D'Annunzio e il Maggio Radioso - La Legge di Roma

 LA LEGGE DI ROMA

 

Arringa al popolo di Roma accalcato nelle vie e acclamante, la sera del 12 maggio 1915           

 

Arringa al popolo di Roma in tumulto, la sera del 13 maggio,1915           

 

L'accusa publica pronunziata nell'adunanza del popolo, la sera del 14 maggio 1915

 

Messaggio agli studenti dell'Ateneo romano adunati per deliberare la violenza (15 maggio 1915)

 

Parole dette nella Casa degli Artisti, la sera del 16 maggio 1915

 

Dalla ringhiera del Campidoglio il 17 maggio 1915

 

Nell'andare al Parlamento, per la grande Assemblea del 20 maggio 1915

 

Nell'uscire dal Parlamento, dopo il vóto, la sera del 20 maggio 1915





LA LEGGE DI ROMA

 

 

 

 

 

O Roma, o Roma, in te sola,

nel cerchio delle tue sette cime,

le discordi miriadi umane

troveranno ancor l'ampia e sublime unità.

Darai tu il novo pane dicendo la nova parola.

 

DELLE LAUDI, LIBRO II

 

 

 

 

 

ARRINGA AL POPOLO DI ROMA ACCAL­CATO NELLE VIE E ACCLAMANTE,

LA SERA DEL XII MAGGIO MCMXV.

 

ROMANI, Italiani, fratelli di fede e d'ansia, amici miei nuovi e compagni miei d'un tempo, non a me questo saluto d'ar­dente gentilezza, di generoso riconosci­mento. Non me che ritorno voi salutate, io lo so; ma lo spirito che mi conduce, ma l'amore che mi possiede, ma l'idea che io servo.

Il vostro grido mi sorpassa, va più ol­tre, va più alto. Io vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messag­gio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello.

Dalle mura aureliane stasera la luce non s'è partita, non si parte. Il chiarore s'in­dugia a San Pancrazio. Or è sessantasei anni (contrapponiamo la gloria all'onta) in questo giorno, il Duce di uomini ricon­duceva da Palestrina in Roma la sua Le­gione predestinata ai miracoli di giugno. Or è cinquantacinque anni (contrapponia­mo l'eroismo alla pusillanimità), in questa sera, in quest'ora stessa, i Mille, in marcia da Marsala verso Salemi, sostavano; e a pie' de' lor fasci d'armi mangiavano il loro pane e in silenzio si addormentavano.

Avevano in cuore le stelle e la parola del Duce, che è pur viva e imperiosa oggi a noi: « Se saremo tutti uniti, sarà facile il nostro assunto. Dunque, all'armi ! »

Era il proclama di Marsala; e diceva ancóra, con rude minaccia: «Chi non s'arma è un vile o un traditore. »

Non stamperebbe dell'uno e dell'altro marchio, Egli il Liberatore, se discendere potesse dal Gianicolo alla bassura, non infamerebbe Egli così quanti oggi in palese o in segreto lavorano a disarmare l'Italia, a svergognare la Patria, a ricac­ciarla nella condizione servile, a rinchio­darla su la sua croce, o a lasciarla agoniz­zare in quel suo letto che già talvolta ci parve una sepoltura senza coperchio?

C'è chi mette cinquant'anni a morire nel suo letto. C'è chi mette cinquant'anni a compire nel suo letto il suo disfacimento.

E possibile che noi lasciamo imporre dagli stranieri di dentro e di fuori, dai nemici domestici e intrusi, questo genere di morte alla nazione che ieri, con un fremito di potenza, sollevò sopra il suo mare il simulacro del suo più fiero mito, la statua della sua volontà vera che è vo­lontà romana, o cittadini?

Come ieri l'orgoglio d'Italia era tutto volto a Roma, così oggi a Roma è volta l'angoscia d' Italia; ché da tre giorni non so che odore di tradimento ricomincia a soffocarci.

No, noi non siamo, noi non vogliamo essere un museo, un albergo, una villeg­giatura, un orizzonte ridipinto col blu di Prussia per le lune di miele internazio­nali, un mercato dilettoso ove si compra e si vende, si froda e si baratta.

Il nostro Genio ci chiama a porre la nostra impronta su la materia rifusa e confusa del nuovo mondo. Ripassa nel nostro cielo quel soffio che spira nelle terzine prodigiose in cui Dante rappre­senta il volo dell'aquila romana, o citta­dini, il volo dell'aquila vostra.

