Volare è passione e vocazione, che riempie di sè una vita.
Adolf Galland
Il dramma di un Pipistrello
Siamo nel periodo più crudo della guerra di Grecia.
L'inverno albanese aggrava ed esaspera tutti i problemi connessi con l'attività operativa in quel settore che, per le sue caratteristiche orografiche e per la penuria di strade, è tra i più difficili d'Europa.
La neve abbondante stende un'interminabile coltre su tutto il territorio; molti reparti schierati su posizioni di montagna combattono nelle peggiori condizioni di clima, di ambiente e di equipaggiamento concepibili; tagliati, come sono, dalle proprie basi di rifornimento, possono essere vettovagliati soltanto dagli aerei.
I velivoli da trasporto seguitano a far la spola dagli aeroporti pugliesi verso i campi d'Albania, trasportando uomini, reparti interi col loro armamento leggero, materiale d'ogni genere, da immettere nella fornace della guerra; rientrano poi con feriti e congelati.
Quest'afflusso continuo di uomini e materiali per via aerea avviene con qualunque tempo; le cose laggiù vanno male e bisogna quindi forzare al massimo le possibilità offerte dal mezzo aereo, anche al di là dei limiti prudenziali.
I reparti di volo operanti da campi impantanati e melmosi non hanno requie nella loro multiforme attività a beneficio diretto o indiretto delle truppe.
La lotta aerea sta divenendo sempre più aspra, anche perché dalla parte avversaria si sono schierate numerose ed agguerrite squadriglie inglesi, alle quali con non minore impegno e valore tiene testa la nostra caccia, che è sempre in volo per difendere le nostre basi e i porti d'approdo, per spezzonare, mitragliare, scortare ricognitori e bombardieri.
I reparti da bombardamento sono dotati in gran parte di S. 81, apparecchi ormai superati, pesanti nella manovra e che non sarebbe prudente inviare al di là delle linee senza adeguata scorta di cacciatori. Ma il numero di questi ultimi non è sufficiente per le molteplici necessità da affrontare e spesso quindi, troppo spesso, i pesanti e lenti S. 81 compiono le loro missioni senza protezione alcuna, più di qualche volta vola sul nemico un apparecchio isolato anche, con tutte le conseguenze che una missione siffatta comporta ai fini della difesa contro la numerosa caccia avversaria.
Dopo un onorato servizio l'S. 81 avrebbe ogni diritto ad essere adibito a servizi meno logoranti. Ma come si fa durante la guerra, grande logoratrice di energie e di materiali, a privarsi dell'apporto anche degli anziani, quando non si dispone di forze sufficienti per tutte le necessità, quando si hanno fronti molteplici da alimentare, e soprattutto quando le cose vanno male?
La mattina del 20 dicembre 1940 una formazione di 6 S. 81 del 38° Stormo parte dall'aeroporto di Scutari, diretta a bombardare alcune importanti posizioni nella zona di Piskali, al di là della stretta di Klisura nell'Albania meridionale.
La formazione è divisa in due pattuglie; capo della prima è il Comandante dello Stormo, Col. Domenico Ludovico.
Non è facile individuare l'obiettivo in quel paesaggio montuoso ammantato di neve e con una nuvolaglia fitta a quote diverse, che scorrazza disordinatamente in preda alle correnti d'aria che imperversano nella zona. Ma gli equipaggi hanno acquistato una certa praticaccia di quel terreno difficile e riescono ad individuare località e postazioni fra quell'ammanto di neve abbacinante.
Presi accordi telefonici con la caccia di scorta che rileveranno a Tirana, alle ore 10 i velivoli decollano per la missione.
Sorvolano il campo di Tirana, appena visibile tra la nuvolagia vagante, e dopo avere zigzagato per un po' nella zona, onde permettere alla caccia di giungere in quota, puntano verso la meta. Sennonché la fitta nuvolaglia che copre il crinale delle colline attorno al campo di Tirana si diluisce, si stempera in una fitta nebbia che scivola giù in pianura, invadendo il campo e paralizzandone ogni attività.
I bombardieri proseguono verso sud, augurandosi che la scorta, più veloce, li raggiunga presto, ma per quanto guardino in giro non ne vedono traccia.
Questa variante sostanziale al loro programma produce un certo disappunto negli equipaggi che, anche a causa dei banchi di nuvole che scorrazzano alle varie quote e che potrebbero ostacolare non poco il compito dei cacciatori, intuiscono che forse verrà loro a mancare quel beneficio senso di serenità, che sempre produce nel ricognitore o nel bombardiere la vicinanza protettrice della scorta.
