Volare è passione e vocazione, che riempie di sè una vita.
Adolf Galland
La morte del Generale Pezzi sul fronte Russo
Nel corso della Seconda guerra mondiale l’aviazione fornisce un essenziale valore aggiunto alla logistica. Rilevanti quantità di materiali ed uomini vengono movimentati da tutti i principali belligeranti per le differenti esigenze dei vastissimi e mutevoli fronti operativi. Una storia sovente poco conosciuta che si limita a singole circostanze.
In Italia i Servizi Aerei Speciali della Regia Aeronautica nei 38 mesi di guerra forniscono un fondamentale contributo, con voli di altissimo livello professionale che confermano le qualità dei piloti che le portano a termine.
Sul fronte russo, poi, le esigenze strategiche si coniugano a quelle tattiche, con la necessità di rifornire reparti accerchiati, talvolta in condizioni drammatiche.
Nel corso di una di queste missioni eseguite con velivoli non certo previsti per l’utilizzo in condizioni climatiche estreme come quelle che si registrano in quel fronte operativo, scompare il Generale Enrico Pezzi, comandante il Comando Aviazione Fronte Orientale.
Un grande giornalista, Lamberti Sorrentino ci trasmette un vivido racconto dell’episodio. Tutta la documentazione fotografica è quella del sito internet dell’Archivio Centrale dello Stato. (g)
Il generale Pezzi era al fronte russo quasi dal principio della campagna: era uno dei veterani. Fece tutto l'inverno 1942 col Csir, alle dipendenze del generale Messe — che qui vedete ritratto a destra — attualmente Comandante d'Armata. A Putilofca, poco distante da Stalino, il generale Pezzi diede alla nostra aeronautica in Russia un'organizzazione efficace, soprattutto per officine e riparazioni di velivoli colpiti.
(Dal nostro inviato speciale)
FRONTE RUSSO, marzo.
Sai, mi disse: « il generale è scomparso ». (G. P., era venuto di sopra, dopo avermi telefonato dalla portineria dell'Athénée Palace: certo una cosa gente).
« Scusa se mi trovi, in questo arnese » — rispondo per riprendermi; e rimasi a mezza strada tra il letto e il bagno. Tutti possono cadere in guerra, anche i migliori, soprattutto loro, così dicono; ma il generale Pezzi, no. Era un fenomeno di vitalità. Pezzi caduto? Rimanevo a pensarci su, senza ricordarmi di G. P. che mi guardava ammutolito: Pezzi caduto? Sono tutte storie, pensai, e sorrisi. È vivo, e da qualche parte, a tempo e a luogo, salterà fuori. Anche G. P. la pensava così. Certi uomini non posano morire, Sono due anni che Balbo se ne è andato, ma chi crede al fatto che non tornerà più? E Sandro Sandri? Neanche Barzini junior, che lo vide finire, ci crede, alla sua morte. Sarà in Cina, come dissi altra volta, a camminarsene per la piana, vestito di seta, a fare il mandarino, o di lana, a fare il generale. Deve esser così, e non c'è niente da fare. Sarà. per questo che non verrà mai più quaggiù tra di noi.
G. P. mi da notizie. Mi dice: « Sai che aveva la smania di fare l'azione personale, dare l'esempio, volare sui russi. Era giovane, poco più di quarant'anni, ma era anche generale; e questo gli avrebbe consentito, l'obbligava, anzi, in un certo modo, a rimanersene al comando ».
Me lo ricordo. Pezzi, come se fosse qui, in albergo, a far quattro chiacchiere con me. Comandava l'aeronautica italiana al fronte russo. Ci sapeva farei come pilota, come capo, come organizzatore. Qualche mese fa, infatti, allorché i sovietici cominciarono a premere contro le nostre posizioni sul Don, egli istituisce un regolare trasporto, aereo dei feriti oltre che di viveri, benzina e munizioni, dalle linee al centro ospedaliero di Voroscilovgrad. Qui, alcuni celebri medici nostri, quasi fossero stati nelle cliniche di Roma o di Milano, recuperavano tutta quella carne lesionata, la rimettevano in sesto, restituivano loro la vita. Questo, mentre si faceva la guerra, torva, tra la neve e il ghiaccio, tra la spinta di armate che sì cercavano e si fungevano in un inferno senza fine.