Che la forza e lo sdegno di Roma ro­vèscino alfine i banchi dei barattieri e dei falsarii. Che Roma ritrovi nel Fòro l'ardi­mento cesariano. « Il dado è tratto. » Get­tato è il dado su la rossa tavola della terra.

Il fuoco di Vesta, o Romani, io lo vidi ieri ardere nelle grandi acciaierie liguri, nelle fucine che vampeggiano di giorno e di notte, senza tregua. L'acqua di Giuturna, o Romani, io la vidi ieri colare a temprar piastre, a raffreddar le frese che lavorano l'anima dei cannoni.

L' Italia s'arma, e non per la parata burlesca ma pel combattimento severo. Ode da troppo tempo il lagno di chi lag­giù oggi soffre la fame del corpo, la fame dell'anima, lo stupro obbrobrioso, tutti gli strazìi.

 

Calpesta dal barbaro atroce,

o Madre che dormi, ti chiama

una figlia che gronda di sangue.

 

Or è cinquantacinque anni, in questa. sera, in quest'ora stessa, i Mille s'ad­dormentavano per risvegliarsi all'alba e per andare avanti, sempre avanti, non contro il destino ma verso il destino che ai puri occhi loro faceva con la luce una sola bellezza.

Si risvegli Roma domani nel sole della sua necessità, e getti il grido del suo di­ritto, il grido della sua giustizia, il grido

della sua rivendicazione, che tutta la terra attende, collegata contro la barbarie.

« Dov'è la Vittoria ? » chiedeva il poeta giovinetto caduto sotto le vostre mura, mentre anelava di poter morire su l'alpe orientale, in faccia all'Austriaco.

O giovinezza di Roma, credi in ciò ch'ei credette; credi, sopra tutto e sopra tutti, contro tutto e contro tutti, che veramente Iddio creò schiava di Roma la Vittoria.

Com'è romano forti cose operare e patire, così è romano vincere e vivere nella vita eterna della Patria.

Spazzate dunque, spazzate tutte le lordure, ricacciate nella Cloaca tutte le putredini!

 

Viva Roma senza onta !

Viva la grande e pura Italia!

 

 

 

 

 

ARRINGA AL POPOLO DI ROMA IN TU­MULTO,

LA SERA DEL XIII MAGGIO MCMXV.

 

COMPAGNI, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di con­cioni ma di azioni, e di azioni romane.

Se considerato è come crimine l'inci­tare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo.

Se invece di allarmi io potessi armi get­tare ai risoluti, non esiterei, né mi par­rebbe di averne rimordimento.

Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a per­dere l' Italia.

Tutte le azioni necessarie assolve la legge di Roma.

 

Ascoltatemi, Intendetemi. Il tradimen­to è oggi manifesto. Non ne respiriamo soltanto l'orribile odore, ma ne sentiamo già tutto il peso obbrobrioso. Il tradimento si compie in Roma, nella città dell'anima, nella città di vita! Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino. In Roma si compie l'assassinio. E se io sono il pri­mo a gridarlo, e se io sono il solo, di que­sto coraggio voi mi terrete conto domani. Ma non me ne importa.

 

Udite. Ascoltatemi. Non è da difendere la Patria sola, quella eccelsa spiritualità che di sé c'infiamma e ci accresce, quella numerosa bellezza che dal silenzio dei nostri morti s' inarca verso la melodia dei nascituri ed è sul nostro capo il vero firmamento. Noi dobbiamo, noi vogliamo difendere anche noi stessi, noi uomini di carne e di pena, noi che pensiamo e lavoriamo, noi che andiamo per la vasta terra, noi che siamo una gente fra le genti.

Udite. Noi siamo sul punto d'essere venduti come una greggia infetta. Su la nostra dignità umana, su la dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia d'un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore, nome da nascondere, nome da averne bruciate le labbra.

Intendete? Avete inteso? Questo vuol fare di noi il mestatore di Dronero, intruglio osceno, contro il quale un gen­tiluomo di chiarissimo sangue romano, Onorato Caetani, or è molt'anni, scoccò un epigramma crudele, ma di giustezza e profondità maravigliose: da non ripe­tere, per tema di offendere i Bolognesi e due bestie innocenti. Questo vuol fare di noi quell'altro ansimante leccatore di su­dici piedi prussiani, che abita qui presso; contro il quale la lapidazione e l'arsione, sùbito deliberate e attuate, sarebbero as­sai lieve castigo. Questo di noi vuol fare la loro seguace canaglia.

Questo non faranno. Voi me ne state mallevadori, o Romani. Giuriamo, giu­rate che non prevarranno.

