D'Annunzio e il Maggio Radioso - Tacitum Robur

TACITVM ROBVR

 

Parole dette in una cena di compagni, all'alba del 25 maggio 1915





TACITUM ROBUR

 

 

 

 

 

È figlia al silenzio la più bella sorte.

Verrà dal silenzio, vincendo la morte,

l'Eroe necessario.

 

DELLE LAURI, LIBRO II

 

 

 

 

 

PAROLE DETTE IN UNA CENA DI COM­PAGNI,

ALL'ALBA DEL XXV MAGGIO MCMXV.

 

COMPAGNI, è l'alba. La nostra vigilia è finita. La nostra ebrezza incomincia.

Come il pico di Marte percote la scorza della quercia laziale, un cuore misterioso urta stamani il petto del primo combatterte. Il confine è valicato. Il cannone tuona.

La terra fuma. L'Adriatico è grigio, in quest'ora, come la torpediniera che lo taglia.

Compagni, è vero? Incredibile sembra l'evento, dopo tanta ambascia, Si com­batte con armi, si guerreggia la nostra guerra, il sangue sgorga dalle vene d'I­talia! Siamo gli ultimi a entrare nella

lotta, e già i primi incontro alla gloria.

Or ecco, intorno, tutto è silenzio. Roma tace. I suoi lauri sono immobili come le sue colonne.

Che è questo silenzio? Qual dio è pre­sente? Ascóltate.

Del silenzio che riempie la bocca dei suoi Archi, dei suoi Fòri, delle sue Terme, dei suoi Circhi, Roma fa una potenza nuova, una potenza vivente e formidabile.

In questa prima notte di guerra, sotto un cielo tumultuante di nuvoli e di chia­rori, il popolo non ha gridato, non ha. ingombrato le vie, non ha agitato le ban­diere, non ha minacciato né ingiuriato il nemico, non ha danzato intorno alle colonne venerande e alle statue illustri. È rimasto in una gravità silenziosa che sembrava fare di lui una massa più com­patta di quella che noi vedemmo adden­sarsi nella piazza del Campidoglio o sul Quirinale. Tra i monumenti che la torbi­da notte rendeva più vasti e più solenni, la volontà del popolo sembrava inalzarsi come il più vasto e il più solenne dei monumenti. Roma ridiveniva romana, co­me al tempo austero della sua republica. Stanotte, a un tratto, noi abbiamo ria­vuto coscienza della romanità, nel seno più ampio di questa parola superba.

Il tempio della Fede publica, di quella dea ch'ebbe candido culto nel Lazio pri­ma dell'avvento di Romolo, pareva rie­dificato e riaperto. E taluno di noi si ri­cordava dei trofei che vi aveva appesi Germanico vittorioso su i Germani. Ma, accanto al tempio della Fede, pareva riedifi­cato e riaperto quello della Costanza virile.

Stanotte, nella prima ora della guerra, il popolo di Roma non ha gettato alle nubi un vano clamore ma in silenzio ha offerto il sacrifizio alle due divinità che stanno sopra l'azione: alla Fede e alla Costanza. Severo spettacolo, maschio esempio.

O compagni, questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda creatrice di bellezza e di virtù apparsa in terra. Chi stanotte ha veduto Roma, bella indicibilmente, può partirsi dalla vita beato. Più pura che la faccia di Minerva sotto allo scudo con­cavo, appariva sotto al cielo ingombro la sua faccia divina. Noi l'abbiamo fissata dall'alto del colle, noi l'abbiamo contem­plata con una ebrezza che moltiplicava il potere del nostro spirito e lo sollevava sopra l'errore del tempo. La profondità di tutti i secoli è nello sguardo notturno di Roma. Però il futuro è la sua palpebra che mai non si chiude.

Chi di noi dimenticherà quel rapimen­to? Forse, nel giorno della vittoria, Roma non ci apparirà tanto bella. In quel giorno il destino sarà compiuto, e noi potremo misurarlo. Ma stanotte il destino era senza misura, e l'aspetto di Roma l'eguagliava in grandezza. La speranza non aveva limiti. Il sogno non aveva confini. I muti lampi, che a tratti illuminavano l'orizzonte dietro le cupole, parevano i bagliori d'un'opera in fusione, i riverberi d'una creazione rovente. Il solco di Romolo, disegno della città quadrata, stanotte sembrava divenuto la cintura della terra.

Ha detto un asceta nulla esser più reale d'una cosa poetica. Oggi noi sentiamo, dinanzi a questo miracolo patrio, che la poesia è verità, che la poesia è realtà. La decima Musa,

 

la nomata nel grido

Euplete Eurètria Energèia,

la nomata nel grido

umano coi nomi divini

delle plenitudini e delle

virtù, l'invocata da tutti

nell'alba,

 

la decima Musa ha tessuto il nostro nuovo destino. Gli uomini conduttori della nazione hanno obbedito a un ritmo apollineo, hanno tradotto in atti un carme fatidico. Questo lungo e penoso sforzo verso la vita ha qualcosa d'un mistero sacro. La nostra ultima settimana è stata una vera    « settimana di passione », a cui non è mancata nessuna angoscia, a cui non pure è mancato il sudore di sangue. Si poteva dire: « Madre, salvami da quest' ora;  ma per questo son io venuto in quest'ora.»

