica nella steppa russa

IL GRIDO DI JSBUSCENSKIJ “SAVOIA A CAVALLO!”

L’episodio già leggendario nel misurato racconto di un ufficiale superstite: come una catapulta urlante, il glorioso Reggimento scaraventato all’attacco della fanteria siberiana

 

 

Nel luglio del 1941 il Reggimento “Savoia Cavalleria” fu rimpatriato dalla Jugoslavia per essere trasferito sul fronte russo. Trasportato in treno sino in Romania, esso iniziò il movimento a cavallo attraverso i Carpazi, lungo le strade di Moldavia, Bessarabia e Ucraina. In 35 giorni percorse più di 1200 chilometri ed ai primi di settembre si attestò alle rive del Dnieper. Dopo aver preso parte alla battaglia di forzamento del fiume, il Reggimento riprese le marce verso est ed il 28 ottobre concorse con il III Bersaglieri e le truppe tedesche alla conquista di Stalino.

 

Trascorso l’inverno in riposo, riprese le operazioni l’11 luglio 1942 occupando Krasnij Luc e raggiungendo il 15 agosto, dopo una marcia di oltre 400 chilometri, le rive del Don. Qui, con il Reggimento “Lancieri di Novara”, contribuì a frenare l’attacco che le truppe sovietiche sferrarono il 20 agosto contro le nostre linee con l’intento di aprire un varco alle spalle dei soldati tedeschi operanti a Stalingrado.

Dopo giorni di duri combattimenti, il Reggimento si trovava la notte sul 24 agosto 1942 a quota 213,5 nei pressi di Jsbuscenskij . In attesa dell’alba per riprendere il movimento verso il fiume, il “Savoia” aveva assunto una formazione di sicurezza, chiudendosi in un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, al centro, riposavano all’addiaccio.

 

Alle 3,30 il Colonnello Comandante fece uscire una pattuglia con compiti esplorativi. Dopo poche centinaia di metri essa i scontrò con elementi nemici sistemati a difesa. Immediatamente tutto lo schieramento avversario divampò tenendo sotto tiro il Reggimento che aveva appena iniziato le operazioni per riprendere il movimento. Vi furono attimi di incertezza. Poi le nostre armi automatiche presero a rispondere al nemico. Infine si udì un ordine: “Secondo squadrone a cavallo!”. “Savoia Cavalleria”, per l’ultima volta nella storia dell’Arma, si apprestava alla carica.

 

Mi svegliai di soprassalto e cacciai la testa fuori dal sacco a pelo, dentro il quale mi ero allungato per terra, le briglie di Palù legate al polso destro. Adesso i colpi che mi avevano strappato al sonno si erano fatti più intensi. Cercai di volgere lo sguardo verso la zona da cui provenivano e vidi la notte punteggiata di fiammelle azzurre delle mitragliatrici. “Ci siamo”, pensai. E appena un attimo dopo udii da qualche parte il comando: “Secondo squadrone, a cavallo!”.

 

Ero in piedi prima ancora che il cervello cominciasse a pensare. Gettai il sacco a pelo a Balsamo, il mio attendente, e montai a cavallo. Mentre raggiungevo la testa dello squadrone, sentii pesarmi addosso la vastità di quel cielo notturno, che da un momento all’altro si sarebbe illuminato a giorno.

 

“Ma che succede? Ci risiamo?”: questa fu la mia prima reazione cosciente, quando mi resi conto che ci stavamo allontanando dai fuochi azzurri. E non fu un pensiero piacevole, perché a ridosso della linea di combattimento c’era un grande vuoto, uno spazio enorme senza alcun punto d’appoggio.

 

Erano quattro giorni che non toglievamo le selle ai cavalli. Dormivamo quando e come era possibile. La situazione precisa del fronte ci era ignota. Sapevamo unicamente che i russi si erano infiltrati nelle nostre linee e che cercavano di sfruttare i loro success iniziali. Il nostro compito consisteva soprattutto nell’accorre a turare le falle più preoccupanti, nel dare al nemico la sensazione di non poter sentirsi sicuro in nessun posto.