Su tutto il fronte russo — anche tra il nemico, probabilmente — Si parlò della muta collera delle squadriglie-trasporto,una gara di rischio. Ognuno faceva del suo meglio. Ogni salto nel vuoto voleva dire venti italiani sottratti alla morte. Il generale Pezzi era con loro, con ì piloti; oltre il limite, ognuno si sentiva sotto l'imperio dei suoi occhi. Pezzi volava in ogni spedizione, carico di professori universitari, uomini di studio, di laboratorio, di biblioteca; e gente che in tutta la loro vita non aveva udito un solo colpo di pistola, oggi volavano alti in un cielo straziato di nero e di grigio, un cielo funesto di scoppi, di riverberi e bagliori. Da allora, in linea, si incominciò a parlare seriamente dei trasporti. Fino alle vicende di quei giorni, i cacciatori e bombardieri si erano assunti il ruolo dei protagonisti. I piloti dei trasporti passavano per semi-imboscati. Malgrado la loro continua interdipendenza con le linee avanzate, andavano e venivano da Bucarest, vivevano, cioè, anche in città. Infatti possedevano saponette profumate, liquori, radio portatili, romanzi, provviste di sigarette. Erano i signori della situazione, e, con la retrovia sicura, non correvano nessun rischio oltre quello, inevitabile, del volo.
Ma, durante il salvataggio dei feriti — un terzo dei quali erano tedeschi — i trasporti ebbero le prime gragnuole a bordo. Un duro battesimo, morti, feriti. Ci si orientò meglio nei confronti di questa specialità dell'aviazione. Imboscati un corno! Il tale in tre giorni aveva dormito, si e no, tre ore. Un altro, era rimasto a terra per far posto a un ferito grave, e in un attacco notturno aveva combattuto con le fanterie. Un terzo era riuscito a compiere quattro voli utili in una sola giornata. Per ciò che riguarda la pubblica opinione nei riguardi degli ufficiali dei trasporti, posso dire che, a mensa, si faceva loro subito posto, e il primo bicchiere di vino fu per loro. Una tradizione di settimane, che rimarrà.
« Parto domattina. Potrei dare un posto anche a te. Vieni? » , G. P. era allora addetto aeronautico a Bucarest. Ci conosciamo dalla Spagna, e da quel tempo diabolico siamo amici, (La Spagna, come tutti i veri drammi, cementò amicizie e inimicizie durature). « Ti farò dare a bordo il posto del mio segretario » — disse. Ci avvicinammo al balcone. Nevicava placidamente, e la città ostentava un profondo velo bianco sfumato nel grigio imprecisato dell'orizzonte. Lontano, molto lontano, in una certa direzione, c'era la guerra. Era inutile il non pensarci. Dalla periferia, sentivamo battere il cuore del centro, clamori della grossa artiglieria, il fremito dei cingoli sulla neve. Per noi che c'eravamo stati, la fronte appariva come una tragica caldaia dove milioni di uomini fermentavano in un gigantesco odio comune. La piazza era aperta e stucchevole nel suo paesaggio di maniera. Nessun rumore.
Chiesi: « Arriveremo con questo tempo? ».
« Appunto » rispose « c'è una occasione unica. Un "ottantuno" che parte domani e deve raggiungere le linee. Se nevica ancora per qualche giorno sarà impossibile lasciare il campo. Partiamo domani, alle otto ».
L'offensiva sovietica aveva preso dimensioni mai viste, e alcune località del nostro schieramento erano state sgomberate. Parve proprio di udire, nei nostri orecchi infreddoliti, le voci italiane dei difensori, visi noti, le accentuazioni rapide dei dialetti. Era casa nostra, e sentimmo entrambi dolore, una sorpresa stupita, irrimediabile. E poi: Pezzi era caduto; ma che diavolo accade?