Abbiamo avuto sopra noi l'oscuramento  della tempesta, l'oppressura del nembo, e alfine il bagliore subitaneo della folgore. Non sapevamo quel che noi fossimo, non sapevamo quel che volessimo; ed ecco, sappiamo quello che siamo, sappiamo quel che vogliamo. La nostra certezza è salda perché generata dal dolore. L’Italia ha partorito il suo futuro con uno spasimo

atrocissimo; ha ansiato prima di assalire;  ha sanguinato prima di combattere.

Nelle ultime notti, le grida della moltitudine sembravano grida d’implorazione verso un dio redentore: Domine, exaudi nos!

Quando il dio ci ha esaudito, noi abbiamo cessato di esclamare. Abbiamo serrato la nostra anima intorno alla nostra verità e le nostre mascelle sul nostro proposito. Per ciò stanotte, nella prima ora della guerra, Roma è apparsa armata di silenzio. È rimasta taciturna come chi guarda il proprio fato e si sente a lui pari, anzi a lui sovrastante.

Compagni, ecco l'alba. E il sole stama­ni non vedrà nulla più grande di Roma, per l'universa terra.

 

Compagni miei, ecco fra poco l'aurora. Vi guardo, e mi sembrate più belli. I vostri volti sono così fermi che paiono riscolpiti dalla volontà secondo le più pure impronte della nostra razza. Sem­brate rinascere dal repentino amore, sembrate ridiventare fratelli nell'amore im­mortale. Nessuno di voi, certo, sapeva di tanto amare questa Gran Madre. Ma chi di noi primo saprà per lei morire?

C'è tra noi qualcuno già segnato, già eletto?

Foss'io colui! Non mi mentisca il pre­sagio, non m'inganni il presentimento.

Vi sovviene, compagni, d'un antico mio sogno? Venivano per le vie de' vènti come uno stuolo d'aquile senza nido, le nove Sorelle, « lacere i pepli, sconvolte le chiome, odorate di sangue e d'incen­dio, ebre di risa e di pianti, tumultuose di forze atroci e d'amori ineffabili, piene

i polsi di ritmi discordi ». E su la cima di un'alpe, che non era Libetro né Par­nasso né Elicona, si posarono ansanti; ma non cantarono, non intonarono l'inno. Vi sovviene di quale sostanza, rimanendo elle in silenzio, creassero per l'uomo « una Voce più bella del Coro castalio »?

Aquile senza nido, ripresero il volo, bal­zarono a sommo del cielo; senza traccia disparvero

« inclinate il fianco sul vento ». Nessuno vide se risero o piansero.

Allora la decima Musa, la nomata Ener­gèia, apparì, discese dal monte in mezzo agli uomini.

Questa è dessa, o compagni, la sola, a noi manifesta, fra noi presente. Sentite il suo nume?

Non ama le misurate parole ma il sangue abondante. Altre sono le sue misure, altri i suoi metri. Ella nòvera le forze, i nervi, i sa­crifizii, le battaglie, le ferite, gli strazii, i ca­daveri; nota i gridi i gesti i motti delle ago­nie eroiche. Ella computa la carne abbattuta, la somma del nutrimento offerto alla terra perché smaltito lo converta in sostanza idea­le, lo renda in spirito perenne. Ella prende il corpo orizzontale dell'uomo come misura unica per misurare il più vasto destino.

O compagni, questo non è il gelo del­l'alba ma un brivido più profondo. E siamo tutti pallidi. Il sangue comincia a sgorgare dal corpo della Patria. Non lo sentite? L'uccisione comincia, la distru­zione comincia. Uno della nostra gente è morto sul mare, uno della nostra gente è morto sul suolo. Tutto quel popolo, che ieri tumultuava nelle vie e nelle piazze, che ieri a gran voce domandava la guerra, è pieno di vene, è pieno di sangue; e quel sangue comincia a scorrere, quel sangue fuma ai piedi d'una grandezza invisibile, d'una grandezza più grande che tutto quel popolo. Mistero sublime, che nulla eguaglia, nell'universo. Noi ne tremiamo e ne siamo smorti.

Ma anche noi non abbiamo ormai altro valore se non quello del nostro san­gue da versare; non possiamo essere misu­rati se non a livello del suolo conquiso.

Ecco l'alba, o compagni, ecco la diana; e fra poco sarà l'aurora. Abbracciamoci e prendiamo commiato. Quel che abbiamo fatto è fatto. Ora bisogna che ci sepa­riamo e che poi ci ritroviamo.

Il nostro Dio ci conceda di ritrovarci, o vivi o morti, in un luogo di luce.


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