 

La sera del 23 avevamo ricevuto l’ordine una certa quota difficilmente identificabile in quella zona piatta, movimentata da lievi ondulazioni del terreno e costellata da campi di girasoli. A un certo punto del cammino ci eravamo fermati per dare un po’ di riposo agli uomini e ai cavalli e anche perché era pericoloso e inutile proseguire nella fitta oscurità.

 

In attesa dell’alba, il Reggimento si sistemò a difesa: noi del secondo squadrone ci collocammo all’interno del quadrato, disposti in gruppi, pronti a balzare su al minimo allarme. La notte era fredda il silenzio intenso. Uomini e cavalli (i primi sdraiati, i secondi in piedi) ci addormentammo di colpo.

 

Quella notte, qualcuno forse si domandò se per caso non avessimo sbagliato direzione, andandoci ad attestare lontano dall’obiettivo fissato alla nostra incursione: una strada attraverso la quale i russi, dopo aver superato il Don, ricevevano munizioni e rifornimenti. Nella steppa tutto è possibile, data la mancanza di riferimenti topografici precisi.

 

Invece noi e i russi, gli uni all’insaputa degli altri, ci eravamo accampati a meno di un chilometro di distanza. Anche gli scopi della manovra erano gli stessi: noi volevamo sorprendere il nemico sul fianco e interrompere i suoi rifornimenti; loro cercavano di tagliare la ritirata ai nostri reparti attestati lungo il fiume.

 

Ma in quell’alba sul Don, cavalcando alla testa dei miei cavalieri, io non potevo avere la coscienza che del brusco risveglio e dei fuochi azzurri che ci lasciavamo alle spalle. Sentivo alla nuca il respiro degli uomini del mio plotone e sapevo che non avrebbero indietreggiato di fronte a nessun pericolo.

 

Ed ecco a un tratto, mentre i cavalli acceleravano l’andatura, improvvisamente i fuochi azzurri apparvero sulla sinistra. Dunque la nostra non era una ritirata! Avevamo semplicemente fato una conversione al largo per poter piombare sul fianco del nemico con la massima potenza d’urto.

 

Il cuore mi diede una scossa nel petto e mi strinsi a Palù, trasmettendogli il mio entusiasmo e la mia esaltazione. Sentii il cavallo vibrare, tendersi in avanti come se a un tratto avesse capito che qualcosa di meraviglioso stava per compiersi, che la vecchia cavalleria tornava ad essere una catapulta che piomba sul nemico, consumando in pochi minuti i frutti di una lunghissima preparazione.

 

Ma era ancora possibile, nell’epoca dei carri armati e delle armi automatiche condurre vittoriosamente a termine questo compito classico? Il quesito mi balenò nella mente solo per rendermi avvertito che la risposta l’avremmo avuta tre poco e che, comunque fosse andata la carica, ormai per noi non esistevano alternative di sorta: bisognava andare avanti e tenersi stretti, serrare le file al massimo, formare un corpo unico di uomini e cavalli; perché questi animali così sensibili, così ombrosi, così facili a impressionarsi e a cambiare rotta, avanzavano ora con un galoppo terribile, gli occhi miopi – dilatati dall’esaltazione della carica – puntate sulle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.

 

Fu nel momento preciso che la carica si scatenava che un cavaliere apparve al fianco del comandante dello squadrone. Era il maggiore Manusardi, che qualche mese prima aveva lasciato il comando del reparto perché promosso di grado. “Da Leone”, gridò, ”sono un tuo gregario. Voglio caricare anch’io col mio vecchio squadrone!” L’interpellato fece cenno di assenso, mentre le fiammelle azzurre erano diventate paurosamente vicine e le palle fischiavano da ogni parte, tagliando l’aria come staffilate, e i cavalieri cominciavano a urlare il loro grido di guerra: “Savoia!”.

