D'Annunzio e il Maggio Radioso - La Sagra dei Mille

LA SAGRA DEI MILLE

 

Parole dette al popolo di Genova nella sera del ritorno (4 maggio 1915)

Orazione per la Sagra dei Mille (5 maggio 1860 ‑ 5 maggio 1915)

 

Parole dette nel convito offerto dal Comune di Genova ai superstiti dei Mille, la sera del 5 maggio 1915

 

Parole dette il 6 maggio nei Giardini del Palagio di Andrea Doria, ricevendo in dono il gesso

del Leone Tergestino che è murato in una casa dei Giustiniani

 

Parole dette il 6 di maggio nella Sala delle Compére, nel Palagio di San Giorgio, ricevendo in

dono la Targa di bronzo offerta dal Comitato Genovese della « Dante Alighieri »

 

Parole dette nell'Ateneo genovese il 7 di maggio, ricevendo in dono dagli studenti una Targa d'oro

 

Parole dette agli Esuli Dalmati, ricevendo in dono il Libro che afferma dimostra e propugna l'italianità della Dalmazia, stampato in Genova (7 maggio 1915)

 

Messaggio ai Genovesi mandato da Roma il 13 maggio 1915

 

 

 

 

 

L'EPIGRAFE DELLA MEDAGLIA

 

*

 

AI FATI INVITTI
AI FLUTTI AUSPICATI
E AI SUPERSTITI ESTREMI
DELLA GESTA LIBERATRICE
RESPIRANTI CON LA PATRIA INTERA
LA IMMORTALITÀ DEL DUCE
SOPRAVVENIENTE
GENOVA CONSACRA IN FEDE
ORA E SEMPRE

 

*

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE AL POPOLO DI GENOVA NELLA SERA DEL RITORNO.

IV MAG­GIO MCMXV.

 

O GENOVESI, eccomi vostro in presenza come già fui di lontano, con voi tutto, alla vigilia della gran giornata, per pre­gare e poi per lottare, eccomi devotis­simo.

Un Genovese ritorna alle sue mura, ritorna al suo porto (consentitemi quest'orgoglio che è anche umiltà), uno il quale fu fatto cittadino in San Giorgio per grazia del canto, per miracolo di quel­la tazza da secoli arcana, onde in giorni di milizia ei vide ritraboccare il sangue del novel patto, e lo cantò.

Ma è questo un ritorno ? e dov'è la mia vita distante? E quanto lasciai die­tro me, opera o sogno, pertinacia o tri­stezza, pazienza o languore, che mi vale in questi attimi? Non so se io abbia rivalicato un confine di monti, ritraversato un paese primaverile. Monti non ho ve­duto, non boschi in foglia, non fiumi in piena, se non a tratti dietro un velo; ma anime accese e protese, ma apparizioni d'amore, ma trasfigurazioni fraterne. Pri­ma di riconoscere il volto della patria, ne ho ribevuto l'alito affocato. Dianzì, in quel primo grido, in quel primo saluto, la città non m'era di pietra ma tutta d'umana sostanza: non so che stellato di occhi, sotto le stelle del cielo.

Perché voi mi veniate incontro con tanto impeto, vi porto io dunque un dono di vita? Se io venissi ad annunziare una vittoria, non altrimenti sarei d'ogni parte acclamato.            porto   dono

Ebbene, si, compagni, porto un dono di vita e annunzio una vittoria. Se vi fu tal Romano che recava nel seno della toga la pace e la guerra, da scegliere, non v'è più scelta per noi. Ve lo dico già in que­sta prima ora, in questa notte di veglia. E vi dico che tanto la nostra guerra è giusta, da non potersene recare il pegno se non con le mani velate, come delle cose più sacre usavano i padri nostri.

Per ciò conviene pregare. Per ciò con­viene che ciascuno di noi stanotte abbia un'ora di raccoglimento, un'ora di preghie­ra, nel nome dell' Eroe che santifica questa veglia. Udremo allora forse, nel silenzio, una di quelle sue parole fulminee che illuminavano la faccia del destino; poiché la faccia del destino sembra si rinfoschi e l'anima della patria ridiventi ansiosa...

No, non ci turbi la notizia improvvisa di un'assenza che non può esser cagionata da un divieto oscuro ma sì dal dovere della vigilanza estrema, dalla necessità di stare a buona guardia. In alto la fede! In alto i cuori! Il dubbio non ci tocchi. Noi non lasceremo disonorare l'Italia; non lasceremo la patria perire.

Tutta Genova è in piedi, stanotte, co­me nelle adunanze delle grandi delibera­zioni. E la fede di Genova ritrova l'an­tica parola del suo potere civico, il grido breve della volontà latina: Fiat! Fiat! Sia fatto! Si compia!

Quel che è necessario, si compia!

La integrazione della patria si compia!

La resurrezione della patria, si compia!

Questo vogliamo, questo dobbiamo volere.

 

Genova, la città che assalta il cielo con la scala titanica dei sovrapposti palagi e sembra avere in sé un impeto di ascen­dere, che dalle sue vecchie fondamenta la sollevi su per le sue giovani alture, come a veder più lontano; Genova, che dantescamente dei remi fece ala a sé per traversare i secoli con un battito assiduo di potenza: la più feconda delle stirpi italiche, migratrici come Corinto e come Atene; quella ch'ebbe in retaggio lo spirito dell' Ulisse tirreno per tentare e aprire tutte le vie, per popolare i lidi più remoti, per fornire uomini e navi a tutti i principi, per dare capitani a tutte le armate, per portare nell'Atlantico le costumanze del Mediterraneo, per insti­tuire con incomparabile sapienza di leggi il primo Consolato del Mare, per iniziare nel Breve della Compagna il primo Con­tratto sociale; la razza assuefatta all' avver­sità, secondo l'eterna parola di Vergilio, indomita in resistere, cercare, durare: la più antica nella successione della roma­nità se si pensi ch'ebbe i consoli prima d'ogni altra, la più nuova nel presentimento dell'avvenire se si consideri la recentissima figura del diritto foggiata nel suo porto dalla sua gente di mare; radicata nel più profondo passato, pro­tesa verso il più remoto futuro; simile a un nodoso albero di vita travagliato da una perenne primavera; nel suo stesso aspetto vecchia come le metropoli che compirono il lor destino magnifico e giacquero sotto il cumulo inerte della loro storia, giovine come le dimore edi­ficate con rapida sovrabbondanza dalle civiltà avveniticce che s'armano d'armi improvvise per la lotta e per la signo­ria; Genova è degna di sollevare un'altra volta al conspetto della nazione, in un'ora ben più tremenda, nel più arduo punto del nostro ciclo, quella « tazza di salute » che è il simbolo della vittoria interiore su la viltà, sul tradimento, su la paura, su ogni miseria e contagio d'uomini e di cose.