 

Il vostro sangue grida. La vostra ribel­lione rugge.

Finalmente voi vi ricordate della vostra origine!

La storia vostra si fece forse nelle bot­teghe dei rigattieri e dei cenciaiuoli? Le bilance della vostra giustizia crollavano forse dalla banda ov'era posto un tozzo da maciullare, un osso da rodere? Il vo­stro Campidoglio era forse un banco di barattatori e di truffardi? La gloria vi s'af­faccendava e ciangottava da rivendugliola?

Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi ! Spezzate le false bilance!

Stanotte su noi pesa il fato romano; sta­notte su noi pesa la legge romana.

Accettiamo il fato, accettiamo la legge. Imponiamo il fato, imponiamo la legge.

Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio, ma con la spada lunga.

Però col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manu­tengoli e i mezzani, i leccapiatti e i lec­cazampe dell' Ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quinte fa il grosso Giove trasformandosi a volta a volta in bue tenero e in pioggia d'oro. Codesto servi­dorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno. I più ma­neschi di voi saranno della città e della salute publica benemeritissimi.

Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, pone­tevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una mi­lizia vigilante.

Questo vi chiedo. Questo è necessario. È necessario che non sia consumato in Roma l'assassinio della Patria. Voi me ne state mallevadori, o Romani.

Viva Roma vendicatrice!

 

 

 

 

 

L'ACCUSA PUBLICA PRONUNZIATA NEL­L'ADUNANZA DEL POPOLO

LA SERA DEL XIV MAGGIO MCMXV.

 

UDITE. Udite. Gravissime cose io vi dirò, da voi non conosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in piedi, tutti.

Noi siamo qui adunati per giudicare un delitto di alto tradimento e per denun­ziare al disprezzo e alla vendetta dei buoni cittadini il colpevole, i colpevoli.

Queste che proferisco non sono enfiate parole, ma sono la netta determinazione di un fatto avverato.

Il governo d'Italia, quello che iersera rassegnò il suo ufficio nelle mani del Re, aveva abolito il 4 di maggio, alla vigilia della sagra di Quarto, il trattato della Tri­plice Alleanza. Lo aveva dichiarato, nei riguardi dell'Austria, decaduto e nullo. Della formula stessa io posso affermare l'esattezza. Ripeto: decaduto e nullo.

Il governo d' Italia, quello che iersera rassegnò il suo ufficio nelle mani del Re, aveva in conseguenza preso accordi precisi con un altro gruppo di nazioni, im­pegni gravi, definitivi, rafforzati da uno scambio di piani strategici, da un disegno di azione militare combinata.

Questo è vero, questo è inoppugnabile. Di questo io ebbi comunicazione certa, prima di lasciare la Francia, dove ufficiali del nostro stato maggiore e della nostra marina erano giunti e operavano. Dun­que, da una parte trattato abolito, dall'altra accordo definito. Rivendicato l'onore del paese da una parte, vincolato l'onore del paese dall'altra. La « fusione magna­nima », la quale fu augurata a Quarto, era per compiersi. I dissidii si pacifica­vano. La necessità ideale aveva ragione d'ogni miseria politica. L'esercito era vo­lonteroso e fidente. Esempi di virtù ci­vica cominciavano già a splendere sul tumulto sedato. Il buon fermento faceva già levare la massa inerte.

Ed ecco lo sforzo doloroso di mesi e mesi interrotto da un'aggressione improv­visa e ignobile. Voi tutti conoscete le cause e i procedimenti. Questa aggres­sione è inspirata, instigata, aiutata dallo straniero. È fatta da un uomo di governo italiano, da membri del Parlamento ita­liano, in commercio con lo straniero, in servizio dello straniero, per avvilire, per asservire, per disonorare 1' Italia a vantag­gio dello straniero.

Questo è palese, questo è inoppugnabile.

Udite. Il capo dei malfattori, la cui ani­ma non è se non una gelida menzogna articolata di pieghevoli astuzie in quella guisa che il tristo sacco del polpo è munito d'abili tentacoli, il conduttore della bassa impresa conosceva l'abolizione del primo trattato, conosceva la definizione del nuo­vo, l'una e l'altra compiute col consenso del Re.

Egli dunque tradisce il Re, tradisce la Patria; contro il Re, contro la Patria serve lo straniero. Egli è colpevole di tradimen­to, non per un modo di dire ingiurioso, non per eccesso di frase polemica, ma in realtà, ma in verità, secondo la figura nota di esso delitto.

Questo noi dobbiamo dimostrare al paese, questo dobbiamo stampare nella coscienza della nazione.