 

Palù, il mio fido, scorbutico cavallo dal manto grigio non regolamentare, che a suo tempo avevo ricevuto in eredità dal comandante di “Savoia Cavalleria”, Raffaele Cadorna, diede allora uno strappo alle redini e partì, prima affiancando e poi superando il cavallo del comandante, capitano De Leone, che mi gridò arrabbiato per l’atto di indisciplina: “Dove vai con quel brocco?”. Ribattei sullo stesso tono: “Tienilo tu, se ne sei capace! Io non ci riesco!”.

 

E poi vidi De Leone cadere dal cavallo che era stato falciato dalla mitraglia. Allora Manusardi assunse il comando dello squadrone, brandendo come arma il frustino di cui non si separava mai. Ed eravamo ormai sui russi, che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, chi sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell’illusione di sottrarsi all’urto dei cavalli. Dietro di me, intanto, il trombettiere Carenzi, detto “Facciun”, si affannava invano a tirar fuori la pistola “Very” per segnalare ai nostri che cessassero il fuoco. Ci riuscì infine, ma quando ormai eravamo passati e il quarto squadrone, che attaccava frontalmente, a piedi, si era reso conto della situazione.

 

“Signor tenente il suo cavallo muore!” Questo grido mi meravigliò. Non mi ero accorto che Palù fosse ferito, e tanto meno ferito a morte. Avevo soltanto avvertito, a un certo momento, che non riuscivo più a tenerlo e le redini mi avevano tagliato le mani nello sforzo di mantenerne il comando. Comunque mi volsi alla voce, che era quella del mio attendente, e constatai che aveva ragione. Il cavallo perdeva sangue da innumerevoli ferite e mi bastò un’occhiata per capire che stava per crollare. Smontai di sella e mi cercai un’altra cavalcatura.

 

Parecchi cavalli, anche dopo aver perso i loro cavalieri, avevano continuato la carica, superando con lo squadrone le linee russe. Alcuni si abbattevano al suolo adesso, dissanguati. No aveva addirittura una delle gambe anteriori troncata; eppure non si era arrestato, perché soltanto la morte può fermare un cavallo quando carica.

 

Il maggiore Manusardi, intanto, riordinava le file dello squadrone. Dal canto loro i russi, passato lo spavento e l’orgasmo, riprendevano coraggio e cominciavano a bersagliarci di colpi. Sostare era pericoloso. Saltai sul primo cavallo illeso che mi venne sottomano e mi accinsi a partire per la seconda carica, seguito dal mio attendente.

 

 

Generale Guglielmo Barbò di Casal Morano

 

 

E ancora una volta, a ranghi serrati, ci lanciammo sulle linee russe, seguendo il frustino del maggiore Manusardi. L’urlo dei cavalieri coprì il fischio delle pallottole, l’impeto della carica ci impedì di vedere chi cadeva e chi proseguiva. Io avvertii a un tratto che il mio nuovo cavallo allentava il suo galoppo, ma non me ne diedi pensiero perché mi era bastata un’occhiata per capire che si trattava di un animale che valeva poco. Cercai comunque di spingerlo a dare il massimo di se stesso e il cavallo riprese tendendosi in uno sforzo supremo. Non durò a lungo, però: con una grande spruzzata di sangue – era stato anche lui colpito a morte – si afflosciò al suolo.

La carica era ormai finita. Mi rialzai e raggiunsi le linee italiane mentre il terzo squadrone, guidato dal capitano Marchio, puntava a sua volta contro i russi, per la terza carica. Nel frattempo il quarto squadrone, che per primo aveva impegnato il nemico con un attacco frontale, a piedi, guadagnava terreno, attestandosi in vista dell’assalto risolutivo.

