Caporetto - 1

Il 1917, rappresenta un anno di crisi per la Triplice Intesa. Sul fronte italiano la rottura conseguita dagli austro-tedeschi a Caporetto (curiosamente il primo toponimo a comparire nel primo bollettino di guerra italiano) assume connotati molto più vasti e profondi di una crisi militare o politica. Questo, a fortiori, per il testo del bollettino di guerra 887 redatto da Cadorna la cui diffusione all’estero, in Italia si riuscirà a bloccarlo ed eseguire una debita correzione, provoca gravi interrogativi in Inghilterra e Francia sulle capacità di resistenza italiane. Caporetto resterà nella storia italiana come un paradigma e fomenterà polemiche, sovente esagerate. Ci occupiamo dell’evento con la misurata ma vigorosa descrizione datane dallo storico militare Piero Pieri e quindi, nei due capitoli successivi, con una collazione documentaria delle conseguenze. Per parte nostra, per quanto possa apparire banale, riteniamo opportuno notare che per l’Italia la prima guerra mondiale non termina a Caporetto, ma l’anno successivo, a Vittorio Veneto. (g)

 

 

 

Da Caporetto al Piave

Piero Pieri

 

 

La rottura di Tolmino e Plezzo.

 

Al mattino del 24 ottobre, dopo una preparazione di artiglieria di quattro ore con granate a gas, e un tiro di distruzione di meno di due ore, ma violentissimo, sulle prime linee, si scatenava l'attacco nemico. Al Rombon era respinto sanguinosamente, in conca di Plezzo, grazie a potenti emissioni di gas, la prima linea era sfondata, e poscia anche la seconda, ma il nemico si fermava di fronte alla terza linea antistante alla stretta di Saga; nella zona fra Krasij e Vrsic, l'attacco era contenuto sulla linea di resistenza ad oltranza, e così pure al Monte Rosso, e di fronte al Mrzli era fermato dalla retrostante linea del Ple­ka. In complesso dunque la testa di ponte di Monte Nero aveva resistito tutta quanta. Ma in fondo valle e contro quasi tutte le posizioni davanti alla testa di ponte di Tol­mino, dove l'attacco tedesco condotto da 4 grosse divisio­ni fu particolarmente violento, le difese degli esili reparti della 19a divisione, non sostenuti dal tiro della nostra ar­tiglieria, venivano su larghi tratti travolte: il IV corpo era preso alle spalle, e il VII corpo in parte avviluppato, in parte ridotto ad agire con contrattacchi slegati, tardivi, di fronte a un nemico molto superiore di numero, e che applicava con grande abilità la tattica dell'infiltrazione e dell'aggiramento, giungendo con mitragliatrici alle spalle dei nostri, provocando disordine e scoramento in truppe stanche, nuove dei posti, non addestrate per nulla alla bat­taglia manovrata, alle pronte manovre di sganciamento e ripiegamento. Ad onta di ciò non mancavano gli atti di valore pur fra truppe che si trovavano ad affrontare situa­zioni nuove e del tutto impreviste. Ma la confusione e il disordine dilagavano tosto; d'ordine superiore era abban­donata la stretta di Saga, e poi il 25 lo Stol; quindi questo era fatto rioccupare, e l'attacco nemico trovava una resi­stenza a volte tenace, ma ormai frammentaria. Già al mat­tino del 25 si era aperta una falla paurosa; crollavano tut­te le difese non solo sulla sinistra dell'Isonzo, ma sulla destra, e gli Austro-Tedeschi da Tolmino si erano affac­ciati alle testate delle convalli convergenti verso Cividale del Friuli. Già la sera del 24 il Comando supremo ha mes­so in moto due terzi delle sue riserve; e il 25 tutte le ri­serve della 2a armata, all'infuori d'una sola brigata, sono gettate nella fornace: ma impegnate o no, esse non eser­citano alcun peso, nelle prime 48 ore, di fronte al fulmineo successo nemico. Prova evidente che la loro disloca­zione iniziale non corrispondeva alla situazione.

 

 

Il crollo della fronte dell'Isonzo.