Mi disse G. P. sulla soglia, prima di andarsene: « La notizia della scomparsa è riservata; se si sapesse, sarebbero i russi a ricercarlo. Stiamo sondando il terreno, rastrellandolo addirittura, con gli aerei, seguendo la sua stessa rotta. Ma finora neanche il relitto dell'apparecchio abbiamo trovato. Non parlarne, qui le spie prosperano ».
Non gli sorrisi neppure. Che Pezzi fosse proprio vivo?
Eravamo a cento chilometri oltre Odessa, quando cademmo in un banco di nebbia. Visibilità zero. Il pilota si buttò avanti. Nuotavamo in una illimitata parentesi di acqua e neve. A un tratto si produsse, nella nebbia, un concitato brivido. G. P. mi indicò le ali: si coprivano di ghiaccio, di incrostazioni stalagmitiche, belle a vedersi. Il pilota capriolo all'indietro, svettò dì nuovo all'aria libera. I volti si distesero. La morte aveva tentato, ma non era riuscita. Le formazioni di ghiaccio sono mortali, e nella navigazione invernale in Russia rappresentano un pericolo quotidiano. Bastano pochi secondi, a volte, per rivestire le ali d'una scorza ghiacciata spessa venti centimetri. L'aeroplano cade come una pietra, le eliche e i timoni non hanno più senso. Si va in frantumi prima di farsi il segno della croce.
Dormimmo a Odessa. Anche qui, la città si stendeva, silenziosa, nella neve. La mattina, trovò le strade, il porto, le case bruciacchiate, nella tempesta. 20 gradi sotto zero. I piloti attendevano nelle baracche del campo, con gli occhi fissi nei vetri smerigliati dal gelo. All'una si produssero di colpo le condizioni favorevoli per il volo. Arrivammo a Saporosce, e avevamo un'ora di vantaggio sulla notte. L'apparecchio perse quota, librò come una farfalla morente nel freddo.
A mensa si parlò del generale.
« Pezzi non era tipo da morire » — urlò inasprito un capitano con la zazzera, un uomo mistico, sembrava. Il comandante del campo, rimproverò dolcemente: « Perché perdere la speranza? »
Il medico stava accanto alla radio, ad ascoltare i russi « Non lo hanno trovato, non lo sanno ». Allora il capitano con la zazzera, faceva con il braccio un gesto osceno, verso oriente, una offesa muta e desolata. Gli altri ridevano, ammiccavano. Ma la pena era rappresa perfino negli occhi degli inservienti che servivano una povera zuppa di carote. Si giuocò a poker e a baccarat. Ma mancavano i sottintesi lieti, meno ancora del solito incontro notturno, a carte, attorno alle cassette munizioni, in trincea. Fermentava una collera sorda, inutile. Dopo il medico, un biondino, accompagnò G. P. e me, nella stanza riserbataci, due brande con vere lenzuola. Mi disse, sulla soglia: « Che lusso, che riguardi! L'hai indovinata a venire con l'addetto aeronautico. eh! ». Forse m'invidiava, il medico, ma rise egualmente, sottovoce, come se avesse paura di disturbare.