 

Una delle prime notizie che appresi fu la morte del capitano Silvano Abba, comandante del quarto squadrone. Costretto dalle necessità tattiche ad operare come un fante, la vista dei compagni che andavano alla carica lo aveva riempito di amarezza. Avrebbe voluto anche lui saltare in sella al suo cavallo e partire al galoppo, ma dovette contenersi. E allora pensò che se non gli era concesso di partecipare alla carica, nessuno gli poteva impedire di fotografare “Savoia Cavalleria” mentre irrompeva sui russi.

Ma le fotografie scattate da Silvano Abba, le fotografie che dovevano consegnare alla storia il documento della carica eroica dei cavalieri italiani fra i girasoli del Don, si persero nel turbine della battaglia. Silvano Abba cadde fulminato da una raffica di mitraglia, che mandò in frantumi la macchina fotografica. Egli perciò non vide gli uomini del quarto squadrone compiere l’ultimo balzo e snidare i russi dalle loro posizioni, dopo che la terza carica li aveva letteralmente sconvolti.

 

Quando io rientrai, a ogni modo, la battaglia era ancora in pieno svolgimento e l’esito finale appariva incerto, tanto più che i russi avevano rivelato di essere nettamente superiori, sia per quantità di uomini che per mezzi. Tuttavia qualsiasi considerazione di ordine generale passò in secondo piano, ai miei occhi, di fronte al fatto che il mio attendente era scomparso nel tratto più tremendo della carica.

 

Passò del tempo. Il sole saliva nel cielo e l’aria si faceva calda. Sulle posizioni nemiche, la lotta si andava frazionando in cento episodi singoli allorché mi vidi sbucare dinanzi tre uomini con le mani alzate, sospinti in avanti da un soldato italiano armato in modo inverosimile e quasi curvo sotto il peso di certe grosse borse che si era appeso al collo.

 

“Signor tenente, le ho portato questi!”, gridò lo strano soldato. Era il mio attendente. Appena si fu liberato dei prigionieri, m i agitò sotto gli occhi il sacco a pelo. “Non l’ho lasciato indietro!”, disse con orgoglio.

 

Come si sia svolta l’avventura del mio attendente, non l’ho mai saputo di preciso; ma forse neppure il protagonista dell’incredibile vicenda sa con esattezza come fece a catturare un ufficiale e due soldati armatissimi, lui provvisto soltanto di una modestissima bomba a mano O.T.O., una bombetta di quelle che i bersaglieri ritenevano adatte alle signorine.

 

Una spiegazione dell’episodio c’è, tuttavia, e me la diede lui stesso con semplicità: “Che vuole, signor tenente”, disse, “la carica li aveva storditi, non capivano più nulla”. E per lui il discorso fu concluso, né lo si riaprì quando gli comunicai che nella borsa appartenente all’ufficiale c’erano documenti importantissimi, che contenevano piani dettagliati delle azioni che il nemico si proponeva di svolgere per annientare la nostra resistenza.

 

Il resto, almeno per me, non ha storia. Molto prima di mezzogiorno la battaglia era finita e il “Savoia Cavalleria” si trovava ad essere padrone assoluto del campo, con un numero di prigionieri superiore ai suoi effettivi. Nel posto di soccorso, dove avevamo concentrato i feriti, italiani e russi, trovai un soldato del mio plotone che aveva perso una gamba. Era Sulas, un sardo dal carattere ombroso e difficile, un tipo molto difficile da trattare. Mi chinai su di lui ed egli mi strinse la mano. Disse: “Ne valeva la pena, signor tenente”.

Mi allontanai, e col mio attendente andai alla ricerca di Palù, il vecchio cavallo bizzoso col quale mi pareva di formare, quando ero in sella, una cosa sola.