Udite. Udite. La Patria è in pericolo, la Patria è in punto di perdimento. Per salvarla da una ruina e da una ignominia irreparabili, ciascuno di noi ha il dovere di dare tutto sé stesso e d'armarsi di tutte le armi.

Un ministero formato dal signor Bue­low sembra non avere l'approvazione del Re d'Italia. Ma i grassi e magri domestici del signor Buelow non si rassegneranno. Finché non sieno murati nelle lor basse cucine e cantine, essi cercheranno di in­tossicare la vita italiana, di contaminare fra noi ogni cosa bella e potente.

Per ciò, ripeto, ogni buon cittadino è soldato contro il nemico interno, senza tregua, senza quartiere. Se anche il san­gue corra, tal sangue sia benedetto come quello versato nella trincea.

Sarà il Parlamento d' Italia riaperto il 20 di maggio? Il 20 di maggio è l'anni­versario della portentosa marcia garibal­dina sul Parco.

Celebriamolo precludendo l'ingresso agli sguatteri di Villa Malta e ricacciandoli ver­so il lor dolciastro padrone.

Nel Parlamento italiano gli uomini li­beri, senza laide mescolanze, proclameran­no la libertà e l'integrazione della Patria.

 

 

 

 

 

MESSAGGIO AGLI STUDENTI DELL'ATE­NEO ROMANO

ADUNATI PER DELIBERARE LA VIOLENZA. XV MAGGIO MCMXV.

 

MIEI giovani amici, sono impedito di venire stamani tra voi, e me ne dolgo. Ma certo, a sollevare il vostro coraggio, ad armare la vostra vo­lontà, sarà tra voi stamani il puro spirito di quel vostro compagno che « l'Angelo della Forca sempiterna » spense di morte infame, nei più crudi tempi di quel servag­gio ignominioso dai traditori della patria rappresentato oggi come la sola salute no­stra ! Non vi apparisca egli come livido fan­tasma, sì bene come fiamma inespugnabile.

Oggi è l'anniversario della più bella battaglia garibaldina, è l'anniversario di Calatafimi, di una fra le più fulgide gesta italiane. Di essa il Duce soleva dire: « Se nel punto del trapasso voi mi vedrete sor­ridere, amici, pensate che il ricordo di Calatafimi mi risale dal cuore con l'ultimo palpito. »

A quest'ora i Mille occupavano l'altura detta del Pianto Romano, avendo puntato i cannoni su la via consolare. Garibaldi mandò uno di voi, uno studente ventenne dell'Ateneo pisano, verso l'alfiere per dirgli: « Che salga sul poggio più alto, con la bandiera, e che la dia tutta al vento! »

Anche oggi, con la medesima voce magnetica, non dà egli ai più animosi di voi il medesimo comando?

Ma, perché egli risorridesse, bisognerebbe celebrare questo anniversario con la cacciata del truffatore che vuol vendere l' Italia e del mezzano che la vuol

comperare. Bisognerebbe oggi purificare delle due infezioni il cielo di Roma.

Come debbono esser tristi i giovani soldati d' Italia! Invece di marciare e di cavalcare su la via di Vienna, sono umiliati nell'onta di difendere i covi dei traditori sbigottiti.

Oggi è l'anniversario della battaglia sublime. Io non vi dirò se non quel che già dissi ai vostri compagni di Genova: « Appiccate il fuoco! Siate gli incendiarii

intrepidi della grande Patria! »

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE NELLA CASA DEGLI ARTISTI,

LA SERA DEL XVI MAGGIO MCMXV.

 

IN QUESTI giorni di tumulto vitale, in questi giorni di milizia ideale, in cui ogni buon cittadino si sente soldato prima della guerra, io ho accolto l'invito dei miei vecchi e nuovi compagni d'arte per la certezza di trovare anche qui un focolare di ardore civico.

Lode a voi! Primi fra tutti in Italia, fervidi fra tutti, voi levaste il grido contro le orrende distruzioni barbariche. Voi palpitaste di dolore e di sdegno quando su la sublime Cattedrale di Francia, edificata e ornata da secoli d'amore e di speranza, s'abbatté la stupida ferocia degli invasori.

Ebbene, o amici, o compagni, io vi dico che l'arte vera è inviolabile, che la vera bellezza è inconsumabile. Dalle fondamenta scosse, dalle volte fendute, l'antico pensiero ritorna con la purità originaria al popolo rinnovato. Nel vano della grande Rosa ora s'affaccia il volto divinamente trasfigurato della Nazione sanguinante.