 

[Levò la tazza. E il popol disse: « Credo. »]

 

« Credo. » Sia la parola iniziale della nostra preghiera notturna.

« Ora e sempre » risponderà da Sta­glieno una voce sola e sublime, a cui l'au­gurio è promessa, la speranza è certezza, il proposito è compimento.

 

Il lido ligure è il lido delle maravi­gliose dipartite. Lo spirito, che trasfigura le terre e le genti, lo predilige. Lo spirito lo abita.

Non riempie esso, laggiù, la cavità di quel bronzo che veglia sul mare stellato? Il metallo del treppiede fatidico non do­veva essere più penetrabile dal soffio del nume.

O compagni, ma l'oracolo che atten­diamo, non è già inciso nei nostri cuori? non è già fisso alla cima della nostra volontà concorde?

Che volete voi?

In antico un re grande fu ardito d'af­frettare il responso, di forzare la sacerdo­tessa ambigua serrandola nelle sue braccia terribili.

Domani un grandissimo popolo, con la sua stretta potente, otterrà la sentenza ch'ei vuole.

Che volete voi, o Genovesi?

Nel vostro Consolato del Mare è quel capitolo dove si dispone che, se patron di nave vorrà crescere la nave, egli lo debba dire a tutti i compagni e, se tutti i compagni vorranno, egli la può crescere, e « in questo non v'è contrasto nessuno ».
Che volete voi, Genovesi? che volete, Italiani? menomare o crescere la nazione?
Voi volete un'Italia più grande, non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di san­gue e di gloria.

Fiat! Fiat! Si faccia! Si compia!

 

Viva San Giorgio armato!

Viva la giusta guerra!

Viva la più grande Italia!

 

 

 

 

 

ORAZIONE PER LA SAGRA DEI MILLE.

V MAGGIO MDCCCLX. V MAGGIO MCMXV.

 

I

 

MAESTÀ del Re d'Italia; Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio;

Liguri delle due riviere e d'oltregiogo;

Italiani d'ogni generazione e d'ogni confessione, nati dell'unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli;

e voi, miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera soprav­viventi in terra, o forse riappariti oggi dalla profondità della gloria per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veracemente un giorno respirasse in bocche mortali e moltiplicasse la forza delle ossa caduche quell'anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole;

voi anche, discendenza carnale della Li­bertà e di Colui che nel bronzo torreggia, imagini vive della sua giovinezza indefessa, che perpetuate pel mondo il suo amore di terra lontana e la sua ansia di com­battere i mostri; e tra voi, ecco, le due Ombre astanti, simili ai Gemelli di Sparta, con nel mezzo del petto quel fonte di sangue che d'improvviso ­sparse l'odore della primavera italica sopra la melma guerreggiata dell’Argonna;

perché siete oggi qui convenuti, su que­sta riva oggi a noi misteriosa come quella che inizia un’altra vita, la vita di là, la vita dell’oltre?

perché siamo qui raccolti come per fare espiazione, come per celebrare un sacrifi­zio, come per ottenere con la preghiera responso e comandamento?

Ciascuno di noi lo sa nel suo cuore de­voto. Ma conviene sia detto, sotto questo cielo; affinché tutti, dalla maestà del Re all’operaio rude, noi ci sentiamo tremare d’amore come un’anima sola.

Oggi sta su la patria un giorno di porpora e questo è un ritorno per una nova dipartita, o gente d' Italia.

 

 

 

II

 

SE MAI le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ecco, in verità, nella nostra vigilia questo bronzo comanda.

È un comandamento alzato sul mare.

È una mole di volontà severa, al cui sommo s'aprono due ali e una ghirlanda s'incurva.

È ingente e potente come il flutto de­cumano, o marinai, come quell'onda che sorge con più d'impeto dopo le nove dalle quali fu preceduta, prima delle nove che son per seguirla : onda maggiore, che porta e chiama il coraggio.

I resuscitanti eroi sollevano con uno sforzo titanico la gravezza della morte perché il lor creatore in piedi la foggi in immortalità.

In piedi è il creatore, fiso a quella bellezza che sola visse nelle pupille dei nostri martiri e restò suggellata sotto le loro palpebre esangui.

Egli la guarda, egli la scopre, egli la rialza. Sta dinanzi a lui come una massa confusa. Egli la considera non altrimenti che Michelangelo il blocco di marmo av­verso.

Braccia d'artiere terribili son le sue braccia. Voi lo vedete. E le sue mani possiedono l'atto come le mani del Dio stringono la folgore. Non si sa se le gonfi di sì grandi vene la possa dell'opera com­piuta o di quella eh' è da compiere.

Dov' è, se non in voi, se non nella una­nimità vostra improvvisa, o Italiani, la balenante bellezza ch'egli oggi solleva e pone dinanzi a sé per condurla al rilievo sublime?

Nessuno più parla basso; ché cessano il danno e la vergogna; l' ignavia del non veder, del non sentire cessano. E i mes­saggeri aerei ci annunziano che la Notte di Michelangelo s'è desta e che l'Aurora di Michelangelo, pontando nel sasso il piede e il cubito, scuote da sé la sua do­glia ed ecco già balza in cielo dall'Alpe d'oriente.

Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lace­rate si rifasciano, dell'arme onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricin­gono: per quella che sùbito dai grandi òmeri sprigiona le penne della Vittoria.

Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere.

Or, di lungi, l'osso dell'ala non sembra il taglio d'una tavola d'altare, sollevata dall'ebrezza dei martiri ? E non v'è, den­tro, una cavità simile alla fossa del sacri­ficio, pel sangue e per la vampa?

Ah, se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda.

Se mai a grandezza d'eroi fu dedicata opera di metallo, conflàtile detta dagli an­tichi nostri, ciò è composta di fuoco e di soffio, ben questa è la suprema, tutta fatta di fuoco e di soffio, di fede infiam­mata e d'anelito incessante, d'ardor soste­nuto e d'ansia creatrice.

