Dalla neutralità al Patto di Londra - 1

 DALLA NEUTRALITÀ AL PATTO DI LONDRA

Prof. Rodolfo Mosca (Università di Firenze)

 

La storia dell'azione diplomatica dell'Italia durante la prima­ guerra mondiale ha, come suo punto di partenza e di spinta, il cosi­detto patto di Londra: un documento redatto in forma di « memo­randum » sottoscritto appunto a Londra, per l'Italia dall'ambascia­tore presso il governo britannico Imperiali, per la Gran Bretagna dal ministro degli esteri Grey, per la Russia dall'ambasciatore Benckendorff e per la Francia dall'ambasciatore Cambon. Il patto era a sua volta il frutto di un laborioso negoziato, del quale è necessario ri­chiamare le grandi linee ispiratrici e alcuni nodi che esso dovette sciogliere, se si vuole intendere adeguatamente il comportamento ge­nerale della politica estera italiana nei tre anni e mezzo in cui il paese partecipò al conflitto: le sue iniziative, i suoi obiettivi, i suoi limiti.

 

Il presidente del consiglio del tempo, Antonio Salandra, scrisse nelle sue memorie che all'indomani del 2 agosto 1914, giorno nel quale fu ufficialmente dichiarata la neutralità italiana di fronte al divampare della guerra in tutta l'Europa, l'Italia non aveva alterna­tiva diversa da quella di persistere nella neutralità o di partecipare alla guerra a fianco della Triplice Intesa contro i suoi stessi alleati della Triplice Alleanza. Secondo Salandra l'alternativa cessò di esi­stere, e perlomeno risultò così compromessa da non esser più una: vera alternativa, soltanto a partire dal 9 dicembre. Quel giorno, il nuovo ministro degli esteri Sidney Sonnino, succeduto a di San Giuliano morto il 17 ottobre precedente, ordinò al duca d'Avarna, ambasciatore italiano a Vienna, di far presente al governo asburgico, le « aspirazioni nazionali » che l'Italia riteneva dovessero essere sod­disfatte come corrispettivo degli eventuali guadagni che l'Austria-Un­gheria avrebbe ottenuto con la guerra a spese della Serbia. Per Sa­landra « furono questi i primi passi decisivi verso l'intervento ». Con ciò egli intendeva significare che si trattava di una richiesta che l'im­pero asburgico avrebbe rifiutato. E il rifiuto avrebbe dato all'Italia l'alibi e la giustificazione morale e diplomatica per abbandonare la Triplice Alleanza e passare nel campo avverso.

 

In realtà, la data d'inizio dell'azione diplomatica, che doveva portare l'Italia all'intervento in guerra a fianco della Gran Bretagna, della Russia e della Francia il 24 maggio 1915, non è il 9 dicembre 1914. Essa risale al momento nel quale la Gran Bretagna, dopo aver resistito per molti giorni alle sollecitazioni di Pietroburgo e di Parigi, dichiarò finalmente la guerra alla Germania. Ciò avvenne il 4 agosto. Cinque giorni dopo, l'allora ministro degli Esteri di San Giuliano metteva per iscritto e sottoponeva alla meditazione di Salandra, evi­dentemente a conclusione di precedenti scambi di vedute orali, il primo abbozzo di quello che, nove mesi dopo, sarebbe stato il patto di Londra. L'intervento contro gli antichi alleati, dunque, era deciso almeno come direttiva di massima; e non dava più adito ad alcuna alternativa. Ma perché non c'era già più la possibilità di una scelta alternativa, secondo i due massimi responsabili della politica estera italiana? Una ragione è adombrata nell'appena accennato accosta­mento delle date tra l'intervento inglese e il documento del di San Giuliano. L'Italia non poteva non fare i conti con la Gran Bretagna nel Mediterraneo. Lo avevano saputo tanto Cavour come Palmerston nell'atto in cui si compiva l'unità italiana. Lo sapeva Mancini quando nel 1882 stipulò la Triplice Alleanza, e pretese e ottenne da parte della Germania e dell'Austria-Ungheria che l'alleanza non fosse di­retta contro la Gran Bretagna. Lo sapevano tutti i ministri degli esteri che gli succedettero fino a di San Giuliano. E la ragione era ovvia. Premesso che l'Italia è immersa nel Mediterraneo e che le è necessaria la libera e piena disponibilità di quelle acque, condizione prima della sua indipendenza e del suo avanzamento civile, la politica estera italiana doveva non perdere di vista due fatti: che il Mediter­raneo era allora controllato dalla flotta britannica, da Gibilterra al canale di Suez, con basi intermedie come Malta e Cipro, e che la li­bertà del Mediterraneo era un interesse vitale anche per la Gran Bretagna. Ne derivava l'esigenza di una permanente ricerca del mi­gliore allineamento possibile con la Gran Bretagna.