E, in verità, sembra che la pietra angolare della nova coscienza francese debba esser tagliata in un di quei blocchi.

Alla vigilia di un evento che deve ri­creare la nostra unità, salutiamo le potenze eterne della gente latina. Ella è l'artefice chiara delle stirpi confuse. In lei soltanto la materia immensa e incandescente della nova vita troverà i grandi conii perfetti. Ella soltanto, dopo la lotta e dopo la vit­toria, ridonerà al mondo lo stampo eroico dell'uomo.

L'antica arte aveva dato agli dei gli attributi umani, la libertà e la coscienza; all'uomo l'attributo degli dei, 1' immorta­lità. Un Elleno aveva deposto nel tempio di Delfo, tra le statue divine, uno sche­letro di bronzo esattamente costruito. Egli non sapeva forse di aver sollevato sul pie­distallo il modello del mondo, la compiuta bellezza fatta di logica necessità.

La futura arte latina rinnoverà, consa­pevole, quella consacrazione dell'Elleno; poiché l'ossatura umana, o pittori, o sta­tuarii, o architetti, macchina meravigliosa fra tutte, ordinata e congegnata in ogni sua parte alla sua destinazione terribile, ci significa in silenzio la parola della più certa gioia, della più diritta azione, la parola di oggi, o artisti d'Italia, la parola di domani: Apprendi a considerar bello ciò che è necessario.

Prima che il sole di domani tramonti (il 17 di maggio i Mille da Calatafimi partirono verso l'espugnazione di Palermo regia), prima che la notte occupi i Fòri e gli Archi, splendendo ancóra sul Quiri­nale i due Cavalieri gemelli, i due divini combattenti di Regillo, bisogna che ces­sino gli estenuanti indugi, bisogna che la sentenza della risoluzione estrema sia pro­nunziata.

Da questa sede romana dell'arte, da questo asilo delle Muse geniali, augu­riamo alla nostra bella Vittoria latina il più lungo volo!

 

 

 

 

 

DALLA RINGHIERA DEL CAMPIDOGLIO

IL XVII DI MAGGIO MCMXV.

 

ROMANI, voi offriste ieri al mondo uno spettacolo sublime. Il vostro immen­so ordinato corteo dava imagine delle an­tiche pompe che qui si formavano nel tempio del Dio Massimo e accompagna­vano pel clivo capitolino le statue insigni collocate su i carri. Ogni via, dove tanta forza e tanta dignità passavano, era una Via Sacra. E voi accompagnavate, eretta sul carro invisibile, la statua ideale della nostra Gran Madre.

Benedette le madri romane ch'io vidi ieri, nella processione dell'offerta solenne, portare su le braccia i loro figli! Benedet­te quelle che già mostravano su le loro fronti il coraggio devoto, la luce del sacri­fizio silenzioso, il segno della dedizione a un amore più vasto che l'amore materno!

Fu, veramente, un sublime spettacolo. Però la nostra vigilia non è finita. Non cessiamo di vegliare. Non ci lasciamo né illudere né sorprendere. Io vi dico che l'infesta banda non disarma.

 

Ma non v'è più bisogno di parole in­citatrici giacché anche le pietre gridano, giacché il popolo di Roma per le lapida­zioni necessarie era pronto a strappare le selci dai suoi selciati ove scalpitano i cavalli che, invece di esser già all'avanguardia su le vie romane dell' Istria, sono umi­liati nell'onta di difendere i covi delle bestie malefiche, le case dei traditori il cui tanto male accumulato adipe trasuda la paura, la paura bestiale.

Come dovevano essere afflitti i nostri giovani soldati! E di qual disciplina, di quale abnegazione davano essi prova, pro­teggendo contro la giusta ira popolare coloro che li denigrano, che li calunniano, che tentano di avvilirli davanti ai fratelli e davanti ai nemici !

Gridiamo: « Viva l'Esercito! » È il bel grido dell'ora.

 

Fra le tante vigliaccherie commesse dalla canaglia giolittesca, questa è la più laida: la denigrazione implacabile delle no­stre armi, della difesa nazionale. Fino a ieri, costoro hanno potuto impunemente seminare la sfiducia, il sospetto, il di­sprezzo contro i nostri soldati, contro i

belli, i buoni, i forti, i generosi, gli impe­tuosi nostri soldati, contro il fiore del, popolo, contro i sicuri eroi di domani.

Con che cuore inastavano essi le baio­nette a respingere il popolo che non voleva se non vendicarli!

Per fraterna pietà della loro tristezza, per carità della loro umiliazione immeri­tata, non li costringiamo a troppo dure prove. Rinunziamo oggi a ogni violenza. Attendiamo. Facciamo ancóra una vigilia.