É calda ancóra. Ancor ritiene il furore della fornace. Il nume igneo l'abita.

Forse la vedreste rosseggiare, se la luce del giorno non la velasse.

Io credo che stanotte apparirà tutta rovente sul fremito del mare, fatta, come questa nova concordia nostra, di fusione che non si fredda.

E gli altri eroi tornanti pel Tirreno, dai sepolcreti di Sicilia ove il grano spiga e già è pieno di frutto, diranno: «Lode a Dio! Gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l'ara d' Italia.»

 

 

 

III

 

Fuoco d'amore, d'acerrimo amore, di indomabile amore, quale recavano chiuso nel petto i predestinati in quella sera di prodigio, su questo lido ove siamo attoniti di udire l'ansito del mare e il palpito dei vi­venti, tanto esso è remoto nella più ardua idealità, come il piano di Maratona, come il promontorio di Mìcale, anzi di là da que­ste imagini venerande, oltre ogni segno;

ché là erano schiere ordinate, navi mu­nite, impeto disegnato, nemico aperto, ma qui non altro che un'ebra consacrazione all'ignoto, qui non altro che una nuda devozione alla morte, non altro che pas­sione e travaglio, offerta e dono, canto di commiato, oblìo del ritorno, e il potere mistico del numero stellare: Mille.

Le madri, le sorelle, le spose, le donne dilette venivano sul cammino, traevano dalla Porta Pila a Quarto, alla Foce, pian­gendo, pregando, consolando, sperando, disperando, con lacrime calde, con voci tremanti, con tenere braccia;

e nessuna di quelle creature vive era ai partenti viva come quella cui s'offe­rivano in eterno, come quella che abbandonava il suo corpo notturno al mare di maggio, viva con un soffio, con uno sguar­do, con un viso indicibili, amata d'amore, eletta di dolore: la donna dei tempi, la donna dei regni, l'Italia.

 

 

 

IV

 

I MILLE! E in noi la luce è fatta. Il verbo è splendore. La parola sfolgora.

I Mille! Ed ecco, nel mezzo dell'anima nostra, aperta una sorgente di vita perpetua.

Commemoriamo il passato? ci volgia­mo a quello che fu? Chi dunque a noi lo fa per sempre immune da ogni germe di disfacimento? chi dunque a noi lo tra­sforma in ciò che non muta, non perisce e non si corrompe?

Le figure della storia corrono senza tregua come una fiumana insonne, dile­guano come le nubi in un cielo di nembo, s'allontanano come gli aneliti del vento nel deserto, disperdendo all'infinito quella parte di noi che non può ritornare.

Ma questa figura, ecco, sopra la fugace e vorace storia, culmina come inespugna­bile fiore, nella novità perenne del mito.

Il nostro Iddio, pur nella lunga miseria nostra, darci volle una tanta testimonianza del nostro sangue privilegiato!

Anni senza numero gocciano per formare l' invitto diamante nella terra buia.

La radice smisurata della stirpe travaglia nei secoli dei secoli per convertire l'evento in cima eternale.

Ma noi miseri, noi tristi, noi smarriti abbiam veduto sorgere questa cima dal profondo della nostra sostanza, dall' intimo mistero dell'anima nostra. L’Iddio nostro, per segno di salvezza, ha creato di noi questo mito.

Esso è là. Ci sovrasta senza ombra, ché il meriggio è l'immobile sua ora.

Quale stagliato picco dell'Alpe apuana è tanto visibile al Ligure che veleggia nell'alba più chiara?

Esso è là. Noi lo sentiamo e lo guardiamo.

Chi pensa al tempo? Era il tempo quando le cerulee cantatrici del Mar Tirreno chiamavano dall' isola dei narcissi i navigatori al perdimento? Orfeo alzato su la poppa poté vincere la melodia, il re d' Itaca vincolato all'albero poté non udirla. Ma come la nave d'Argo e la nave d'Ulisse ritornarono cariche d'altri fati e d'eroi novelli?

No. Fu ieri. Grandi testimoni l'attestano. Il duce nel bronzo, eccolo, ha la statura e la possa di Teseo. Ma voi lo vedeste, santissimi vecchi, voi lo vedeste col suo corpo di uomo, con l'umano suo corpo mortale, col suo passo di uomo su la terra. Tale egli è ne' vostri santi occhi.

Un figliuol suo, una creatura della sua carne, che le sue braccia cullarono, tra noi vive, parla, opera, aspetta di ricombattere. E non riarde il suo più rapido sangue nella giovinezza de' suoi nepoti che vivere senza gloria non sanno ma ben sanno morire?

Uomo egli fu, uomo tra uomini. E voi lo vedeste, santissimi vecchi, lo vedeste da presso come la Veronica vide il Cristo in passione. Il suo volto vero è impresso nella vostra anima come nel

sudario il volto del Salvatore. Nessuna ombra l'offusca.

Egli sorride. Voi lo vedeste sorridere! Diteci il sorriso del suo coraggio. Apritevi il cuore, e mostrateci quel miracolo umano. Ciascuno di voi avrebbe voluto morire nell'attimo di quel baleno.

Questo luogo egli lo traversò, con le sue piante di marinaio lo stampò, bilan­ciando su la spalla la spada inguainata. Alzò gli occhi a guardare se Arturo, la sua stella, brillasse. Udiste la sua voce fatale, più tardi, nel silenzio della bonac­cia, su l'acqua piena di cielo.

Taluno di voi lo vide frangere il pane sotto l'olivo di Calatafimi?

Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch'ei volesse morire sopra uno dei sette cerchi disperati? Udiste allora la sua voce d'arcangelo?

Disse, «Qui si fa l’Italia o si muore. »

A lui che sta nel futuro « Qui si rinasce e si fa un' Italia più grande » oggi dice la fede d' Italia.

 

 

 

V

 

O PRIMAVERA angosciosa, stagione di dubbio e di patimento, di speranza e di corruccio!

Voi non udivate se non il romore cit­tadinesco, se non il clamore delle dis­sensioni, delle dispute, delle risse. Voi tendevate l'orecchio al richiamo dei cor­ruttori. Consumavate i giorni senza verità e senza silenzio.