 

La sorpresa strategica nemica ha colto l'esercito italia­no con riserve scarse e mal dislocate; ma essa non può non influire sull'animo del generalissimo. A lui che ignora molti particolari delle diverse situazioni, della mancata a­zione della nostra artiglieria, dell'entità dell'attacco nemi­co, un così repentino e ampio cedimento appare una cosa inesplicabile; ed egli oscilla fra la convinzione datagli dal­la fredda ragione, che occorra abbandonare risolutamente molto territorio per salvarne molto altro, e la tendenza istintiva ad aggrapparsi al terreno, a cercare di tamponare le falle, correndo al riparo qua e là per arginare la marea nemica traboccante. Il Cadorna infatti non poteva illu­dersi d'arginare la grande falla perché non disponeva di riserve a portata del fronte compromesso, né tanto meno poteva credere che truppe battute, e che egli per di più giudicava che si fossero assai debolmente difese, bastasse­ro a contenere il nemico. Alle dieci di sera del 24 il Co­mando supremo ordina alla 2a e 3a armata di rimettere in efficienza la linea del Tagliamento. Ma un'ora dopo pre­scrive la difesa sulla destra dell'Isonzo dallo Stol al Glo­bolak, e sulla Bainsizza. Al mattino del 25 il generale Capello propone personalmente al Cadorna l'immediata ritirata al Tagliamento, e conferma poche ore dopo, per iscritto, nell'atto di lasciare, sempre più malato, il coman­do della 2a armata, com'egli ritenga necessario di sottrar­re al più presto questa « allo stretto contatto e alla pres­sione nemica sotto la protezione d'una strenua difesa di retroguardie », ritirandosi fino al Torre, e meglio ancora, fino al Tagliamento. E adesso il Cadorna sembra persua­so, autorizza gli ordini relativi, e per di più prescrive alla 3a armata di mandare dietro il Piave le artiglierie meno mobili di grosso e medio calibro. Ma la sera alle otto e mezzo il generalissimo è ripreso da scrupoli: domanda al nuovo comandante della 2a armata, generale Montuori, se ritenga indispensabile la ritirata al Tagliamento, e udi­to che par possibile prolungar la resistenza col solo ab­bandono della Bainsizza, ordina alla mezzanotte la resi­stenza a oltranza « fino all'ultimo uomo » sulla linea Mon­temaggiore-Korada, e getta nel baratro le ultime riserve. Ma la linea stava per essere aggirata proprio all'estrema sinistra, a nord di Montemaggiore; la disposizione del Cadorna era ormai tardiva: tutto dipendeva dal tempe­stivo accorrere delle riserve del Comando supremo, e ta­le possibilità doveva giudicare molto più il Cadorna del Montuori.

 

Il 26 ottobre la nuova fronte è intaccata in vari punti, e verso sera il Montemaggiore, minacciato d'aggiramento, è sgombrato dalle scarse truppe salitevi poche ore prima. Solo al ricevere questa notizia, nelle prime ore del 27, il Cadorna ordina la ritirata generale al Tagliamento con una prima sosta e una strenua difesa di retroguardie sulla linea Torre-Versa. Ma in questo modo si sono perdute trentasei preziosissime ore; il nemico ha avuto tempo di far defluire nuove forze, e la ritirata dovrà ora compiersi sotto la sua diretta implacabile pressione! Infatti già nel pomeriggio il tenue velo di retroguardie è sfondato e il ne­mico occupa Cividale. Quasi nello stesso momento il Co­mando supremo abbandona Udine, e si trasferisce tutto quanto non dietro il Tagliamento, ma dietro il Piave: il Cadorna, colla sua segreteria, a Treviso, il resto a Padova. Nessuno resta a contatto immediato delle armate, in un momento così particolarmente delicato e in cui più che mai sarebbe necessaria l'azione dominatrice e coordina­trice del Comando supremo; e ciò mentre manca un Co­mando di gruppo d'armate! A Treviso il Cadorna si sa­rebbe trovato troppo lontano per avere la sensazione del­la travolgente realtà e per poter agire tempestivamente di fronte all'incalzar degli eventi. Ma c'è un altro fatto: l'or­dine di ritirata assegna alla 3a armata i ponti di Codroipo, che fin allora avevano servito alla 2a; ne priva cioè — pre­so dall'ansia di salvare l'armata del Carso — proprio quel­le truppe che per il loro stato di disorganizzazione e di crisi avrebbero bisogno d'aver agevolato il loro deflusso sull'altra riva del Tagliamento.