Quaranta minuti di volo ci separavano da Voroscilovgrad, e per compierli due interi giorni abbiamo dovuto attendere, con melanconica pazienza. Nevicava sempre, e un vento folto, lugubre, sollevava larghi strati bianchi, gonfiandoli come dirigibili; dopo le inutili attese in mezzo al campo, ci ritrovavamo alla mensa, venti persone e quattro tavoli; senza liquori. Giuocavamo con piccole carte da bambini, unte. Ma non era facile ottenerle, il proprietario si opponeva, diceva che si sciupavano, bisognava far lunghe diatribe con la partecipazione di tutti i presenti. Ne era geloso, il proprietario, come di una donna. Mangiavamo a turni. Quelli del secondo, aspettavano in piedi, guardando cupamente i nostri piatti. A nostra volta, prendevamo il caffè in piedi, mentre loro mangiavano, avidi, quasi a vendicarsi dell' attesa. Con un gruppo di ufficiali giunti da Voroscilovgrad, avevamo impiantato un tavolo di scopone: Erano allievi di Pezzi, acerrimo scoponista, conoscitore di tutti i bravi giocatori della zona, a rotazione invitati alla sua mensa. Partite ricche di urti e polemiche: gli insulti volavano come coltelli, fischiavano. « Non mi chiamare schiappa » propose un tenente, e aggiunse, piano: « Il generale mi chiamava così ».
« Speranze? », chiesi.
Egli disse: « Tutti vogliamo averne, ma... ».
Stette un po' soprappensiero, meditava: « Da ieri sono cessate le ricerche. Si è compiuto. un ultimo tentativo: abbiamo mandato nelle linee russe un gruppo di ragazze che lo conoscevano, vestite da partigiane. Qualcuna tornerà indietro, e forse avremo notizie. Domandò, nell' improvviso silenzio, un sottotenente « A che distanza della linea è caduto? ». Era pivello, e non sapeva raccapezzarsi in quella ibrida confusione organica che fu il fronte russo invernale del 1943.
Disse il tenente: « Non c'è linea, non ne esistono più, in questa campagna. I russi avanzano, noi resistiamo; essi ci oltrepassano, e noi siamo accerchiati; poi, altre truppe, nostre o tedesche, accerchiano i russi. Allora il presidio accerchiato si sgancia, cioè si sganciano i superstiti, e si prova a raggiungere le retrovie. Le strade sono di nessuno, nostre e loro, secondo. In questa babele, girano i carri armati, volano gli apparecchi, si perdono le fanterie. E' una linea fluida come l'acqua. Cambia forma, e sembra sabbia sotto il ghibli ».
Un capitano di fanteria imbacuccato annuiva, timido, e disse a mo’ di scusa: « Chi non c'è stato non può capire, né giudicare! ».
A Voroscilovgrad arrivammo all’imbrunire. Sul volto degli avieri che si fecero attorno all'apparecchio, nel crepuscolo viola, sui campo tirato a lucido dal vento, c'erano segni duri. Prima linea. Subito qualcosa ci avvertì che la vita era divenuta preziosa. Formalmente, niente era mutato, ma le strette di mano sono più intense, le parole più scarne, i toni della voce, misurati. Sensazioni inesprimibili. Pare quasi che l'uomo si metta a punto, come un motore, per dare il rendimento massimo con il minimo dispendio di energia. Un clima morale esasperato in un ancora irrealizzabile approssimarsi dì motivi e modi da far paura.
Quando entrammo nella vecchia mensa dei cacciatori, fu uno dei momenti più belli dei nostro viaggiare attraverso i fronti. Per la strada ci avevan detto che la minaccia era lì, a due passi, e che il generale, prima di scomparire, aveva ordinato di preparare le valigie. Molto materiale era, così, andato tempestivamente indietro, molti erano partiti. L'arrivo di un addetto aeronautico e di un giornalista, a questo punto, parve un buon augurio. Ragazzi che tre mesi prima si erano appena presentati, ci vennero incontro con le braccia aperte; una stretta sana, da uomo, che dava senso alla vita.
« Non trovi il generale » — disse C., un cacciatore napoletano che sapeva deformare al pianoforte note canzoni inglesi.
« Già, non trovi il generale » — dissero gli altri.
Spiegai: « Sono venuto per lui. Se ritorna, tanto meglio, altrimenti scrivo un pezzo come si deve » — dissi poco dopo.
Tacquero. Qualcuno mi voltò le spalle, e il silenzio divenne acre. Offrii una sigaretta a C. Questi rimase con le mani in tasca, severo, annoiato di dover ripetere una cosa elementare: « Perdi il tuo tempo, tornerà ». Aveva parlato per tutti, e l'atmosfera divenne più leggera.