Ma i lontani scorgevano di sotto alle discordie degli uomini, la patria raccolta nelle sue rive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino.

Si struggevano di pietà filiale divinan­do il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto doves­se ella affaticarsi per generare il suo fu­turo.

E pensavano in sé: « Come soffri ! Come t'affanni! In quale angoscia tu smani! T'abbiamo amata nei giorni foschi, t'ab­biamo portata nel cuore quando tu pesavi come una sciagura. Chi di noi dirà quanto più, ora, ti amiamo?

Tutta la passione delle nostre vite non vale a sollevare il tuo spasimo, o tu che sempre la più bella sei e la più paziente. Come dunque ti serviremo?

Uomini siamo, piccoli uomini siamo; e tu sei troppo grande. Ma farti sempre più grande è la tua sorte. Per ciò dolo­ra, travaglia, trambascia. Tu avrai i tuoi giorni destinati. »

E si mostravano i segni.
Quando nella selva epica dell'Argonna cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio aveva fatto numeroso come il numero ostile.

Parve ai poeti che i quattro figli d'Aimone, discendessero dalle Ardenne per portar su le spalle la bara del cavaliere tirreno.

Il primogenito, che m'ode, quegli dalla gran fronte, s'avanzò nel campo quadrato, dove gli altri uccisi dei nostri giacevano in lunga ordinanza, si chino, smosse la terra, ne prese un pugno, e disse:

« Rinnovando un costume di nostra antica gente, su questi cari compagni che a Francia la libera hanno dato la vita e l'ultimo desiderio all'Italia in tormento, spargiamo questa fresca terra perché il seme s'appigli. »

Allora lo spirito di sacrifizio apparì alla nazione commossa.

E venne un altro segno. L'estremo dei martiri di Mantova, il solo dei confessori intrepidi sopravvissuto alle torture del carnefice, Luigi Pastro, pieno d'anni e di solitudine, spirò la sua fede che, attanagliata dalle ossa ancor dure, non poté partirsi se non dopo lunga agonia.

Quando i pietosi lavarono la salma quasi centenaria, scoprirono intorno ai fusoli  delle gambe i solchi impressi dalle catene. Erano là, indelebili, da sessant'anni; e parve li rivelasse agli Italiani per la prima volta una grazia della morte.

Allora lo spirito di sacrifizio riappari alla nazione che si rammemorò di Belfiore.

E venne un altro segno. Un'ira occulta percosse e ruinò una regione nobile tra le nobili, quella dov'é radicata dalle origini la libertà, quella dove il Toro sabellico lottò contro la Lupa romana, dove gli otto popoli si giurarono fede, si  votarono al fato tremendo e la lor città forte nomarono Italica.

Quivi la virtù del dolore da tutte le contrade convocò i fratelli. Il lutto fu fermo come un patto. Lagni non s'udirovo, lacrime non si videro. I superstiti, esciti dalle macerie, offerirono all'opera le braccia contuse. Nella polvere lugubre le volontà si moltiplicarono, prima fra tutte quella sovrana. L'azione fu unanime e pronta. Una sparitale città fraterna sembrò fondata nelle rovine, pel concorso di tutti i sangui; e, meglio che quella del giuro, poteva chiamarsi Italica.

I fuorusciti di Trieste e dell' Istria, gli esuli dell'Adriatico e dell'Alpe di Trento, i più fieri allo sforzo e i più candidi, die­dero alle capanne costrutte i nomi delle terre asservite, come ad augurare e ad annunziare il riscatto. Il fratello guardava il fratello, talvolta, per leggere nel fondo degli occhi la certa risposta alla muta dimanda.

Allora lo spirito di sacrifizio entrò nella nazione riscossa, precorse la primavera d'Italia.

 

 

 

VI

 

ED Ecco il segno supremo, ecco il co­mandamento.

Questo era, questo è nell'ordine segreto del nostro Iddio.

D'angoscia in angoscia, d'errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, egli ci ha sollevati alla santità di questo mattino.
Mentre questo santo bronzo si struggeva nella fornace ruggente e la forma da riempiere si taceva nell'ombra della fossa fusoria, una più vasta fornace, una smisurata fornace s'accendeva « di spirital bellezza grande ».

E non corbe di metallo bruto v'erano issate in sommo: ma, come i manovali gettano a uno a uno nel bacino i masselli, gli spiriti più generosi vi gettavano il me­glio della virtù loro e incitavano i tardi e gli inerti con l'esempio.

Or ecco, alla dedicazione e sagra di questo compiuto monumento ci ha chia­mati un messaggio d'amore.

E a questa sagra di popolo datore di martiri, per altissimo auspicio, è presente la maestà di Colui che, or è molt'anni, in una notte di lutto commossa da un fremi­to di speranze, salutammo Re eletto dal destino con segni che anch'essi ci parvero santi.

A questa sagra tirrena instituita da marinai è presente la maestà di Colui, che chiamato dalla Morte venne dal Ma­re, che assunto dalla Morte fu Re nel Mare.

Risalutiamolo col vóto concorde. Fe­dele è a Lui il destino, ed Egli sarà fedele al destino.

Guarda Egli la statua che sta, la statua che dura; ma intento ode il croscio profondo della fusione magnanima.

Accesa è tuttavia l'immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fratelli; e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi sinché tutto il metallo si strugga, sinché la colata sia pronta, sinché l'urto del ferro apra il varco al sangue rovente della resurrezione.

Già da tutte le fenditure, già da tutti i forami biancheggia e rosseggia l'ardore. Già il metallo si comincia a muovere. Il fuoco cresce, e non basta. La forza della fiamma più e più cresce, e non basta. Chiede d'esser nutrita, tutto chiede, tutto vuole.

Voluto aveva il Duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d'uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso.

Non catasta d'acacia né di lentisco né di mirto, ma di maschie anime egli oggi domanda, o Italiani. Non altro più vuole.

E lo spirito di sacrifizio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro incendio:

« Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia! »

 

 

 

VII

 

BEATI quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.

Beati quelli che hanno vent'anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.

Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero.

Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per esser vergini a questo primo

e ultimo amore.

Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le

lor proprie mani; e poi offeriranno la loro offerta,

Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l'evento, accetteranno in silenzio

l'alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.

Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.

Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d Italia.