L'altrierí, mentre uscivo dall'aver visi­tato il Presidente del Consiglio tuttavia in carica (rimasto in carica per la fortuna nostra, per la salute publica, a scorno dei lurchi e dei bonturi) quanta speranza, qual limpido ardore io lessi negli occhi dei giovani soldati a guardia!

Un ufficiale imberbe, gentile e ardito come doveva essere Goffredo Mameli, si avanzò e in silenzio mi offerse due fiori e una foglia: una foglia verde, un fiore bianco, un fiore rosso.

Mai gesto ebbe più di grazia, più dì semplice grandezza. Il cuore mi balzò di gioia e di gratitudine. Io serberò quei fiori come il più prezioso dei pegni. Li serberò per me e per voi, per la poesia e per il popolo d' Italia. Verde, bianco e rosso ! Triplice splendore della primavera nostra!

Date tutte le bandiere al vento, agitatele, e gridate:

« Viva l'Esercito! »

« Viva l'Esercito della più grande Italia!»

« Viva l'Esercito della liberazione! »

 

In quest'ora, cinquantacinque anni fa, i Mille si partivano da Calatafimi espugnata ed eternata nei tempi dei tempi col loro sangue che oggi ribolle come quel dei Protomartiri; si partivano, ebri di bella morte, verso Palermo.

Diceva l'ordine del giorno, letto alle compagnie garibaldine, prima della marcia: « Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa. »

O miei compagni ammirabili, ogni buon cittadino è oggi un soldato della libertà italiana. E per voi e con voi abbiamo vinto. Con voi e per voi abbiamo sgominato i traditori,

Udite, udite. Il delitto di tradimento fu dichiarato, dimostrato, denunziato. I nomi infami sono conosciuti. La punizione è necessaria.

Non vi lasciate illudere, non vi lasciate ingannare, non vi lasciate impietosire.

Tal mandra non ha rimorsi, non ha pentimenti, non ha pudori. Chi potrà mai distogliere dal gusto e dall'abitudine del brago e del truogolo l'animale che vi si rivoltola e vi si sazia?

Il 20 maggio, nell'assemblea solenne della nostra unità, non dev'essere tollerata la presenza impudente di coloro che per mesi e mesi hanno trattato col nemico il baratto d' Italia. Non bisogna permettere che, pagliacci camuffati della casacca tricolore, vengano essi a vociare il santo nome con le loro strozze immonde.

Fate la vostra  lista di proscrizione, senza pietà. Voi ne avete il diritto, voi ne avete anzi il dovere civico. Chi ha salvato 1' Italia, in questi giorni d'oscuramento, se non voi, se non il popolo schietto, se non il popolo profondo?

Ricordatevene. Costoro non possono sottrarsi al castigo se non con la fuga.

Ebbene, sì, lasciamoli fuggire. Questa è la sola indulgenza che ci sia lecita.

Anche stamani taluno non era forse intento a rammendar le trame che il grosso ragno alemanno aveva osato intes­sere tra i freschi roseti pinciani d'una villa ornai destinata alla confisca?

Noi non abbiamo creduto, neppure per un attimo, che un ministero formato dal signor Buelow potesse avere l'approva­zione, dirò anzi la complicità del Re.

Sarebbero piombati su la patria giorni assai più foschi di quelli che seguirono l'armistizio di Salasco.

Il Re d' Italia ha riudito nel suo gran cuore l'ammonimento di Camillo Cavour: « L'ora suprema per la Monarchia sabauda è sonata. »

Sì, è sonata, nell'altissimo cielo, nel cielo che pende, o Romani, sul vostro Pantheon, che sta, o Romani, su questo eterno Campidoglio.

 

Apri alle nostre virtù le porte

dei dominii futuri,

 

gli cantò un poeta italiano quando Egli, assunto dalla Morte, fu Re nel Mare. Questo gli grida oggi non il poeta soli- tario ma l'intero popolo, consapevole e pronto.

Romani, Italiani, spieghiamo tutte le nostre bandiere, vegliamo in fede, atten­diamo in fermezza.