Precisai: « Ma nel dubbio... ». Fecero in coro: « Che dubbi e cavoli. Ti pare uomo da finire in mano ai russi? », e nella loro interrogazione c'era un immenso disprezzo, ma anche un lontano timore che insisteva, rabbioso, a venir fuori. Qualcuno rise, un altro sputò nella stufa, tutti insieme mi guardarono con canzonatorio compatimento. Si facevano coraggio alle mie spalle, facendo le fusa come ragazzini desolati ma sicuri dell'invincibilità di Pezzi, una specie di magnifico padre.
Nel Comando c'era una porta con un cartello: « Il Generale Comandante ». Era chiusa: Spingemmo la porta contigua: « Il Capo di Stato Maggiore ». Un tenente colonnello era alle prese con due telefoni. In uno diceva piano, come un consiglio sussurrato a un amico: « Aspetta, ti prego, aspetta un momento; nell’altro gridava, tentando dì vincere la pessima conduzione: « Non capisco... come? ... sì… colpito duramente... A questo punto, alzò gli occhi: e quasi continuando una conversazione già iniziata: « Ventun colpi di cannoncino a bordo ». Riprese nel primo telefono: « È atterrato fuori campo, ma ha sganciato su Cercovo. Ventun colpi di cannoncino, al ritorno, l'armiere e l'erreti morti, gli altri incolumi. Ma hanno centrato Cercovo, stanotte i nostri potranno sparare ». Parlava, con gli occhi fissi su G. P., ma solamente in ultimo lo riconobbe:
« Ma sei tu, scusami » — e si alzò per abbracciarlo. Disse, lentamente: « Da due ore tengo in allarme il fronte per sapere che cosa è accaduto di G. Dei tre apparecchi partiti per Cervovo uno non dava notizie dalle quattro, e i tedeschi avevano visto a quell'ora cadere un aeroplano. È stato difficile raggiungerlo, e nella pianura è tutto buio. Per fortuna, il velivolo non è danneggiato gravemente, le parti vitali sono incolumi. Aggiunse, con voce incolore: Ogni giorno perdiamo qualche elemento, e le squadriglie trasporti son ridotte a ben poca cosa.
Eravamo seduti, e il tenente colonnello ordinò tre caffè. Beveva con la tazzina nella destra e dinanzi alla carta, illustrava Cercovo. Avevamo sentito quel nome, per la prima volta, a Saporosce, un nome russo qualsiasi. Ma in quell'istante, Cercovo prese un valore estremo, sentimmo all'improvviso che questo nome era il protagonista. Ogni parola del colonnello cadeva densa di significato: « Qui, in questo punto, poco distante dalla ferrovia c'era un piccola campo di atterraggio », segnava, intanto, con il dito, sulla carta: « e qui giunsero i nostri, dopo una cruda resistenza in linea e una marcia lunghissima sotto il pungolo delle avanguardie russe, tra bufere di vento e nevischio e, Rise tra sé, un piccolo riso secco; forse era un tic nervoso.
Annunciò: « Vi ricordate il passaggio della Beresina? Le oleografie viste da bambini? Beh, sono appunto storie per bambini. Il popolo italiano non saprà forse mai che cosa è stato fatto al fronte russo, nell'inverno 1943. Altro che inverno 1942! Allora si stava nelle case, si combatteva dalle case, con la stufa dentro e la mitragliatrice sulla soglia. Credevamo che fosse materialmente impossibile combattere allo scoperto. Invece, i combattimenti incorso si svolgono all'aperto, tutti all’aperto, e che eroismo o pagine di storia; le parole, si sono sciupate: bisognerebbe trovare parole-natura, parole come sangue, per raccontare certe cose ».