Il paesaggio alpestre che sorvolano è di una maestosità imponente. Il sole squarcia a tratti la nuvolaglia ed illumina violentemente alcuni roccioni a strapiombo sormontati da macchie di conifere, dove la neve assume aspetti di pesanti coltri dai margini a brandelli.
Seguiamo un po' ciò che avviene a bordo del velivolo capo-formazione, seguito da presso dai due gregari della prima pattuglia.
Ogni membro dell'equipaggio accudisce al suo compito specifico e man mano che si accostano verso le linee raddoppia la sorveglianza, ad evitare scontri improvvisi con la caccia inglese, che potrebbe sfruttare a suo vantaggio la nuvolaglia vagante per attaccare. Per ora tutto procede bene e caccia inglesi non se ne vedono; neppure caccia italiani però se ne scorgono.
Si stanno frattanto accostando all'obiettivo, che già s'intravede.
Il S. Ten. Reale coadiuva il Comandante nella guida dell'apparecchio, il Cap. Giulio Beccia in qualità di puntatore comincia a manovrare il traguardo e ad inquadrare il terreno nel quale l'obbiettivo si trova. Il 1° Av. arm. Libero Leta toglie la sicura alle armi, l'Av. Sc. mot. Andrea Caiti controlla scrupolosamente i suoi manometri e strumenti vari, il 1° Av. marc. Aldo Formica sta in ascolto con la cuffia che gli comprime le orecchie e investiga il cielo con atteggiamento circospetto ed indagatore.
Cominciano le operazioni di puntamento, siamo cioè nel momento più delicato della missione, fallendo il quale questa sarà stata inutile.
Tutta l'attenzione dei piloti da questo momento dovrà essere rivolta ad agevolare il compito di Beccia.
Ad un tratto Reale punta improvvisamente l'indice in una certa direzione del parabrezza verso ovest, e dice al Comandante: «Sono nostri o loro?»
Ludovico rivolge l'occhio verso il punto indicato e con Reale riconosce la sagoma di 9 Gloster Gladiator, che avanzano in formazione e si allargano per eseguire l'attacco.
Gli uomini si dispongono alle armi per la lotta. Il Comandante istintivamente vorrebbe manovrare, ma non può, perché la condotta del velivolo deve essere a completo servizio di Beccia che frattanto, inquadrato nel reticolo del traguardo il bersaglio, molla il prima grappolo di bombe, seguito, per imitazione, dai gregari.
Intanto i Gloster hanno già attaccato la pattuglia ed il primo ad essere colpito è il gregario di destra (Ten. Celestino Croci) sicché Beccia, intento ad osservare dalla cabina l'esito del tiro, vede ad un tratto il velivolo anzidetto passargli sotto in picchiata ed invertire la rotta, lasciando dietro di sé una scia di fumo. Si saprà dopo che ha avuto il motore sinistro immobilizzato, l'apparecchio crivellato, mentre tutti e sei i membri dell'equipaggio sono stati colpiti; fra essi il marconista Vincenzo Tecca molto gravemente, tanto da rendere inevitabile l'amputazione di una gamba.
Croci dopo miracoli d'abilità e di resistenza riuscirà a raggiungere fortunosamente l'aeroporto di Tirana, dove l'aeroplano verrà dichiarato fuori uso «per i colpi ricevuti».
Beccia, portatosi subito vicino al Comandante, l'informa di ciò che anche lui ha visto.
Stanno intanto per attraversare un denso strato di nuvole ed il gregario di sinistra, manovrando opportunamente per evitare una collisione, si distacca dal capo pattuglia, che rimane pertanto isolato, giacché l'altra pattuglia, pure essa attaccata, è rimasta notevolmente distanziata.
I Gloster reiterano i loro attacchi, e Leta e Formica rispondono col martellare secco e sincopato delle loro armi.
L'esuberante velocità e le qualità acrobatiche dei Gloster sono tali, rispetto alla lentezza di movimenti dell'S. 81, che qualcuno di essi, quasi per beffa, riesce a compiere intorno al bombardiere, che fa come da perno, un completo giro della morte (looping), al termine del quale si trova già in condizioni di utilmente ripetere attacco.
Beccia è il primo ad essere colpito, e improvvisamente cade riverso accanto ai piloti, crivellato al capo e al petto da una raffica.
Sull'apparecchio ormai si riversa una fitta e continuativa scarica di pallottole che, nonostante l'assordante rombo dei tre motori, riproduce il tipico rumore di una grandinata sopra un tetto di lamiera.
Le mitragliatrici di bordo rispondono agli attacchi, raffiche contro raffiche, il che infonde nell'equipaggio un benefico senso di fiducia. Finché si spara, la sorte è ancora indecisa e rimane un filo di speranza.