 

La linea delle retroguardie, dopo lo sfondamento di Ci­vidale, ripiega colla sinistra e col centro sul Torre; alla destra invece, non delle retroguardie soltanto, ma tutti e tre i corpi già sulla Bainsizza, piú l'VIII corpo, di estrema destra, già passato alla 3a armata, vengon lasciati dal generale Montuori, coll'approvazione del Cadorna, protesi quasi ad angolo retto fin verso Gorizia, per proteggere la ritirata della 3a armata dal Carso: 4 corpi della 2a arma­ta, vengono così trattenuti per garantire il deflusso di al­trettanti corpi formanti la 3a armata: uno come fiancheggiamento, e tre come fiancheggiamento del fiancheggia-mento! Non solo, ma questi tre, che si dovevano ritirare per ultimi, non dovevano utilizzare i ponti di Codroipo, ma traversare diagonalmente la pianura friulana, col ne­mico sul fianco, per passare il Tagliamento più a nord! Il Cadorna è ormai fisso nell'idea che la 2a armata sia tutta in sfacelo, e che bisogni salvare a qualunque costo la ter­za! Questa può infatti ritirarsi indisturbata. Ma la linea delle retroguardie sul Torre è rotta già all'alba del 28, e nel pomeriggio i Tedeschi sono a Udine: i tre corpi d'ar­mata rischian d'esser tagliati fuori. La sera il Montuori, resosi meglio conto della situazione, chiede al Cadorna che i ponti di Codroipo siano restituiti alla 2a armata; ma questi da Treviso si oppone: è « di supremo interesse con­durre in salvo almeno la 3a armata che si conserva salda ed efficiente »!

 

Non solo, ma sul Tagliamento nulla è predisposto per raccogliere le truppe in ritirata e imbastire la difesa del fiume; solo presso Pinzano, allo sbocco del fiume in pia­nura, si trova il corpo d'armata Di Giorgio, della riserva del Comando supremo, ottomila uomini in tutto, quasi privo d'artiglierie, di servizi di collegamento, mandato il 26 dai pressi di Palmanova. Alla testa di ponte di Codroi­po, che non è stata rimessa in efficienza, il Comando della 3a armata organizza alla meglio con elementi raccogliticci, una protezione vicina, e poi il 30 ottobre una divisione dell'VIII corpo stende un velo di protezione contro le provenienze da Udine. Il nemico già la sera del 29 è al Tagliamento, una decina di chilometri a nord di Codroi­po: non potendo guadare il fiume a cagione della piena, scende lungo la riva sinistra, supera con le sue infiltrazio­ni la protezione vicina e prende alle spalle protezione vi­cina e lontana stabilita dal lato di Udine. Alle ore tredici i nostri fanno saltare i ponti, quando interi corpi e masse d'artiglierie sono ancora sulla sinistra del fiume! Ormai non era più quistione di pertinenza fra la 2a e la 3a arma­ta; ciò che poté salvarsi dell'VIII corpo e degli altri tre corpi già ricordati, passò poi sui ponti piú meridionali di Madrisio e di Latisana.

 

 

Dal Tagliamento al Piave.

 

In conclusione, il ritardo di trentasei ore nell'ordine di ritirata e la rinuncia da parte del Comando supremo, pri­vo di abili ed energici ufficiali di collegamento, privo del necessario servizio d'informazioni, a guidare con mano ferma il ripiegamento dietro il Tagliamento, colle tristi conseguenze suesposte, facevano sì che la rotta, conteni­bile dapprima in limiti relativamente modesti, assumesse l'aspetto d'un vero disastro, che il numero dei prigionieri salisse a cifre impressionanti, e che le perdite di materiali divenissero gigantesche. Non solo, ma la linea del Tagliamento, che ove si fosse ripiegati tempestivamente la sera del 25 si sarebbe potuta tenere, conservando per di più l'anfiteatro morenico con la tanaglia difensiva preparata fin dal tempo di pace, ora, dopo tante perdite di uomini e di materiali, non era più tenibile, e rappresentava solo un'attrattiva pericolosa. E invece al Tagliamento la stes­sa crisi d'indecisione da parte del Cadorna, che abbiamo già visto dal 25 al 27: la lotta fra la fredda ragione e l'istinto e la speranza nell'imprevisto; sdegno contro le truppe rotte e forte timore che si tratti d'una crisi morale generale e speranza inconcussa che le truppe vincitrici d'undici ardue battaglie, sebbene battute e sfinite, siano ancora capaci dei maggiori sforzi: un'alternativa insom­ma di speranze eccessive e di sconforti esagerati. E in fon­do la convinzione insita nella natura stessa dell'uomo, che l'improvvisa grande rotta si dovesse agli errori di tutti, fuorché ai propri.