 

Palù soffriva di reumatismi, non aveva più molti anni da vivere, era proprio un vecchio cavallo: ma quando finalmente lo trovai steso al suolo, con gli squarci delle ferite nel petto e sulla testa, provai una commozione così intensa che fui costretto ad appoggiarmi al soldato che mi accompagnava. Poi mi chinai al suolo e, in silenzio, cominciai a sciogliere la sella bagnata dal sangue di Palù, letteralmente crivellata di schegge.

 

A mezzogiorno, il rombo di una macchina che si avvicinava ci mise in allarme, ma l’insicurezza durò pochissimo: era una camionetta del comando che ci raggiungeva. Ne scese Bianchi, l’uomo della mensa, in giacca bianca, impeccabile, che cominciò a distribuire panini imbottiti, scusandosi di non aver potuto preparare di meglio. Aveva percorso venti chilometri nella steppa per ritrovarci.

 

Massimo Gotta

 

 

Storia Illustrata anno II n.3 marzo 1958, p. 52/58

 

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

 

LETTERA DEL COMANDANTE DEL SAVOIA CAVALLERIA, SANDRO BETTONI

 

È oggi il 12° giorno che non togliamo la sella ai nostri cavalli; dal 20 non abbiamo avuto un giorno di riposo. In questo momento siamo in linea coi cavalli sellati dietro le mitragliatrici e i fucili mitragliatori. Dirvi che cosa sono state queste giornate è un po’ difficile. Vi dirò in sintesi che dal 20 al 23 non ho fatto che accorrere con la mia colonna (composta da “Savoia”, un Gruppo Batterie a Cavallo e una Compagnia Cannoni anticarro) a ricacciare i russi imbaldanziti, costituendo linee provvisorie e minacciandoli sui fianchi. La mia colonna era un castigo di Dio e i Russi ci hanno visto capitar loro addosso da tutte le parti.

 

Il 23 sera ebbi l’ordine di muovere, puntando in mezzo ai russi. Dovevo, all’alba, spingermi a … per minacciare il rovescio proteggendo il fianco destro italiano. La notte arrivai nei pressi di quota 213,5. Raccolsi la colonna e mi disposi in quadrato – cavalli al centro – cintura di armi automatiche, mitragliatrici e fucili mitragliatori in giro.

 

E così i pezzi anticarro ai miei ordini. Notte fredda e luna. Steppa alta. In giro il silenzio assoluto. Però non ero tranquillo. I russi sono maestri nella sorpresa. E la notte la passai ad orecchie tese. Verso le 3,30 – poiché avevo ordinato di riprendere il movimento della mia colonna alle 4 – mandai una pattugli esplorante sulla mia sinistra, 7-800 metri da me. Nessuna traccia del nemico.

 

I cavalieri entrarono in un campo di girasoli. Spararono qualche colpo di moschetto senza avere reazione. Il sottufficiale capo pattuglia fece allora da cavallo una raffica di parabellum. Fu come se una polveriera avesse preso fuoco. La pattuglia rientrò con tre feriti, ma un coro rabbioso di mitragliatrici (ne abbiamo rinvenute più di 60), di mortai e di artiglieria si rovesciò a tenaglia sulla mia colonna che stava per muoversi. La situazione mi appariva subito gravissima. In meno di 20 secondi le mie mitragliatrici risposero con eguale furore. Feci aprire il fuoco alle batterie dei cannoni anticarro; ma erano in molti troppi per fermarli; a battaglia finita seppi la situazione esatta: due battaglioni siberiani ci avevano attaccati. Le mitragliatrici battevano inesorabili.