Ma perché l'armiere Leta cessa di sparare e scende di torretta? No, non scende, si accascia e rotola giù, emettendo un rivolo di sangue dalla gola.
Povero Leta! Aspettava un bambino, che nascerà infatti qualche giorno dopo, alla vigilia di Natale!
Caiti prende il posto di Leta e ripiglia a sparare. La lotta continua accanita e implacabile.
È ora la volta di Formica che, piegato sulla mitragliatrice in depressione, sta cambiando il caricatore. Lo vedono ad un tratto piegarsi su di un fianco e cadere in un miscuglio di sangue e benzina, che scorre sul pavimento della fusoliera.
Il secondo pilota, Reale, è colpito anche lui, per fortuna lievemente, da una scheggia, e si stringe con le mani una gamba dolorante.
Ludovico s'ingegna a mantenere in volo la cimentata macchina, colpita negli organi di comando, negli strumenti, nei serbatoi, nelle tubazioni, nei motori che danno segni manifesti d'irregolarità funzionale, specie il sinistro, che gira stentamente, lasciando dietro di sé una nera scia di fumo.
E i Gloster continuano ad attaccare!
Contrariamente a ciò che il comune lettore potrebbe pensare, il pilota in quei terribili frangenti è pervaso da una grande calma, che lo sorprende e gli fa quasi paura.
È la calma dei grandi momenti dell'esistenza, quanto il limite fra vita e morte è percepito con una forma di ipersensibilità quasi plastica, e quando di fronte al mistero dell'eterno, forse imminente, ogni atto dell'uomo assume quasi un carattere sacro.
In quei momenti, le cui sfumature psichiche può comprendere appieno solo chi le ha vissute, passato e presente in una misteriosa sintesi sono lì, davanti alla mente di chi li vive, per cui gli avvenimenti più importanti e che più da vicino investono la sua personalità assumono rilievo d'impressionante immediatezza: infanzia, famiglia, figli, responsabilità verso i dipendenti, ecc.
Ludovico aspetta rassegnato il suo turno e pensa che il suo nome uscirà stampato nell'ultima pagina di uno dei prossimi Bollettini, sede del necrologio ufficiale dei Caduti.
La tragica scena che vede intorno a sé gli ricorda l'impressione ricevuta, nei lontani anni dell'Accademia, dalla lettura dell'episodio di Oreste Salomone, ritornato ferito dal raid su Lubiana nel febbraio 1916 col suo secondo pilota Cap. Ballo e l'osservatore Ten. Col. Barbieri, stesi morti nella sforacchiata carlinga del suo Caproni.
Anche lui ha già a bordo tre morti e un ferito e quei dannati caccia seguitano ad attaccare. Riuscirà, come Salomone, a raggiungere la terra amica?
Ricorda anche per un attimo che qualche giorno prima (16 dicembre) è caduto in Libia in analoga situazione il suo amico Col. Mario Aramu, al pari di lui convinto sostenitore, al tempo della Scuola di Guerra Aerea, delle possibilità di difesa autonoma dei bombardieri in pattuglia contro i caccia. Che sia riservata anche a lui, come per una beffa del destino, la stessa sorte di Aramu?
Caiti frattanto, che finora ha sparato dalla torretta in tutte le direzioni, cessa il fuoco e fa segno che ha finito le munizioni. Ad un cenno interrogativo del comandante si accosta ai tre caduti, li osserva e con un gesto espressivo conferma che sono spirati, e che non c'è più niente da fare.
Si ha ora la netta sensazione che fra poco sarà finita per tutti.
Ad un certo momento il fuoco avversario improvvisamente, miracolosamente non si sente più. I Gloster hanno abbandonato la preda, o perché anche essi hanno esaurito le munizioni, o forse perché convinti, dal volo irregolare dell'S. 81 fumante in picchiata, che sia destinato a sfracellarsi sui picchi montagnosi. Nelle relazioni ufficiali inglesi, infatti, il velivolo sarà considerato
abbattuto.
La guida dell'apparecchio diviene sempre più difficile e ad un certo momento Ludovico paventa il pericolo d'un incendio, reso probabile dalla presenza della benzina sgorgata dalle tubazioni colpite. Se divampa l'incendio, non c'è che da affidarsi al paracadute ed il lancio, ora che sono in territorio amico, sarebbe la salvezza sicura per i tre superstiti.