 

Il Cadorna dunque ordina il 29 che la linea del Tagliamento sia tenuta il più a lungo possibile; il 30 però av­verte la 4a armata di accelerare la ritirata sulla destra del Piave, curando al tempo stesso di proteggersi il fianco orientale, « data la crescente disgregazione della 2a ar­mata ». Il 31 però, ultimato il deflusso sui ponti di Pinza­no e di Cornino, alla richiesta del generale Di Giorgio di ritirare gli elementi del corpo d'armata speciale rimasti sulla riva sinistra e far saltare i ponti, il Comando supre­mo da Treviso risponde con un rifiuto. Ebbene, la briga­ta Bologna ad onta dell'eroica resistenza viene il giorno dopo accerchiata, sette battaglioni che sarebbero prezio­si per la difesa della riva destra rimangono sacrificati; i ponti sono fatti saltare in fretta e furia, e proprio sul pon­te di Cornino, solo in parte distrutto, passa il nemico la sera del 2 novembre! Poche ore prima il Cadorna ha pre­scritto che occorre prolungare il più possibile la sosta al Tagliamento, « salvo a trasformarla in arresto definiti­vo ».

 

Eppure anche dopo il forzamento del fiume a Cornino, il generalissimo esita quasi trentasei ore a dar l'ordine di ritirata al Piave, e spera di ricacciare con energici contrat­tacchi le prime forze nemiche affermatesi sulla destra del fiume o d'incapsulare l'avanzata nemica sulla linea dell'Arzino. Conseguenza di ciò, da un lato l'aggiramento in grande stile delle truppe schierate lungo il medio Tagliamento, e dall'altro la perdita delle due divisioni schierate sulle Prealpi Carniche. Sarebbe stato necessario che esse subito si ritirassero per i monti verso Longarone; invece il Comando supremo lasciò che venissero adoperate per una manovra da nord verso sud, allo scopo d'aprirsi lo sbocco in pianura, eliminando al tempo stesso la testa di ponte nemica. Il tentativo falli, e quando le due divisioni cercarono di prender la strada per Longarone, erano già accerchiate! Ormai non era possibile che una ritirata pres­soché ininterrotta: il 7 anche la linea della Livenza era abbandonata, e la strada d'Alemagna per Longarone e il Cadore restava scoperta: fortuna volle che il nemico non puntasse risolutamente da Vittorio Veneto su Ponte nelle Alpi e Longarone; così che solo elementi d'una divisione della Carnia ritiratasi per il Cadore e delle ultime retro­guardie della 4a armata rimanevano tagliati fuori il 10, per opera di truppe tedesche provenienti dalle Prealpi Carniche. La 4a armata s'era trovata ad avere il suo fianco orientale scoperto, dal 5 all'11 novembre; certo anche il generale Di Robilant, che la comandava, aveva tardato ad eseguire la ritirata sperando anch'egli nell'arresto al Ta­gliamento; e d'altra parte aveva in tal modo potuto sal­vare le artiglierie di medio e grosso calibro, che tanto contribuirono a salvare il Grappa.

 

Quanto al Comando della 14a armata, esso, delineato­si il grande successo, aveva il 26 ottobre mostrato la ten­denza a spostare le forze verso la propria destra allo scopo di compiere, secondo il piano stabilito in precedenza, una manovra avvolgente, la più ampia possibile, al di là del Tagliamento. Ciò secondo il Caviglia, fautore della teo­ria dell'avvolgimento immediato dei tronconi dopo la rot­tura, fu un errore. Il 29 il generale Hofaker, comandan­te del Gruppo centrale dell'armata, giunto al Tagliamento dieci chilometri a nord di Codroipo, di sua iniziativa rinunziava nel pomeriggio al tentativo di passare il fiume e disponeva per una grande conversione su Latisana. Ma la mossa era ormai tardiva: la sera del 29 la 3a armata era già al Tagliamento: se la 26a divisione germanica preclu­deva il 30 agl'Italiani il passaggio del fiume a Codroipo, nella zona di Pozzuolo e Mortegliano Tedeschi e Austria­ci non urtavano più che contro retroguardie del XXIV e dell'VIII corpo e contro i reggimenti Genova e Novara Cavalleria. D'altra parte il generale Boroevic aveva lascia­to che gl'Italiani si ritirassero quasi indisturbati dal me­dio e basso Isonzo: lungi dal vincolarli e permettere la grande manovra avvolgente della 14a armata, aveva re­clamato che non s'invadesse la striscia d'inseguimento delle sue divisioni! Avvenuto poi il forzamento del Ta­gliamento a Cornino, sarebbe stato opportuno, secondo il generale Krauss, che l'ala destra della 14a armata proce­desse a freccia lungo la pedemontana, per arrivare al Pia­ve, varcarlo al suo sbocco in pianura e avanzare ancora: non solo le forze italiane del medio e basso Isonzo e della Carnia sarebbero rimaste tagliate fuori, ma l'intera 4a armata, prima che giungesse a schierarsi sul Grappa. Invece la destra s'impelagò nelle Prealpi Carniche contro le divi­sioni della Carnia; il grande successo si ridusse alla cattu­ra delle tre divisioni della Carnia e della retroguardia del­la 4a armata a Longarone: mancava in tutti i Comandi la mentalità annientatrice!