 

Fra i primi feriti il vice Comandante Pino Cacciandra; il Capitano Aragone, altro ufficiale del mio comando; un cavaliere sull’apparecchio radio; molti cavalli. Anch’io ebbi il pastrano passato da una palla di mitragliatrice. Non c’era da perdere un attimo. Decisi di dare l’impressione al nemico di contrattaccarlo frontalmente. E il 4° Squadrone (Capitano Abba) inizia la manovra: Abba cade tra i primi, il Sottotenente Rubino è ferito mortalmente. Bisognava creare la sorpresa. Lancia il 2° Squadrone (Capitano De Leone) a cavallo sul fianco. La carica si rovesciò furiosa dalla sinistra alla destra dello schieramento nemico. De Leone ebbe il cavallo ucciso. Il Maggiore Manusardi, ex Comandante del 2° Squadrone, che aveva voluto caricare con i suoi vecchi soldati, riporta lo Squadrone alla seconda carica da destra a sinistra, galoppando sulle mitragliatrici, sui mortai, sui cannoni. Il nemico ha la prima battuta di arresto. Io proseguo l’attacco frontale e il nemico riprende a reagire: erano sopraggiunti rinforzi.

 

È la volta del 3° Squadrone (Capitano Marchio)che carica di nuovo lanciando bombe a mano da cavallo. Due plotoni mitraglieri che avrebbero dovuto mettere le armi a terra non fanno in tempo e caricano con le mitragliatrici sui basti e i cavalli sottomano. Ma il nemico era aumentato. Seicentocinquanta cavalieri (a piedi e a cavallo) avevano avuto ragione di due battaglioni (quasi tremila uomini).

In quest’ultima carica cadono feriti gravemente Marchio e il Tenente Bussolera. Marchio ebbe amputato il braccio destro l’indomani. E cade l’eroico Alberto Litta che aveva avuto ucciso il cavallo ed era stato ferito una prima volta. Cercò di rimontarne un altro ma dovette arrestarsi vicino a una mitragliatrice. Mentre additava nella mischia una direttrice d’attacco a uno dei suoi plotoni, una palla al cuore lo finiva. Con lui cadeva il suo aiutante maggiore Tenente Ragazzi e tutto il personale del comando di Gruppo. “Savoia” si è ricoperto di sangue e di gloria, ma ha salvato una situazione molto grave per le armi italiane. Il secolare sacrificio della Cavalleria si è rinnovato nelle steppe del Don.

 

Oggi, come vi dissi, sono in linea, pronto ad attaccare domani mattina. Sono sereno. Dio protegga “Savoia” e il suo comandante. Non state in pena. Non ho ancora scritto ai Litta perché non so se sono stati avvertiti. Alberto sarà la fiamma di “Savoia”! Se lo merita. Per dirvi che cosa sia stata questa azione che S. E. Messe ha definito “la più bella azione di Cavalleria che Egli conosca”, vi dirò che si è verificato quello che mai è successo al mondo: tutti gli ufficiali e molti cavalieri furono decorati sul campo. Vi stringo al cuore con tenerezza.

 

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 


LETTERA DEL SOTTOTENENTE GIORGIO VITALI A CASA

 

29 VIII ’42 ore 10

 

Chi avrebbe mai pensato che dopo tre mesi dalla mia partenza da Milano (erano ieri tre mesi) mi sarei trovato in un simile cancan. Temo che sarete molto in pensiero per me: è morto il maggiore Litta, il Cap. Abba, il S.Ten. Ragazzi, molti altri sono feriti; il Bollettino italiano e tedesco ci hanno citati e penso perciò in Italia ci considerino tutti morti. Abbiamo avuto molte perdite: mancano moltissimi cavalli, gli altri sono insellati da 10 giorni, e capirete bene in che condizioni siano. Ciò nonostante siamo ancora il terrore dei russi di questa zona che sono stati sempre ributtati da noi. Sapevo che i cavalieri e i lancieri erano ottimi soldati, ma che fossero così valorosi come sono non lo avrei mai creduto. Non hanno dormito la notte, hanno mangiato male, eppure sono stati dei leoni: sono ormai pochi, ma dove sono i cavalieri del «Savoia» ed i lancieri del «Novara» il nemico non passa. Sapete che cosa ha detto un capitano tedesco assistendo ad una azione? «Cavalieri e lancieri hanno tenuto altissimo l’onore delle armi italiane». Credo veramente che la medaglia d’oro allo stendardo questa volta non la levi nessuno. Oramai la fase più intenza la ritengo passata, ma certo che ancora avremo molto da fare; speriamo piuttosto che ci mandino a riposo, perché altrimenti sarà un guaio per chiedere la licenza per esami, e vi assicuro che di venire in Italia ne ho proprio voglia, ma sono orgoglioso di essere venuto qua e di aver partecipato a questa azione che rimarrà leggendaria nella storia della cavalleria.