 

Un'altra ragione, in conseguenza della quale non c'era alternativa fin da quando il governo di Vienna aveva inviato l'ultimatum alla Serbia, e che si sommava alla precedente, era da ricercare, apparente­mente, tra le pieghe dell'art. 7 della Triplice Alleanza. Era l'articolo dei « compensi » territoriali introdotto nella Triplice del 1887. Nel caso che l'impero absburgico, in conseguenza della guerra scoppiata in Europa all'inizio d'agosto 1914, si fosse ingrandito a spese della Serbia, o avesse comunque alterato a proprio favore l'equilibrio esistente nei Balcani e nell'Adriatico, l'Italia riteneva di aver diritto a reclamare adeguati e proporzionali compensi. E naturalmente pen­sava al Trentino, che era l'obiettivo invano perseguito dal 1866. Ma il governo di Vienna aveva già dichiarato, fin dal 22 maggio 1874, con una comunicazione ufficiale trasmessa al ministro degli esteri italiano Visconti Venosta, di essere disposto a negoziare con il go­verno di Roma qualunque accordo relativo a sue eventuali aspira­zioni territoriali, purché non riguardassero le provincie dell'impero asburgico abitate da popolazioni italiane. Quel rifiuto non era mai venuto meno. Anzi esistevano buone ragioni per credere che valesse, nell'estate 1914, anche più imperiosamente di prima. Dunque, se ora l'Austria-Ungheria alterava, con la guerra alla Serbia, lo status quo contemplato (anche se dall'Austria ormai contestato come valido ter­mine di riferimento) dall'art. 7 della Triplice, e insieme rifiutava il solo compenso ritenuto allora dall'Italia necessario e sufficiente, la cessione del Trentino, il governo italiano non poteva certo prendere in considerazione né l'ipotesi della partecipazione alla guerra degli imperi centrali né quella della neutralità. La partecipazione a fianco, degli antichi alleati, in caso di vittoria, avrebbe solo giovato alla Germania e all'Austria-Ungheria. Il compimento dell'unità nazionale, il conseguimento di un'adeguata sicurezza strategica sulle Alpi e nell'Adriatico sarebbero diventati obiettivi in ogni caso irraggiungibili. Ma nemmeno la neutralità avrebbe giovato. Posto che l'Italia era alleata agli imperi centrali da 32 anni, puntare sulle inadempienze contrattuali dell'Austria-Ungheria, anche se indiscutibili, per rima­nere fuori dalla lotta costituiva un fatto politicamente grave. Esso avrebbe pesato sicuramente sulle future relazioni tra Roma, Berlino e Vienna, sia che gli austro-tedeschi vincessero, sia che perdessero, dal momento che non avrebbero mancato di cercare di vendicarsi, mentre i vincitori, le potenze dell'Intesa, non avrebbero avuto un particolare interesse a proteggere un'Italia rimasta neutrale. La ovvia, previsione nel caso del mantenimento della neutralità, sul piano in­ternazionale era in conseguenza l'isolamento totale del paese, proprio com'era già successo nel 1878, in occasione del congresso di Berlino.

 

La neutralità dichiarata il 2 agosto 1914costituiva, per la poli­tica estera italiana, nient'altro che un passaggio obbligato, non una scelta definitiva. Ma la scelta era solo nel senso della partecipazione alla guerra contro gli antichi alleati. Ciò avrebbe permesso di man­tenere l'allineamento con la Gran Bretagna nel Mediterraneo e di averla perciò dalla propria parte, insieme con la Francia e la Russia, nel reclamare l'unione all'Italia di tutti gli italiani irredenti, non solo quelli del Trentino. Unicamente per questa via si sarebbe concluso, il ciclo del Risorgimento; e appunto per ciò la guerra contro l'Austria sarebbe stata anche l'ultima guerra risorgimentale. Così, l'11 ago­sto 1914 di San Giuliano poteva già telegrafare all'ambasciatore Imperiali a Londra: « il governo italiano ritiene possibile che debba de­cidersi a partecipare alla guerra insieme a Gran Bretagna Russia e Francia ».