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE NEL CONVITO OFFERTO DAL COMUNE DI GENOVA

AI SUPERSTITI DEI MILLE, LA SERA DEL V MAGGIO MCMXV.

 

SEMBRA che da stamani noi respiriamo  non so che ardore di miracolo, dove s'avvicendano in una sorta di balenio la verità e il sogno, la vita attuale e la più lontana favola.

Questi convitati maravigliosi, che seggono a questa mensa, mangiarono con la fame  della giovinezza il pane e il cacio a Calatafimi, sul colle conquistato, verso sera, mentre si levava il vento fresco a piegare le spighe, non lungi dai loro morti, da Giuseppe Belleno, da Giuseppe Sartorio carabinieri genovesi, caduti in disparte, non lungi dal luogo dove il grande alfiere di Camogli giaceva supino, con gli occhi sbarrati e fissi alla prima stella.

Ora sono qui, vivi, riboccanti di animo, sfolgoranti ancóra di battaglia; sono qui, bevono con noi il vino augurale che ci offre la Genova degli antichi consoli, la Genova erede della forza romana, erede della legge romana, del diritto romano, dell'arte romana d'aprire le vie nuove pel vasto mondo. Bevono con noi, con gli inviati delle città illustri, delle città fe­deli, questo vino mistico del nostro patto nazionale. Essi dormirono nei campi di grano, laggiù, dopo la vittoria; e sembra che si sieno risvegliati in quest'alba, coperti di rugiada, sembra che ridesti re­spirino tuttavia il vento della vittoria.

Quali mani, se non le loro, o nobili ospiti, degne di risollevare quel Sacro Ca­tino, quella « tazza di salute » che fu cele­brata nella « Canzone del Sangue »?

Finché in Atene rimase vivo uno dei combattenti di Maratona, gli Ateniesi si credettero signori della loro alta sorte.

All'Italia nostra, dei Mille, più di cento rimangono; e la sorte d'Italia è oggi nel pugno d'Italia.

Secondo la parola profetica del Duce, i Mille sono per moltiplicarsi in mille volte mille. Non li udiamo già muovere in marcia col medesimo ritmo? Tutto il passato confluisce verso l'avvenire. L'unità sublime si forma. E Roma, ecco, riprende il suo nome occulto: Amor.

A Roma — Amor io bevo. Bevo a Genova che ha perpetua una volontà d'ascensione non soltanto nei suoi spiriti, ma in tutte le sue pietre. Bevo alle città sorelle e giurate, bevo alle città martiri dell'altra riva; e a voi, gloriosissimi veterani, che ci ringiovanite, insegnandoci su questa mensa come di pensiero antiveggente e di fede confessata si componga la colma ebrezza.

 

Viva l'antica e nova Italia! Viva l'Italia eterna!

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE IL VI MAGGIO NEI GIAR­DINI DEL PALAGIO DI ANDREA DORIA, RICEVENDO IN DONO IL GESSO DEL LEONE TERGESTINO CHE È MURATO

IN UNA CASA DEI GIUSTINIANI.

 

ISTE LAPIS IN QVO EST FIGVRA SANCTI S. MARCI DELATVS

FVIT DE TERGESTO CAPTO A NOSTRIS MCCCLXXXII

 

BREVI parole dirò, tanta è qui l'eloquen­za delle memorie, delle cose, dei segni, tanto é grave di destino questo dono che io ricevo con cuore tremante, come se in me, per grazia d'una fedeltà senza fallo, a più degnamente riceverlo, entrasse l'an­sia di quella che laggiù soffre la fame del corpo, soffre la fame dell'anima, violata, straziata, calcata con ferocia ogni giorno più maledetta.

La sentiamo qui in presenza vera. È davanti a noi, come quell'urna scolpita, come quelle statue.

E diritta davanti a noi, con tutte le sue piaghe aperte, con tutte le sue lividure, con le tracce di tutte le ingiurie, come il Paziente alla Colonna.

E dietro a lei, presenti i vivi del mede­simo sangue, si levano i nove e nove martiri giovinetti dei Giustiniani e le loro madri sublimi, intente a fortificarli nel dolore terrestre e nella speranza im­mortale.

Ah, veramente, noi cominciamo a ver­gognarci di tanto parlare. E intendiamo il rude bisticcio di quell'uno dei Mille, grandissimo animo in piccolo corpo, il quale iersera gridò nel convito, con la sua voce di assalto: « Meglio che prendere la parola, io vorrei riprendere il fucile, o compagni. »

Motto garibaldino, ben detto e bene udito in Genova.

Ci piaccia qui ricordare come, dopo la morte di Simon Vignoso, riconstituita la nuova Maona, tra i dodici socii che ri­nunziarono il loro casato per assumere il nome di Giustiniani, fosse un Francesco Garibaldo: testimonio di vecchia e dura stirpe ligure.

Non questo gesso che io custodirò pia­mente, ma il Leone di pietra istriana, trat­to del glorioso muro in un altro giorno di sagra marina, Genova rimanderà per mare a Trieste: restituzione magnifica.

Passi la nave in vista della Caprera, che forse s'empirà di ruggito ripercosso dalle rocce. E navighi all'Adriatico. E il morto figlio di Lamba sepolto nelle acque trion­fate, e Luciano d'Oria davanti a Pola, e Gasparo Spinola davanti a Trieste, e gli altri terribili vostri riappariranno in epifa­nia d'amore commisti ai vendicati di Lissa, luminosissimamente.

E il Leone di San Marco recato nell'Adriatico da nave di Genova significherà per gli Italiani:

« Questo mare profondo, ove la cresta di ogni flutto è fiore di nostra gloria, si chiama, di nuovo e per sempre, nei linguaggi di tutte le nazioni, il Golfo di Venezia. »

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE IL VI DI MAGGIO NELLA SALA DELLE COMPERE, NEL PALAGIO DI SAN GIORGIO, RICEVENDO IN DONO LA TARGA DI BRONZO OFFERTA

DAL COMI­TATO GENOVESE DELLA « DANTE ALI­GHIERI ».