Credo che nel «Corriere della Sera» verrà a firma «Radice» un articolo su di noi con la descrizione della nostra azione: cercate di prenderlo perché alla Relazione che parte adesso, assieme a questa mia, per il C.do di Cd’A. ho molto cooperato: ho faticato tutto ieri per ritrovare gli episodi più salienti. Sono sicuro che v’interesserà molto.


Voi avete novità? Ieri l’altro 27 arrivò Porzia con le foto, vanno molto sistemate e magari ingrandite, ma sono un po’ monotone. Ci ha messo 27 giorni per il viaggio di ritorno, mi ha detto. Sapete piuttosto che Aragone, promosso capitano, era arrivato verso il 20 qua in «Savoia» e che il 24 è stato ferito, fortunatamente leggero, in combattimento.

 

Tanti bacioni a tutti dal vostro

 

affez.mo
Giorgio

 

 

 Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

 

MOTIVAZIONE DELLE DECORAZIONI AL VALORE A SAVOIA CAVALLERIA
CONCESSE DURANTE LA CAMPAGNA DI RUSSIA

 

Durante un lungo ciclo di operazioni di guerra, anche nelle situazioni più aspre ed incerte per l’insidiosità di ambiente ed avversità logistiche e di clima, con la fierezza del suo antico nome, ha fatto sventolare vittorioso il suo vecchio Stendardo, imponendo ovunque al nemico la sua aggressività e il suo coraggio. Dopo avere inseguito alle reni per 250 chilometri forti retroguardie avversarie, dava nuova prova della sua abilità ed irruenza nell’occupazione di importante capoluogo minerario fortemente difeso dai bolscevichi.

Fronte russo: Nipro, Stalino, Kriwoj-torez, Pantelejmonowka, Gorlowka, agosto 1941-maggio 1942

 

 

Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

 

 

Temprato ad ogni ardimento e sacrificio, nel corso di operazioni offensive per la conquista di un importante regione industriale e mineraria, assolveva con immutata dedizione ed inalterato coraggio le missioni gravose, complesse e delicate, fiancheggiando grandi unità impegnate nell’inseguimento di rilevanti ed agguerrite retroguardie avversarie. Divampata repentinamente la battaglia contro il nemico che, con la potenza del numero dei mezzi, irrompeva bramoso sulla riva meridionale del Don, piombava con fulminea destrezza sulle colonne bolsceviche delle quali domava più volte la pervicacia, sventandone le insidie e contribuendo, con rara perizia e maschia temerarietà allo sviluppo dell’efficacia della manovra di arresto. Affrontato all’improvviso da due battaglioni avversari durante rischiosa e profonda esplorazione, ne conteneva l’urto con valentia dei reparti appiedate, avventandosi in arcioni sul fianco degli aggressori, ne annientava la belluina resistenza, restituendo alla lotta, con impeto corrusco delle sue cariche vittoriose, il fascino dell’epica cavalleresca ed illustrando il suo nome alla pari dei fasti del Risorgimento e delle sue secolari tradizioni.

Fronte russo: bacino minerario di Krassnij Lutsch (luglio 1942), Simowskij, q. 200,1, q. 236,7, q. 209,9 di Val Krisaja, Ciglione di Jsbuschenskij, Bachmutkin, q. 226,7 di Jagodnyi (21-30 agosto 1942).



Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942


Regio esercito Cavalleria Italiana in Russia 1942

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