 

Il 25 settembre, quasi alla vigilia della morte, di San Giuliano rinviò, per averne il parere, un memorandum agli ambasciatori ita­liani a Parigi, Tittoni, a Londra, Imperiali, e a Pietroburgo, Canotti. Quel documento ampliava e perfezionava l'abbozzo del 9 agosto: il secondo passo nel processo di elaborazione del patto di Londra. Ma prima di prenderlo in considerazione, è necessario leggere un altro documento che lo precede nel tempo, un telegramma diretto da di San Giuliano a Imperiali il 16 settembre. Esso definisce le ragioni, che sono in pari tempo i limiti, dell'azione diplomatica che portò all'intervento e dei suoi successivi sviluppi attraverso gli anni di guerra, fino a Vittorio Veneto. Vi sono tre proposizioni nel telegram­ma, da ritenere attentamente. La prima muove dall'affermazione che l'Italia non può assistere indifferente alla

« minaccia che ai suoi vi­tali interessi adriatici risulta dalla politica austro-ungarica ». Perciò

« non potremo, aggiunge il ministro, dall'incubo della minaccia au­striaca passare all'incubo della minaccia slava ». La seconda dice: « per una personale norma di condotta il nostro avversario è l'Au­stria-Ungheria, e non la Germania ». La terza: « Non abbiamo alcun interesse ad altri campi dell'attuale conflitto, come per esempio l'in­dipendenza del Belgio ». Dunque, nei confronti dell'Adriatico il limite è rappresentato dal timore di contribuire alla sostituzione degli slavi agli austro-ungheresi; nei confronti degli alleati della Triplice Allean­za, l'intervento previsto tende ad escludere la Germania; nei con­fronti della guerra europea come tale, l'Italia non vi riconosce alcun interesse da difendere. Questi passi sono preziosi, con le loro espli­cite indicazioni, per valutare sul piano internazionale la reale ampiez­za della politica d'intervento e di partecipazione alla guerra. Essa infatti non volle mai allargare il proprio orizzonte, con le conseguenze che poi si videro alla conferenza della pace. E ciò resta vero anche se, nel 1916, come vedremo, l'Italia dichiarerà la guerra alla Germania.

 

Ma si deve dire che nel memorandum del di San Giuliano del 25 settembre non tutto appariva ancora definito. Qualche margine di dubbio sussiste. Così, dopo aver precisato che l'Italia intendeva chie­dere ai suoi futuri alleati di riconoscerle il confine segnato dalle Alpi da prolungare « come minimo sino al Quarnaro », ossia Trentino Alto Adige Venezia Giulia e Istria fino a ridosso di Fiume, il ministro si domandava: conviene rivendicare la Dalmazia « tenendo presente il pericolo di futuri gravi conflitti cogli stati slavi? ». E conviene, ag­giungeva, rivendicare le isole che si stendono lungo le coste dalmate?

 

Sono domande capitali per la storia del patto di Londra e dell'azione diplomatica italiana durante la guerra. Da esse si deduce che nello spirito del di San Giuliano non è ancora spenta la consapevolezza che la questione adriatica può e deve essere risolta, in via di prin­cipio, nel rispetto degli interessi di tutte le parti, facendo di quel rispetto un termine di costante rifornimento. Riecheggia, in quelle domande, l'eco sia pure affievolita, dell'ispirazione genuina del moto risorgimentale. Di quella eco, non si ritroverà più traccia nel patto di Londra. C'erano però, in pari tempo, le contraddizioni insuperabili che avrebbero tormentato poi la diplomazia italiana anche prima della conclusione del conflitto. In primo luogo, quella derivante dall'inevitabile difficoltà di conciliare principio di nazionalità ed esigenza di sicurezza; in secondo luogo, e più grave, quella derivante dal reclamare per sé la libertà nell'Adriatico negandola in sostanza, anche se non nella forma, agli altri. È vero che Fiume non era presa in considerazione nel novero delle richieste contenute nel memorandum; ma l'acquisto di Valona, che si reclamava suggerendo la spartizione dell'appena nata Albania, se pareggiava un conto strategico 1'indifendibilità delle coste adriatiche occidentali rispetto a quelle orientali), distruggeva la libertà dell'Adriatico, nel senso che la assi­curava ad uno solo dei rivieraschi, appunto l'Italia. Perciò, molto più di quanto richiedesse la legittima esigenza di sicurezza italiana in quel mare. Ne risulta che già dall'estate-autunno 1914 la politica este­ra italiana si impiglia nella questione adriatica e ne rimane prigioniera senza più scampo. Essa appare, fin dall'origine, squilibrata e contratta, e perciò abbastanza facilmente vulnerabile, anche se ancora con qualche residua perplessità. L'avvento di Sonnino alla Con­sulta all'inizio di dicembre del 1914 non modifica, anzi irrigidisce questa situazione. Sonnino semplicemente cancella gli interrogativi di San Giuliano. Il patto di Londra non ne reca, infatti, la minima traccia.