Qui, dove la plebe tenne i suoi concilii nell'area, dove ogni ampliamento dell' Im­pero ebbe la sua consacrazione officiale, dove i consoli procedevano alla leva e al giuramento militare; qui, d'onde i magi­strati partirono a capitanare gli eserciti, a dominare le province; qui, dove Germanico elevò presso il tempio della Fede i trofei delle sue vittorie su i Germani, dove Ottaviano trionfante confermò la sommessione di tutto il bacino mediter­raneo a Roma, da questa mèta d'ogni trionfo, offriamo noi stessi alla Patria, celebriamo il sacrifizio volontario, pren­diamo il presagio e l'augurio, gridiamo:

« Viva la nostra guerra! »

« Viva Roma! Viva 1' Italia! »

« Viva l'Esercito! »

« Viva l'Armata navale! »

« Viva il Re! »

« Gloria e vittoria! »

 

A ogni evviva il popolo unanime risponde con una immensa acclamazione, dalle scalinate, dalla piazza, dalle vie. Essendo recata su la ringhiera la spada di Nino Bixio, l'oratore la prende, la mostra al popolo, la snuda, e soggiunge:

 

Questa spada di Nino Bixio « secondo dei Mille », primo fra tutti i combattenti sempre, questa bella spada che un dona­tore erede di prodi offre al Campidoglio, o Romani, è un pegno terribile.

Vedetelo a cavallo, fuori di Porta San Pancrazio, il ferreo legionario dell'Asse­dio, che tiene abbrancato alla strozza il capitano nemico e lo trascina come preda in mezzo al suo battaglione, a gran voce intimando la resa, e solo, egli solo, fa prigionieri trecento uomini! Branca aqui­lina, anima battuta al conio de' vostri Orazii, temerità di corsale ligure uso all'abbordaggio e all'arrembaggio, nato eroe come si nasce principe: esemplare italiano agli Italiani che s'armano.

Io m'ardisco di baciare per voi, su questa lama, i nomi incisi delle vittorie.

 

Una nuova immensa acclamazione sale nell'aria accesa dal tramonto. Il grido: « Guerra! Guerra! » supera ogni altro clamore.

 

Sonate la Campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo se ne fece padrone, or è otto secoli, e v' instituì il suo parlamento. O Romani, è questo il vero parlamento.

Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!

 

Il tumulto cresce. Alcuni cittadini arditi riescono a penetrare nella torre e suonano a stormo. Tutto il popolo, sotto il rombo, acclama la guerra.

 

 

 

 

 

NELL'ANDARE AL PARLAMENTO, PER LA GRANDE ASSEMBLEA

DEL XX MAGGIO MCMXV.

 

Voi mi domandate se siamo alfine usciti d'ansia, se siamo usciti d'oscurità, se possiamo confidare, se possiamo esser si­curi, se alfine sia questo veramente il giorno annunziato nel vespro di martedì dalla campana capitolina.

Ebbene, io non so rispondere.

Più d'una volta in questi giorni di tumulto e di ardore, in cui una sola cosa bella e grande s'è alzata su la miseria e l'ignavia comuni: la generosità del po­polo, la vostra: più d'una volta io vi ho detto: « Non vi lasciate illudere, non vi lasciate sorprendere. Bisogna ancóra ve­gliare, bisogna ancóra fronteggiare il pe­ricolo. »

È triste cosa dover oggi ripetere il me­desimo ammonimento, dover tuttavia get­tare l'allarme. Vi sono bestie che fuggen­do lasciano al fiuto una lunga traccia, uno strascico fetido. Se voi fiutate l'aria con le vostre nari sagaci, scoprite non so che sentore indistinto di paura e d' insidia.

Dei banditi taluni si sono dispersi, seguendo l'esempio del lor tristo capo­banda che del delitto di lesa patria si dimostra ornai convinto. Ma taluni, il cui stesso terrore è impudico, simili ai ladruncoli inseguiti che la notte ripiglia­no fiato nelle locande infami, sono stati ricettati in un luogo prossimo a Monte­citorio; e si dice che, poco dopo l'alba, ne siano scappati per entrare gatton gat­toni nel palazzo. La loro presenza, ornai certa, basta a rendere impura l'aula dove stanno per decidersi le sorti d' Italia.

O immenso respiro di Roma sollevata, o garrito delle bandiere e delle rondini, o glorioso turbine dei secoli sul parla­mento del popolo novo, là, nella piazza del Campidoglio!

Non doveva oggi essere un giorno ra­dioso, un giorno d'allegrezza piena, di magnifica potenza: il giorno sonato a tutta la nazione dalla Campana grande? Non doveva oggi essere, pel popolo di Roma, pel popolo d' Italia, un giorno di libertà nel patto concorde?