 

GENOVA sembra oggi superare i più pur­purei giorni della sua magnificenza e della sua spiritualità. Ieri ella diede lo spet­tacolo di tutto un popolo che potentemen­te respira nel cielo stesso dell'eroismo e della divinazione. Questa sera, in questo rinnovellato Palagio della sua saggezza e de' suoi ardiri, là nella Sala dei Capitani del Popolo -- dove i suoi più virtuosi padri, alzati o seduti nelle toghe severe, incitano i nepoti alla magnanimità con sentenza latina -- Genova ha voluto cele­brare la gloria della Lingua, servire al culto della Lingua, ossia confermare il rispetto, la custodia e la propagazione di ciò che in tutti i tempi fu considerato come il più profondo tesoro dei popoli, come la più alta testimonianza della lor nobiltà origi­naria, come l'indice supremo del lor sen­timento di libertà e di dominio morale.

Ovunque per antico fu murata l'ima­gine lapidea del vostro patrono, ovun­que fu essa scolpita in portali, dipinta in edicole, incisa in suggelli, battuta in mo­nete, ovunque fu sventolata in vessilli da Consoli, da Podestà, da Capitani, da Dogi, lungo le coste del Mar Nero, negli arcipelaghi dell'Egeo, nelle città della sa­cra Asia, e più. oltre, e più lontano, di là dalla conca mediterranea, a traverso gli oceani sempre arati, voi volete spingere e diffondere quest'altro segno vivo della nazione unanime, voi volete che favelli e inteso sia quello strapotente assertore d' italianità onde s'intitola il vostro corpo di socii militanti.

Noi ci moveremo infatti per recuperare le terre a cui tal voce sonò e suona, per riconquistare le nostre patrie minori che si formano intorno a tale scuola e pale­stra.

Per ciò là dove fu posto San Giorgio con l'asta ferente, là dove fu posto il Leone col libro chiuso, noi poniamo, noi por­remo il grifagno Dante col libro aperto, quale lo veggono in Santa Maria Novella i Fiorentini, quale lo rappresentò nel tem­pio sopra l'acropoli di tufo un maestroche degli spiriti e dei muscoli danteschi fece l'arte sua strenua.

Questo sdegnoso poeta che qui m'acco­glie e mi loda, questo fiero e solitario Apuano, non scorse già dalla sua torre di Mulazzo l'esule di parte bianca ritornare per fato ?

 

Egli viaggia. Contano le pietre

anco i suoi passi; e al pellegrin le porte

anco dischiude coi suo nome in bocca

l'ospite gente!

 

Che qui, in questa sede delle Compere e dei Banchi, in questo archivio di car­tolari e di registri, tra imposte, proven­ti, sconti, scuse, paghe mature, il novo Console m'abbia onorato accogliendomi con l'eleganza di un nobilissimo umani­sta, diserto e squisito come quel vostro Andriolo della Maona di Scio, è già mirabile cosa. Ma che qui a colmarmi d'onore sia deputato un poeta mero e della specie più pura, è singolarissimo evento.

Questo mio fratello, « diletto fratel mio di pene involto », in miserrimi tempi, le­vandosi di sopra ai trafficatori di ciance, si domandò in un'ode profetica: «Quando tornerà Garibaldi? »

Egli è tornato. « Sopravveniente » era egli detto nell' inscrizione della medaglia coniata dal Comune. Or egli è soprag­giunto, su l'immensa onda popolare. On­nipotente mito agli Italiani egli è come l'Alighieri. L'uno e l'altro sono con noi, sono di noi. Tutti qui siamo pronti a con­fessare questa certezza.

L'uno già spazia fra l'Alpe di Trento e il Quarnaro, ma col suo sguardo aquilino respinge i termini ben più lontano, sino a quell'estrema spiaggia dove la fedele gente dàlmata, intorno alla statua d'un severo amatore di libertà che morì cieco e veggente, ha istituito un culto d'aspet­tazione.

L'altro già corre a ricercare, in quell'alpe del suo cruccio, le armi e le anime che furono quivi spezzate, or è cinquan­tun anno.

 

Console del risorto San Giorgio, ospiti e compagni miei, in questo Palagio del Mare, dove sopra il camino di Gian Giacomo della Porta è raffigurata con imagine romana e con romana brevità

la vittoria dell'anima eroica su la fiamma pugnace -- Quid magis potuit --, noi vo­gliamo ripetere la sentenza che nel tempo della gesta d'oltremare attribuimmo al « Signor del novo regno ».

 

Chi stenderà la mano sopra il fuoco

avrà quel fuoco per incoronarsi.

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE NELL'ATENEO GENOVESE IL VII DI MAGGIO,

RICEVENDO IN DONO DAGLI STUDENTI UNA TARGA D'ORO.

 

GABRIELI NVNTIO • NOVA QVI PATRIAE DECORANS TEMPORA LAVRO • GRANDIA ET FORTIA EXCVDIT • FATAQVE ITALIS E AIORA • PRAECEPIT.

 

COME ringrazierò il Rettore Magnifico, il Collegio insigne dei Dottori, voi tutti, o giovani, voi figliuoli non inermi dell'armato San Giorgio e voi qui conve­nuti dalle terre lontane, pellegrini d'amore in veste affocata, simili a quelli che pas­savano nelle imaginazioni di Dante prima dell'esilio; come vi ringrazierò d'avermi accolto in questa sede severa dei vostri studii e delle vostre prove, d'avermi am­messo a questo focolare del vostro spi­rito, il più profondo fra tutti, dove due dei fratelli vostri immortali — l'uno co­ronato di mirto e di lauro, l'altro di ci­presso e di quercia — custodiscono la fiamma che qui arde ai Penati del pen­siero italiano?

Quella fusione magnanima che l'altro dì ci parve udir crosciare, là nella ragu­nata del popolo intorno all'alto simulacro, quella fusione di sangui e di anime, io la sento in voi maravigliosamente perfetta, o compagni della più bella fra le mie speranze, o voi che per tanti anni, con sì costante fede, io ho annunziati, aspettati, invocati, ecco, non invano.

Come ho veduto splendere i vostri occhi là sul lido, e nelle piazze e nelle vie e nei giardini! La bellezza d'Italia è così forte che, mentre nel ritorno la presentivo, mentre la riconoscevo, ella sembrava mi trapassasse, sembrava mi fendesse il petto, mi percotesse con una gioia che era quasi dolore. I monti, la neve e l'ombra nei monti, i torrenti, i fiumi, i boschi rinverditi, le nuvole, i fiori, e quel che su la terra è il cielo unico d' Italia, il lume d'Italia, l'odore d'Italia, non comparabile ad altri mai, tutto m'era ebrietà e ansietà di passione. Ma nei vostri occhi, ma nei vostri visi, ma nelle vostre fronti imperlate di sudore, ma nel vostro soffio che mi ravvolgeva, ma nel sorriso di tutta la vostra freschezza io ho sentito una primavera più potente che quella delle selve, dei colli, degli orti, ho sentito una rinascita più impetuosa che quella di tutte le altre creature.