 

Aperte il 4 marzo 1915, attraverso il canale segreto della diplo­mazia britannica, le trattative ufficiali per l'intervento a fianco dell'Intesa procedettero quasi esclusivamente accentrate sui vari aspetti della questione adriatica. Fu sopratutto un laborioso e spesso me­schino mercanteggiamento con il governo russo, che si preoccupava di patrocinare gli interessi serbi. Il 27 marzo Sonnino consentiva alla rinuncia di Spalato, ma insisteva per il possesso della penisola di Sabbioncello e delle isole antistanti a Spalato. Di fronte all'opposi­zione russa, il primo ministro britannico, Asquith, propose in via compromissoria l'accettazione delle richieste italiane, meno Spalato e la penisola di Sabbioncello, e la neutralizzazione di tutta la costa dalmata, quindi tanto il tratto da attribuire all'Italia quanto quello da attribuire alla Serbia, da Zara al fiume Narenta e alle Bocche di Cattaro. Nuova opposizione russa e non meno netto rifiuto di Son­nino. Per evitare un'ulteriore tensione del negoziato, Salandra in­dusse Sonnino a non insistere per la penisola di Sabbioncello, non indispensabile per il pieno controllo dell'Adriatico. In cambio, le potenze dell'Intesa abbandonarono la proposta della generale neutra­lizzazione della costa adriatica, consentendo alla parziale neutraliz­zazione della costa non attribuita all'Italia. Nella prima metà d'aprile le difficoltà principali caddero. Il 26 veniva firmato a Londra il me­morandum (o « patto ») che fissava in modo definitivo le condizioni alle quali l'Italia si impegnava ad intervenire in guerra, entro un mese dalla firma. Il patto di Londra si rifaceva al precedente storico del Regno italico creato da Napoleone I nel 1805 e poi ampliato nel 1810 fino a raggiungere, a settentrione, lo spartiacque alpino. L'art. 4 stabiliva perciò che il futuro confine d'Italia sarebbe passato per il Brennero e sviluppandosi ad oriente, lungo la displuviale alpina, avrebbe raggiunto il golfo di Fiume, senza tuttavia comprendervi quella città, da attribuirsi insieme con le isole di Veglia, Arbe e altre isole minori alla Croazia e per essa all'impero asburgico. All'Italia andavano attribuite, con l'art. 5, la provincia della Dalmazia nei suoi confini amministrativi e le isole situate a nord e a ovest delle sue coste. L'art. 6 prevedeva l'estensione della sovranità italiana su Va­lona, con l'isola di Saseno, mentre l'art. 7 prevedeva che se avesse ottenuto i confini contemplati agli articoli 4, 5 e 6, l'Italia avrebbe acconsentito allo smembramento del residuo stato albanese a bene­ficio della Serbia, del Montenegro e della Grecia, fatto salvo « un pic­colo stato autonomo neutralizzato », sotto protettorato italiano. Ma il patto di Londra non contemplava soltanto la soluzione ottima dei problemi connessi con la chiusura del ciclo risorgimentale e con la sicurezza del paese. Con il passaggio di Rodi e del Dodecaneso sotto la sovranità dell'Italia e il riconoscimento degli interessi italiani nella Turchia d'Asia (artt. 8 e 9) esso assicurava la difesa dell'equilibrio nel Mediterraneo orientale esistente allo scoppio della guerra, fondato sul presupposto della sopravvivenza dell'Impero ottomano. Ma il governo italiano aveva badato a cautelarsi anche nell'ipotesi di una sua dissoluzione parziale o totale, con la conseguente apparizione dei russi a Costantinopoli e dei francesi in Asia minore, sulle coste del Libano e della Siria. Perciò sempre all'art. 9 prevedeva il diritto dell’Italia a partecipare alla spartizione dell'eredità turca in Asia. Per quanto in termini assai vaghi e insieme riduttivi della portata delle sue richieste, l'Italia si era poi preoccupata di salvaguardare anche il rapporto esistente in Africa tra essa e i nuovi alleati: di qui l'art. 13 relativo agli eventuali compensi nel caso di una liquidazione delle colonie tedesche a beneficio della Gran Bretagna e della Francia. Infine l’art. 15 impegnava i contraenti, su richiesta dell’Italia, a negare la partecipazione della Santa Sede alla conferenza della pace.
La « questione romana », per la Santa Sede, non era chiusa in via definitiva, mentre il governo italiano la considerava, da parte sua, liquidata una volta per sempre il 20 settembre 1870.

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