Aveva finito il caffè, noi tacevamo. Tutti e tre sul divano a guardasti in faccia, il colonnello era assorto, nervoso, consumato, dalle rughe e dal pallore. Un volto giovane con tracce di una assurda decrepitezza. Solamente gli occhi scuri erano vivi, lampeggiavano. Dissi: .« E così, che cosa avvenne? ».
« Non so che effetto potrebbe fare in Italia il tuo articolo. Non so nulla, sono qui da tanto tempo. Ma ti assicuro che il più estraneo diventerebbe partecipe, a udire quel che avviene a Cercovo in questi giorni. È a Cercovo che il generale e il professor Bocchetti tentarono, tre settimane fa, di ricompiere un miracolo. Settemila uomini, tra cui mille feriti. portati a braccia dai sani, sani per modo di dire. Nessun ferito fu mollato per la strada. Soltanto i morti, abbandonavano, dopo averli interrati e saluati. Un ripiegamento a marce forzate, nella neve, tra i russi, bombardati da sopra, addentati dai carri d’assalto, e pure con i partigiani, probabilmente. Ma a Cercovo i nostri s'incontrarono con quattromila tedeschi e organizzano la resistenza, e tengono testa ai russi ».
Continuò: « avevano le armi e le munizioni che gli uomini possono portare addosso. Non li seguiva nemmeno un mezzo, e quei pochi usciti integri dal cozzo iniziale esaurirono per strada il carburante. Ma avevano una radio e c'informarono. Il generale partì con i due migliori piloti del C.A.F.O., un ottimo erreti, il maggiore Romano che faceva da osservatore, Bocchetti e altri.
Diede notizia da Corcovo che aveva felicemente atterrato. Rimase due ore sul posto, ripartì, e chiese due volte il Q.D.M. Tutto era andato bene. Lo aspettavamo, al massimo entro mezz'ora, e poi sarebbe stato tra noi. Abbiamo aspettato e aspettiamo ancora ».
Disse amaro: « Quando cadde il buio cominciammo a temere un atterraggio di fortuna, con la radio inutilizzata, o l’erretì ferito. Accendemmo le luci sul campo, poi sì fece tardi. Se non tornerà in volo, verrà a piedi, concludemmo; organizzammo le ricerche. All'alba partirono i caccia, una rete sul terreno, una tessitura fitta. Anche i tedeschi mandarono i loro apparecchi. Tutto il giorno, e f giorni seguenti, tra Cercovo e Voroscilovgrad su e giù, a bassa quota, a 120 metri. Niente ».
Lasciammo l'ufficio, e il tenente colonnello ci indicò la stanza del generale comandante; disse:
« Nessuno vi è entrato, da quel giorno ». Scendemmo dei gradini bui, e un carabiniere ci proiettò sul viso il cono giallognolo della sua lampada tascabile. Entrammo nel freddo e nel vento. Udimmo ancora la voce del Capo di Stato Maggiore: « Nemmeno nella sua abitazione privata è entrato più nessuno, da allora ».
Pranzammo con i cacciatori. Si apre la radio: il bollettino. Poi tutti parlano e fumano. Vi è una allegria instintiva sui volti di questi ragazzi, e nulla può giungere a offuscarla del tutto. Mi domandano: « I cacciatori della steppa. quando esce? le foto, erano buone? ». Mostro le istantanee eseguite settimane prima, per un servizio che si intitolerà, appunto. I cacciatori della steppa. Spiegai loro le esigenze del mio girovagare attraverso i fronti., i ritardi nella pubblicazione per gli incredibili intoppi causati dalle spedizioni, dalla censura, e qualche volta da un'irresistibile voglia di non scrivere. Mi erano attorno, ad ascoltarmi, e ridevano. Si divertivano. Poi, quasi insieme, mi dissero: « Lascia stare i cacciatori e occupati dei trasporti ».