Ieri in quel giardino di Andrea Doria, ove era disceso quel muto Leone di Trieste che stava in capo alla strada dei Giustiniani, voi faceste di voi catena intorno a me, camminando lungo i balaustri e lungo le siepi. Annodati per le braccia, vincolati per i polsi e per le mani, stretti l’uno all'altro, catena e ghirlanda, forza gentilezza, resistenza e grazia, accesi in volto, accesi negli occhi, fermi e pieghevoli, voi eravate una vita sola.

Siete una vita sola, siete una giovinezza sola, siete un'altra « Giovine Italia ». E il « fuoruscito senza Beatrice », rivivente, adolescente come voi, un poco più pallido di voi, ma immune dalla lesione degli anni, immune dalla morte, vi conduce e, come uno di quei semiddii che guidavano le primavere sacre verso le conquiste misteriose. E Goffredo è presente, con la sua bella chioma intonsa, con i suoi belli occhi marini; e ha seco le sue armi.

Egli torna dall'aver lavato il cavallo polveroso nel Timavo, come l’uno dei due Dioscuri lavò il suo, quando il Timavo era fiume latino. Egli ora ben conosce la via  che passa da Aquileia e va verso San Giusto, e più e più oltre. Egli ve l’addita, egli ve la mostra. E Iacopo Ruffini, non de terso del sangue che oggi è luce d'oriente, sarà inviolabile alfiere alla coorte giovenile.

 

Giovani, or è molt'anni, a un'altra adunata di giovani dicevo: « Oh, se io potessi tendere a ciascuno la mia mano fraterna e leggere nei limpidi occhi il pro­posito certo ! » Dicevo: « Voi siete la im­minente primavera d' Italia. La mia fede la mia costanza la mia aspettazione mi fanno degno di essere l'annunziatore della vostra volontà vittoriosa. » La vostra volontà vit­toriosa è in piedi; è armata; sta per ir­rompere. Se vi guardo, se vi considero, l’Italia mi sembra una vergine terra come quando apparve ad Agiate proteso dalla nave fatale, come quando per la prima volta su questo Mare Tirreno risonò nelle voci d'allegrezza il divino suo nome.

Stanotte, prima dell'alba (e sia l'alba che nelle sue dita di rosa brandisca il giavel­lotto del nostro Dio romano) stanotte molti di voi partiranno per le terre di lungi, per i focolari di lungi. Divampi nei vostri petti, o messaggeri di fede, o pellegrini d'amore, quella fiamma stessa che ardeva nei gio­vinetti notturni al sasso di Quarto!

Se è vero, come è vero, come io giuro esser vero, che gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l'ara d' Italia, prendete i tizzi con le vostre mani, soffiate sopra essi, teneteli in pugno, scoteteli, squassateli ovunque passiate, ovunque voi andiate. E appiccate il fuoco, miei giovani compagni, appicca­te il fuoco pugnace! Siate gli incendiarii intrepidi della grande Patria!

 

Stanotte, come si vedevano nella notte omerica i roghi accesi di monte in monte per annunzio di vittoria, noi vedremo in sogno splendere lungh'essa 1' Italia le vo­stre fiaccole correnti, fino a Marsala, fino al Mare d'Africa.

« Partite, apparecchiatevi, ubbidite » di­ceva il sacerdote di Marte agli imberbi consecrati. « Voi siete la semente di un nuovo mondo. »

« Partite, apparecchiatevi, ubbidite » io dico a voi, poiché mi fate degno di con­secrarvi. « Voi siete le faville impetuose del sacro incendio. Appiccate il fuoco! Fate che domani tutte le anime ardano! Fate che tutte le voci sieno un solo cla­more di fiamma: Italia ! Italia! »

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE AGLI ESULI DALMATI, RICEVENDO IN DONO IL LIBRO CHE AFFERMA DIMOSTRA E PROPUGNA L' ITA­LIANITÀ DELLA DALMAZIA,

STAMPATO IN GENOVA. VII MAGGIO MCMXV.

 

QUESTO libro d'amore, di fede e di rampogna un Italiano dovrebbe oggi ri­ceverlo in ginocchio, umiliato nell'atto di chiedere il perdono e di fare l'ammenda. A me rimanere in piedi davanti a voi, reverente ma non vergognoso, è consen­tito dalla coscienza di non aver mai dimenticata quella che Antonio Baiamonti, il « podestà mirabile » di Spàlato, chiamò « figlia minore d'Italia », quella che « seconda Italia » chiamò il dantesco Tommasèo. Ma l'Iddio degli eserciti mi conceda di potermi inginocchiare, in uno de' giorni prossimi, dinanzi a quell'uno de' vostri altari sotto la cui tavola i padri lacrimando riposero il ripiegato gonfalone republicano.

 

Se in Genova io nòmino Sebenico, Zara, Traù, sobbalzano nel sepolcro di San Matteo le ossa di Luciano d'Oria, che seppero il sale dell'Adriatico. La sua vittoria e la sua morte si commemorano alla stessa data che ci adunò sul lido di Quarto: il cinque maggio. Veggo le città dalmate insanguinate e affocate, prima che il ferro di Donato Zeno finisca sul ponte l'ammiraglio ancóra urlante dalla bocca squarciata: «San Zorzo ! San Zor­zo!»

Ma un'altra visione mi viene da un'al­tra vittoria inscritta fra le liste bianche e nere del tempio navale. È come un'al­legoria della nostra lunga cecità. Nelle acque di Curzola, Lamba Doria, avendo disposte le sue galee sopra vento, con polvere di calce viva bruciò gli occhi dei Veneziani condotti dal Dandolo; e sgo­minò quei disperati ciechi.