Ma sopraggiunge lo scrupolo di non abbandonare i tre morti che, indubbiamente, per loro che li hanno sotto gli occhi, dormono il sonno eterno, ma che dal grosso pubblico lontano, facile alla critica esigente, potrebbero domani essere considerati soltanto feriti, sia pure molto gravemente, e quindi ancora suscettibili di un teorico aiuto e di una possibilità di salvezza. Bisognerà quindi a qualunque costo portarli a terra assieme con i vivi; e voglia Iddio che ci si faccia!
Prosegue infatti il volo. Un odore acre ed ingrato di benzina e di olio bruciacchiato si diffonde sempre più nella cabina di pilotaggio. Fatto un superficiale controllo, Caiti teme che il carburante non basti, ma si sbaglia.
Dopo un po' tra la nuvolaglia vagante s'intravede il campo di Berat; l'apparecchio vi si dirige e nei suoi pressi inizia la manovra per atterrare.
Il campo è sede di soli reparti da caccia. Gli uomini addetti alla linea, nel vedere il bombardiere malconcio e fumante planare decisamente, danno l'allarme, intuendo quel che sarà avvenuto. L'autoambulanza è subito messa in moto.
Lo stanco e pesante velivolo, raggiunti i limiti del campo, ne sfiora il prato e le sue ruote, ridotte ai soli cerchioni, essendo i pneumatici tutti crivellati, dopo aver sballonzolato per un po', si fermano.
Accade allora ciò che l'equipaggio superstite ha in cuor suo temuto. Lo zampillìo di benzina scaturente dai serbatoi feriti, che in volo è stato polverizzato ed assorbito dall'aria, appena l'apparecchio si arresta, scorrendo lungo il bordo dell'ala va a cadere in piccoli rigagnoli sui tubi roventi dello scappamento. In un attimo si produce una grande fiammata, che avvolge rapidamente tutto il velivolo.
Come uscirne?
Caiti, sgancia la gondola di puntamento e si lascia cadere carponi; striscia come una serpe sotto le fiamme della fusoliera e si allontana da quella torcia immane.
Reale sgancia il tetto mobile della cabina e salta a terra.
Ludovico ha un attimo di perplessità, si volge intorno per rendersi conto della situazione e già le fiamme lo lambiscono, ustionandogli la faccia, quando ode il crepitio delle munizioni rimaste nei caricatori di qualcuna delle mitragliatrici di bordo. Si getta anche lui fuori della cabina, ruzzolando fra carrello ed eliche e slogandosi una spalla. Si rialza e si allontana di corsa.
Verso l'apparecchio frattanto è un accorrere affannoso degli uomini del campo. Ludovico fa cenno di buttarsi a terra, perché a bordo son rimaste alcune bombe non sganciate, che certamente esploderanno, come infatti avviene con una pioggia di schegge, che fortunatamente non provocano alcun ferimento, pur arrivando a danneggiare gli aeroplani decentrati.
Le emozioni però non sono finite.
Caiti è uscito dall'apparecchio senza togliersi il paracadute; nei movimenti incomposti fatti nell'abbandono del velivolo, il cordone dello strappo automatico si è impigliato in un gancio della fusoliera, causando così l'apertura dell'ombrellone di seta.
Il motorista non si è accorto di tutto ciò e mentre corre non si avvede che il paracadute si sfila rapidamente, liberando il complesso dell'ombrellone che striscia sul prato e che il vento, spirante contro il velivolo, gonfia fino a sollevarlo.
Ludovico, appiattito sul terreno, ustionato al viso e dolorante per la lussazione alla spalla, ad un tratto vede questa scena insolita: l'ombrellone del paracadute, facendo da vela, trascina lentamente Caiti, che è svenuto, verso l'apparecchio in fiamme.
Si alza spaventatissimo e, aiutato anche dal personale del campo, riesce ad agguantare le funicelle dell'ombrellone, a disordinare la struttura rigonfia di quest'ultimo, ad ammainarlo, mentre il motorista viene liberato dall'imbracatura.
Le volute del fumo nerastro commisto a fiamme dell'apparecchio, seguitano a diffondersi sul campo, offrendo uno spettacolo terrorizzante.
Reale e Caiti frattanto sono stati raccolti e sistemati nell'ambulanza.
Prima di salirvi, Ludovico guarda ancora per un po' il suo velivolo, sente di lasciare in quelle fiamme rossastre e sinistre brandelli del suo essere assieme con le spoglie dei suoi tre eroici dipendenti; quindi, salito pian piano accanto all'autista, gli fa cenno d'ingranare la marcia.
Non parla; guarda dinanzi a sè con una fissità incupita.
CREDITI
Vincenzo Lioy Gloria senza allori Editrice Associazione Cultura Aeronautica, Roma 1953 II
foto Archivio Centrale dello Stato