Uno dì essi mi precisa: « Credimi, di noi si è scritto abbastanza, mentre dei trasporti nessuno ha parlato. Stanno facendo cose straordinarie ». Disse un altro « Ci danno dentro a tutto spiano ». Chiamarono Fera un giornalista, esitante, tempo fa, tra il corrispondente di guerra e il pilota, fino a che si è deciso per li pilota, nettamente, senza melanconie. Si fa vedere, e parla con accento leggermente salottiero: « Occupati dei; trasporti, e scrivi un bel servizio che lo meritano. Tutti ì giorni ne muoiono e tutti i giorni quelli che restano riprendono a volare ». Disse quasi per giustificarsi: « Il generale è scomparso appunto con i trasporti ». Parlò anche lui di Cercovo, degli uomini che vi sopravvivevano, accerchiati. I trasporti avevano continuato ad atterrarvi fino a qualche giorno prima; poi i russi strinsero I'assedio, occuparono il campo d'aviazione, accentuarono gli sbarramenti antiaerei. Adesso. Si fanno rapidi lanci con materiali protetti da paracadute.
Accanto a noi, cantavano stornelli sfottenti all'indirizzo. dell'uno e dell'altro. Tirava fuori, un vento che rintronava. Ricordai a Fera che l'inviato di Tempo è soprattutto un fotografo, e che perciò un servizio sui trasporti aerei avrei potuto farlo a condizione che mi avessero portato a bordo con loro, su Cercovo. Mi rispose: « Non venire ». Lo guardai sorpreso: che cos'era questa storna?
« È troppo rischioso », aggiunse. Gli misi la mano sulla spalla; rischi se ne corrono tanti, e li corrono tutti. Reagì subito, animatamente: « Sarebbe una sciocchezza », disse: « Si vola bassi per
trovare la rotta, sotto le nuvole, e chi vuoi prenderti non si affatica., Contro i nostri uccelloni possono sparare perfino con le rivoltelle. C'è poca probabilità di ritornare ».
Lo guardavo senza decidermi, ed egli rosicchiando un po' la erre, e sorridendo, disse testualmente: « Credimi, io non sono affatto sicuro di tornare, domani: tutt'altro. Ma ho munizioni e medicinali da portare a undicimila uomini sospesi sulla morte. Non si discute, e anche se c'è una sola possibilità, si va tu, correre il medesimo rischio per quattro fotografie, sarebbe una fregnaccia ». Mi diceva, insomma, a suo modo, che la vita umana è sacra, che non va data per piccoli mestieri; meglio spenderla in combattimento, allora. Poi, dopo uno scopone scientifico, rientrammo nella stanza. Notammo, io e G. P., che più si va innanzi, al fronte, più la gente ride. I cacciatori ancora cantavano, improvvisando canzoncine a chiave, con motivi noti solamente a loro, riferimenti e intenzioni escluse al profano.
Partiremo domattina su una Cicogna, per il Comando dell'Armata.
Ci levammo tardi, una furibonda dormita piena di sogni. Calcolavamo di essere a Starobiesc, al Comando, dopo un'ora di volo. Ma la Cicogna non partì. L'apparecchio apparteneva al maggiore Von Boist, ufficiale di collegamento tra il Cafo e il Comando dell’arma aerea tedesca. Sette, otto avieri germanici vi lavorarono intorno per un paio d'ore, avvolti in nembi di nevischio. Si rinviò la partenza al giorno dopo: la luce moriva, e di notte è terribilmente pericoloso.
Andammo nell'ufficio del Capo di Stato maggiore e lo trovammo, come il giorno prima, curvo sui due telefoni, sul suo volto, come su quelli di altri due ufficiali, leggemmo chiari i segni del dramma. Ci fece un saluto sconsolato, e gridava, intanto: « Cercate, continuate a cercare. Fera aveva benzina per quattro ore, e non c'è più speranza, ormai, che sia in aria ».