 

 

L'esonero di Cadorna.

 

La mattina del 9 novembre il passaggio del Piave era compiuto da parte della 2a e della 3a armata, e la 4a ave­va quasi ultimato il suo schieramento sul Grappa e sul Montello. Quella stessa mattina il generale Cadorna la­sciava il comando dell'esercito. L'errore di valutazione sul carattere, l'entità, il punto dell'offensiva nemica l'ave­va portato a subire la sorpresa strategica, frutto dell'er­rata impostazione strategica della battaglia. A questo er­rore iniziale, da cui era derivata una serie di dolorose con­seguenze, si era aggiunto l'altro d'aggrapparsi al terreno sia sull'orlo delle prealpi friulane che sulle rive del Ta­gliamento; inoltre il cattivo funzionamento del Comando supremo aveva avuto quale conseguenza nei momenti più gravi, che il Cadorna non vedesse o vedesse tutto defor­mato, e si trovasse quasi isolato, in uno stato di crescente timore d'un totale dissolvimento spirituale dell'esercito. Il 25 mattina telegrafava al ministero della Guerra e all'Agenzia Stefani: « Alcuni reparti del IV corpo abban­donarono posizioni importantissime senza difenderle »; e alla sera: « Perdite in dispersi e cannoni gravissime. Cir­ca 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Ve­do delinearsi un disastro, contro il quale lotterò fino all'ultimo »; la mattina del 27, dopo la caduta di Montemaggiore e l'ordine di ritirata al Tagliamento e la deci­sione di lasciare Udine per Treviso, faceva stendere il famoso bollettino del 28 ottobre, subito diramato all'e­stero, ove si parlava di « mancata resistenza di reparti della 2a armata vilmente ritiratisi senza combattere e i­gnominiosamente arresisi al nemico » e telegrafava pure al presidente del Consiglio dimissionario, Boselli: « L'esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho in­viato al Governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta »; il 28 sera negava i ponti di Codroipo alla 2a armata, per salvare almeno la 3a; il 3 novembre sera, do­po il forzamento nemico del Tagliamento, scriveva al presidente del Consiglio una lettera ripiena del più nero pessimismo: « siamo di fronte ad una insanabile crisi mo­rale! » E concludeva: « Ho voluto così esprimere la si­tuazione nella sua dolorosa realtà.., per quei provvedi­menti di governo che esorbitano dalla mia competenza e dai miei doveri ». I generali hanno per lo più scarsa fi­ducia negli uomini politici, salvo a pretender da loro il miracolo nel momento del disastro!... Ma questa errata valutazione della realtà contingente contrastava del resto nell'animo stesso del generalissimo, sottoposto in quelle tragiche giornate a così ardua e dolorosa prova, colla so­stanziale fiducia che il Cadorna pur sempre nutriva nei suoi soldati, e si univa a quell'alternativa di timori ecces­sivi e di eccessive speranze, di cui ebbe a dare ripetuti segni. E di fatto s'era trovato pressoché solo: il ministro Bissolati, annotava nel suo diario il 4 novembre, a Trevi­so, dopo essere stato al Comando supremo: « Le notizie dal Tagliamento sono pessime; noto paralisi assoluta Co­mando! » Per di più l'Ufficio informazioni, ch'era stato così ottimista nel settembre-ottobre, ora vedeva da do­dici a quindici nuove divisioni tedesche nel Trentino, mentre si trattava d'una sola divisione in movimento, con scarsissima artiglieria, e che non fu mai impegnata. Pure dopo il 5 novembre, chiaritasi la situazione, il Cadorna riprese la fiducia nei suoi soldati, e il 7 novembre lanciava un ordine del giorno alle truppe, dichiarando d'esser in­flessibilmente deciso a tenere la linea del Piave: « nulla è perduto se lo spirito della riscossa è pronto, se la volon­tà non piega! »