Ora la città è piena di soldati al servi­gio della Questura; il tumido ragno ale­manno è tuttavia al centro della sua tela e guata; il vicario dell' Impiccatore, quello il cui nome indica in persona prima il suo sporco officio, è tuttavia là, ben custo­dito. Gli stranieri non se ne vanno, ma fingono di andarsene. I più si fermano alla frontiera, per aspettare gli avvenienti; formano alla frontiera una zona maligna. Speculano, spiano. Sorridono an­che, sogghignano anche. Confidano nella nostra pusillanimità, nella nostra remis­sione finale, nel lieto fine della farsa tragi­ca! Per costoro noi non possiamo essere se non una genia di confettieri, di caffet­tieri e di camerieri, un'accozzaglia di ciar­loni, di poltroni e di buffoni.

Compagni, vi sentite voi la pazienza di sopportar questo per un giorno ancóra?

È necessario che oggi, intorno a Monte­citorio dove si può forse ancor cianciare e differire, voi siate un cerchio di vo­lontà coercitiva, una tanaglia tremenda che non rilascia quel che ha serrato.

« Basta! Basta! » è oggi la parola d'or­dine. Basta l'indugio, basta il sotterfugio, basta il cavillo, basta la reticenza, basta la furberia, basta ogni forma di viltà, ogni forma di vergogna. Basta, in fine, tutto quel che non è italiano.

Questo è il vostro volere, anzi il vostro comando.

Ci rivedremo, prima che il sole tramonti.

Viva il popolo di Roma, padre della Patria!

 

 

 

 

 

NELL'USCIRE DAL PARLAMENTO, DOPO IL VÓTO,

LA SERA DEL XX MAGGIO MCMXV.

 

COMPAGNI, la nostra settimana di passione è finita in allegrezza, s'è compiuta in giubilo!

Gloria al popolo di Roma che ha precorso e promosso l'impeto dell'anima nazionale!

Come la campana del Campidoglio, la campana di Montecitorio suoni a stormo nel vespro glorioso!

L'onore della Patria è salvo. L' Italia è liberata. Le nostre armi sono nelle nostre mani. Non temiamo il nostro destino ma gli andiamo incontro cantando. La plumbea cappa senile ci opprimeva; ed ecco, la nostra giovinezza scoppia subitanea come la folgore. In ciascuno di noi arde il giovenile spirito dei due Cavalieri gemelli che guardano il Quirinale. Essi scenderanno stanotte ad abbeverare i loro cavalli nel Tevere, sotto l'Aventino, prima di cavalcare verso

1' Isonzo che faremo rosso del sangue barbarico. I loro astri splenderanno stanotte su gli Archi di trionfo, e i loro fuochi pal­piteranno su gli alberi delle nostre navi.

I semidii delle, origini e gli eroi della storia tornano a noi, vengono alla nostra festa. Per segno della sorte, o cittadini, oggi è l'anniversario della battaglia di Montebello 20 maggio 1859 —, è l'an­niversario della gioiosa battaglia ove i federati latini per la prima volta mesco­larono le loro  vene e misero in rotta l'esercito austriaco, uno contro quattro, cinquemila contro ventimila.

È l'anni­versario della fazione ove un pugno di prodi, i cavalleggeri di Novara, d'Aosta e di Monferrato, condotti da Maurizio di Sonnaz, arrestarono con undici cari­che, l'una più ruinosa dell'altra, le forze austriache cinquanta volte superiori.

Al passaggio della Sesia, con un ardi­mento che parve folle, i nostri si gettavano in frotte nei guadi profondi e malsicuri. Esciti alla riva, avendo tutte le munizioni bagnate, coperti di melma, grondanti, si scagliavano sùbito con le baionette contro il nemico, « a ferro freddo », uno contro dieci; e lo fugavano.

Ben questo coraggio, ben questo im­peto, ben questo vigore sono le vere virtù della nostra razza. Tutto il resto non è italiano: è infezione straniera propagata in Italia dall'abietta giolitterìa.

Liberiamoci per sempre dagli infet­tatori. Liberatrice è la guerra, in ogni senso. È da ripetere oggi. la parola del vostro Tacito: « La guerra taglierà i loro enfiati, e vedrassi la puzza che n'esce. »

Oggi, o Romani, o Italiani, non ascol­tiamo se non il grido dei cavalleggeri di Montebello, il grido dei bersaglieri della Sesia: « Avanti! Che siamo pochi o molti, uno contro uno, uno contro quattro, uno contro dieci, avanti, sempre avanti! Alla carica! Alla baionetta! Vittoria! »

La vittoria è di coloro che nella vitto­ria credono, che nella vittoria giurano.

Noi crediamo, noi giuriamo di vincere; noi vogliamo vincere.

Viva sempre 1' Italia!

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