La mattina erano partiti quattro apparecchi per Cercovo, ma solamente uno di essi aveva raggiunto l’obiettivo, sganciato i paracadute con le munizioni, rientrando poi alla base. Degli altri tre, fino a mezzogiorno, nessuna notizia. Verso quell’ora i tedeschi segnalarono che in velivolo aveva atterrato fuori campo, a cinquanta chilometri da Voroscilovgrad. La spedizione di soccorso trovò incolume soltanto. il primo pilota. Questi riferì che l'apparecchio navigava verso Cercovo, quando, su due strade che facevano da riferimento, apparvero carri d'assalto russi che iniziarono un fuoco incrociato contro la squadriglia. L'aereo di Fera, colpito, traballò e si perse tra le nubi.
Il terzo, continuò la rotta, mentre lui atterrava fuori campo, tra gli scoppi dei proiettili. Di Fera e dell'altro velivolo non si avevano notizie. Rammentai il suo viso e le Sue parole: « Ti assicuro non so se torno, tutt'altro ».
Squillò il telefono il tenente colonnello si contrasse. ognuno di noi credette in cuor suo che fosse un altro guaio; una mano nervosa si tese sul microfono: « Fera è atterrato a Starobiesc », gridò,
« con ventiquattro colpi a bordo, morti e feriti. Lui è incolume ». Da un'ora stavo a piangere tra me e me la sua scomparsa. alla sua decisione di scartarmi dovevo adesso di starmene al caldo e al sicuro. Ma il quarto apparecchio era sparito, inghiottito nel mistero. « Come quello del generale », disse, il tenente colonnello: « Su un percorso breve, sopra un terreno completamente piatto, uniforme. senza alcun ostacolo, con osservatori brevemente distanziati, un grosso apparecchio caduto si dovrebbe trovare ». Disse più tardi, a bassa voce: « Speriamo che i tedeschi facciano a tempo ! ». Si riferiva agli undicimila di Cenavo, e mi passò, lento, un brivido nella schiena.
* * *
Lasciammo il fronte qualche giorno dopo, con tre apparecchi del CSAS, guidati da tre assi dell'Ala Littoria, ognuno dei quali aveva al suo attivi) oltre due milioni di chilometri volati. Fu un viaggio avventuroso, e solamente il velivolo dove avevamo preso posto raggiunse, a tappe, Odessa. Gli altri due ebbero incrostazioni di ghiaccio sulle ali e altre storie che non è il caso di narrare. Ma a Odessa ci aspettava una buona notizia: i tedeschi avevano rotto il cerchio che strangolava Cercovo, con una colonna di Panzer e di autocarri.
Il Console Generale Coppini si scaldava la schiena, con una diecina di ufficiali, alla grande stufa di maiolica, in attesa che il pranzo fosse pronto; e si parlava della gesta disperata, lassù, nella solitudine ventosa e ghiacciata. I salvati avevano ricostruito le alterne fasi della lotta.
Si seppe, così, che Pezzi e Bocchetti avevano predisposto tra gli assediati un posto di pronto soccorso, e un rapido trasporto dei feriti, Erano i primissimi giorni dell'assedio, e le cose andavano quasi bene. Conservavano tutti un grato ricordo dei due eroi, annullatisi. sembra, nel tentativo.
C'era tra noi, quella sera, un capitano che aveva accompagnati; i superstiti di Cercovo verso le retrovie. Disse a me, chi mi proponevo di cercarli e interrogarli: « Lascia stare. È gente che non ha voglia di parlare, e di raccontare, se ne frega dei giornalisti, è gente che ha bisogno di molta dolcezza. soprattutto molto oblio. In Italia non si avranno mai abbastanza cure per essi, cura dei lori, cuori oltre che della loro carne. Essi hanno sopportato uno sforzo al di ogni possibilità umana. Ne sono infranti, e ne rimarranno infranti anche se brodi di gallina, torti d'uova e aria di mare restituiranno loro muscoli e colore. Dentro al loro cuore rimarrà un nodo segreto, un angolino di neve che nessun calore fisico o affettivo, scioglierà mai più! ».
Tacemmo tutti, stanchi.
LAMBERTI SORRENTINO
Tempo 25 marzo - 3 aprile 1943 n.200