 

Ma il suo stato d'animo alla fine d'ottobre e il caotico funzionamento del Comando supremo, erano stati la cau­sa principale della sua caduta. Il generale Foch giunse a Treviso il 30 ottobre, al mattino, in uno dei momenti piú gravi e dolorosi; poté ben constatare che le piú urgenti disposizioni per l'imbastitura della difesa del Piave erano state emanate dal Cadorna, ma rimase assai male impres­sionato del suo esagerato timore per le condizioni spiri­tuali dell'intero esercito italiano, nonché del funziona­mento del Comando. Certo non dovette vedere il Cadorna in uno dei suoi momenti migliori; e si trovò in disaccor­do con lui circa l'impiego dei soccorsi alleati: il Cadorna voleva che le quattro divisioni francesi prime arrivate (e costituenti la 10a armata) entrassero al più presto in li­nea, nel delicato punto di giuntura fra la montagna e la pianura, sul Montello; il Foch voleva invece che formas­sero la riserva e la massa di manovra, quella massa di ma­novra che al Cadorna era appunto mancata, e riteneva che la prima linea, dato il grande accorciamento della fronte e il non scosso spirito delle altre truppe, potesse esser tenuta dalla 4a e dalla 3a armata.

Sta di fatto che il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, Lloyd George, mentre subito affermò la non sminuita fiducia nel soldato italiano, pose come condizione dell'impiego dei rinforzi alleati che il Comando supremo fosse cambiato. E dal suo segretario parti poi la proposta di mettere il Cadorna nell'istituendo Comitato permanente interalleato.

Il 30 ot­tobre, dopo che nei giorni più tragici, dal 25 in poi, l'Ita­lia era rimasta senza governo, si era costituito il nuovo ministero, con Orlando alla Presidenza, Sonnino sempre agli Esteri, Bissolati all'Assistenza ai militari, Nittí alle Finanze, e alla Guerra il generale Alfieri anticadorniano.

Però né allora né dopo il forzamento del Tagliamento si era osato di eliminare il Cadorna, per timore del solito salto nel buio. Si dovette così accettare l'imposizione al­leata: e la scelta di Diaz, allora capo del XXIII corpo del­la 3a armata, parti dal ministro Alfieri: il re, scontento del Cadorna che mai aveva voluto accettare da lui consigli né riconoscere la sua utile funzione d'intermediario col go­verno, l'approvava e la comunicava verbalmente agli al­leati l'8 novembre, nel convegno di Peschiera; al tempo stesso il sovrano riaffermava la non scossa fiducia nel soldato italiano e la salda decisione di tenere la linea del Pia­ve. Al Diaz venivano poi aggiunti come sottocapi, il ge­nerale Giardino, già ministro della Guerra, nonché il generale Badoglio, proprio quello il cui corpo d’armata aveva subito lo sfondamento catastrofico, ma stimato in precedenza per la conquista del Sabotino nel 1916 e quella del Kuk e del Vodice nel maggio 1917, e raccomandato da Bissolati. Sotto la guida di questo modesto triunvirato l’esercito italiano si disponeva alla suprema lotta per la salvezza della patria.

 

 

Piero Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino 1971 (IV), pagg. 155-160.

 

 

 

Piero Pieri. - Storico italiano (Sondrio 1893 - Pecetto Torinese 1979)

Interventista democratico, combattente e decorato della Grande Guerra, fu professore universitario di storia a Torino dal 1935 al 1963. Alle sue ricerche di storia politica ed economica: La restaurazione in Toscana, 1814-21 (1922); Intorno alla storia dell'arte della seta a Firenze (1927); Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1800, (1928) hanno fatto seguito quelle di storia militare: Il Rinascimento e la crisi militare italiana (1952); Storia militare del Risorgimento (1962); L'Italia nella prima guerra mondiale (1965); La nostra guerra tra le Tofane (1967); Badoglio (1974, in collaborazione con G. Rochat); Guerra e politica negli scrittori italiani (1975).

http://www.squadratlantica.it/