Mi sembra che da una simile cecità ostile siamo noi rimasti afflitti, dopo la sciagura di Lissa. Non abbiamo veduto, non abbiamo voluto vedere quel che i vincitori operavano, senza tregua, senza misericordia, per cancellare ogni vesti­gio del nostro dominio su la costa orien­tale, per distruggere ogni traccia d' ita­lianità su la bella spiaggia latina non consacrata soltanto dal sangue ma dallo spirito, non conquistata soltanto dalle armi ma dalle arti, non soltanto nostra per antica signoria ma per sempre novo pen­siero, non soltanto ricca di reliquie mute ma di cultura eloquente. Noi abbiamo lasciato compiere su voi, per anni e per anni, le più inique persecuzioni, o fratelli nostri magnanimi che opponeste alla mi­naccia il coraggio, all'ingiustizia la pa­zienza, la maschia gentilezza alla stupida atrocità. Noi non abbiamo osato aiutare né confortare la triste e taciturna lotta pro­seguita da voi, o fedeli di Roma, per cu­stodire la benedetta lingua d' Italia, per difendere i documenti dell'alta origine, per serbarvi contro tutti e contro tutto italiani. Come i marinai del Dandolo, noi abbia­mo distolto dalla battaglia i nostri occhi dolorosi!

 

Chiediamo perdono, facciamo ammen­da. I nostri occhi alfine si riaprono, sana­ti dal vento salutifero che soffia su tanta strage, su tanta virtù, su tanto orrore, su tanto amore. Di rimorso e di pietà do­vremmo piangere, o fratelli; ma non pian­giamo, sì bene guardiamo fermamente il destino.

Questo libro, che voi ponete nelle mie mani, è un atto di possesso. È breve, e pure ha grande peso. Ci significa, chiaro e conciso, nello stile di Roma, che la Dalmazia appartiene all' Italia per diritto divino ed umano: per la grazia di Dio il qual foggia le figure terrestri in tal modo che ciascuna stirpe vi riconosca scolpitamente la sorte sua; per la volontà del­l'uomo che moltiplica la bellezza delle rive inalzandovi i monumenti delle sue glorie e intagliandovi i segni delle sue più ar­due speranze.

E questo un vangelo dalmatico su cui possiamo giurare.

Sotto la forza latina di Roma, dei Papi, di Venezia, come sotto la forza barbara dei Goti, dei Longobardi, dei Franchi, degli Ottoni germani, dei Bisantini, degli Ungari, degli Austriaci, la vita civile della costa di là, come quella della costa di qua, fu costantemente di origine e di es­senza italiane. Fu, è, sarà. Non il Tede­sco dell'Alpe, non lo Sloveno del Carso, né il Magiaro della Puszta, né il Croato che ignora o falsa la storia, né pure il Turco che sì camuffa da Albanese, niuno potrà mai arrestare il ritmo fatale del compimento, il ritmo romano, Io ve lo dico, fratelli, ma voi lo sapete. Su questo vangelo dalmatico possiamo far giuro.

L'antichissima via consolare, che si par­tiva da Salona per a traverso la Bosnia, non è tuttavia battuta? Ella è, voi lo sapete, il solo cammino che allacci i borghi solin­ghi e i villaggi dispersi. Ella è così bene condotta, così bene costrutta, così bene assodata che gli uomini dovranno seguirla sino al termine degli evi.

Più lungi, su l'altro versante del monte Kvaratch, le rovine robuste d'una città operaia romana si levano in mezzo ai prati e alle selve, in vista alle cime ceru­lee della Serbia guerriera.

Or sembra che quivi il genio del luogo, genius loci, non sia nella lapide inscritto ma grandeggi tuttavia e del suo soffio riempia la cura, il tribunale, l'ipocausto, gli altari, i focolari. Il castro, dissepolto su la riva destra del torrente Saso, ha tutta­via la sua muraglia ben commessa, contro cui non valsero quindici secoli edaci.

Che mai può dunque valere lo sforzo de' barbari contro la legge di Roma? Là dove tali fondamenta ponemmo, là il ge­nio del luogo ci aspetta; là torneremo, là ritroveremo i segni vetusti e intaglieremo i nuovi.

Se stretta è la vostra spiaggia, o Dal­mati, amplissima è la civiltà che l'illu­stra. Siete quasi orlo di toga, ma tutta la toga è romana.

 

Rallegratevi, miei giovani compagni. Il tempo di servire è compiuto, il tempo di patire è compiuto. E giunto il tempo di combattere e di redimere; il tempo di liberare e di rivendicare è imminente.

A Lissa perì da prode il guardiama­rina dalmata Giovanni Ivancich, somigliante forse a taluno di voi che mi guarda con accesa la battaglia negli occhi lionati.

Come ti chiami, tu che arrossisci, fan­ciullo? Me lo dirà forse la gloria domani, me lo dirà domani la libertà nel suo grido sopra il mare sonoro.

Su questo vangelo dalmatico, intanto, giuriamo con un'anima sola.

Così sia, per i figli dei figli e nei secoli dei secoli.

 

 

 

 

 

MESSAGGIO AI GENOVESI

MANDATO DA ROMA IL XIII MAGGIO MCMXV.

 

GENOVESI, nella notte di ieri, calda di memorie eroiche, mentre l'anima vera della Patria fiammeggiava da tutto il popolo raccolto e in tutto il cielo non ardeva per noi se non la nostra stella, io recai a Roma il comandamento di Quarto. E Roma ri­spose con un grido così alto che certo vi giunse, giunse fino al sasso dove il Libe­ratore veglia.

Se mi vale il mio servigio tante volte a voi profferto, se mi vale la mia fede in voi confermata sempre, io vi prego di assi­stere la Patria in questa settimana di pas­sione, io vi supplico di proteggere 1' Italia con tutte le vostre forze, perché non si compia sopra lei l'orribile assassinio.

Ogni giorno radunatevi in gran nu­mero, abbiate presenti gli eroi che nel vostro bronzo risorgono; e manifestate il vostro sdegno, gridate la vostra minac­cia contro chi oggi si sforza di rotolar quanto più può di lordura, pei corridoi sordi, non dissimile all'insetto nausea­bondo che di tale officio vive e si gode.
Alla riscossa popolo di Genova! Italiani, alla riscossa!
La Patria è perduta se oggi non combattiamo per lei con tutte le nostre armi. Vincere bisogna questa suprema battaglia contro il nemico interno prima di muoverci con un solo impeto verso la santa riconquista.

Viva l’Italia dei martiri!

http://www.squadratlantica.it/