Volare è passione e vocazione, che riempie di sè una vita.
Adolf Galland
Aerei
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Caccia / Assalto
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Bombardieri / Ricognitori
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Scuola / collegamento
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Trasporto
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- Savoia Marchetti SM.95
- Junkers Ju.52/3m P.X R
- Douglas DC2 - DC3
Caccia / Assalto
FIAT G.50 Freccia, immagini, scheda e storia
Fino agli inizi degli anni Trenta gli aeroplani da caccia impegnati in tutto il mondo erano biplani. Questa formula – indiscussa – traeva origine dalla persuasione che la manovrabilità del biplano, le sue qualità acrobatiche, nonché la sua robustezza fossero superiori a quelle del monoplano.
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in Italia, le altissime qualità della lunga serie dei “CR” di Rosatelli avevano creato una solida convinzione di sicurezza per il biplano, dovuta anche ai successi conseguiti nelle manifestazioni acrobatiche dei nostri valorosi piloti militari, che li avevano resi famosi in tutto il mondo. Tuttavia la richiesta di sempre maggiori velocità aveva incominciato a far sorgere valide idee a favore del monoplano negli ambienti della strategia aerea. Questa tendenza si manifestò in modo notevole fra le autorità militari inglesi e tedesche, che predisposero un serio programma per la realizzazione di aeroplani da caccia con motori più potenti, con velocità più elevate e con maggiore capacità di armamento. Nel 1933 comparvero in Inghilterra l’Hawker-Hurricane ed il Supermarine-Spitfire, in Germania il Messerschmitt BF109: tre monoplani da caccia con motore raffreddato a liquido e potenze dell’ordine di 1.000 CV, con predisposizione di armi più pesanti di quelle fino allora adoperate e sistemate in fusoliera (con tiro attraverso l’elica) e nelle ali. Ciò influenzò notevolmente la tecnica aeronautica, e in tutte le nazioni più avanzate produsse un nuovo orientamento negli ambienti militari. In Italia, nel 1935, la Regia Aeronautica emise una specifica per un caccia monoplano e scelse i motori a stella raffreddati ad aria.
la FIAT, sulla base di tali indicazioni, su progetto di Antonio Fessia, costruì un eccellente motore a doppia stella di 840 CV in quota, denominato A74RC con riduttore e compressore. E mentre Rosatelli proseguiva nello sviluppo dei suoi CR biplano, io fui incaricato di progettare il caccia monoplano. Va notato peraltro che il progetto per il nuovo caccia non era seguito con totale convinzione né negli ambienti dell’Aeronautica militare, né in quelli della stessa FIAT. Permaneva infatti un certo scetticismo sulla formula del monoplano; inoltre la scelta del motore raffreddato a aria – mentre inglesi, tedeschi e francesi si erano orientati sui motori raffreddati a liquido – dimostrava discordanza sulle vie da seguire. Le autorità aeronautiche italiane preferivano il motore raffreddato ad aria, perché lo ritenevano meno vulnerabile, di quello raffreddato a liquido.
Mi misi quindi al lavoro su tali direttive, ma sorsero lunghe discussioni e dovetti soddisfare numerose richieste postemi davanti alla maquette al vero del velivolo, che avevo approntata nell’officina sperimentale dell’Aeronautica d’Italia a Torino. Solo dopo che laboriosi compromessi per l’armamento, la visibilità, la protezione del pilota, eccetera, si giunse ad una configurazione definitiva, partimmo per lo sviluppo del G.50.
Disgraziatamente l’Aeronautica d’Italia era impegnata nella produzione dei G.18 e dei CR, mentre le Officine CMASA di Marina di Pisa, di proprietà FIAT, avevano bisogno di lavoro. Pertanto fu deciso di affidare la costruzione del prototipo allo stabilimento pisano. Tale scelta rese molto più difficile il mio lavoro, allora diviso tra Torino e Pisa, a 350 chilometri di distanza. Malgrado l’aiuto che il capo dell’ufficio progetti di Marina di Pisa, l’ingegner Manlio Stiavelli, mi prestava, seguendo con scrupolosa attenzione i lavori in officina, ero costretto a fare ugualmente la spola tra Torino e Marina di Pisa, con grave dispendio di energie e di tempo.
A mano a mano che il lavoro procedeva, mi accorsi che l’officina mancava di esperienza e di iniziativa. Per questo dovetti affrontare e superare diversi contrasti con la direzione dello stabilimento e fui anche costretto a prendere decisioni sgradevoli, come quella di richiedere l’intervento dell’ufficio tecnico militare per far approvare il “sigillo di scarto” in parti ed elementi strutturali che obiettivamente non potevano essere accettabili. Mi sono poi pentito amaramente di non aver assunto allora posizioni più drastiche e di essermi sobbarcato un lavoro così difficile, duro e incompreso.
Comunque il prototipo fece il suo primo volo il 26 febbraio 1937, nel giorno del mio trentaquattresimo compleanno. Il pilota era De Briganti, un eccellente tecnico e un famoso idrovolantista. L’aeroplano si comportò molto bene, io già pensavo alle possibili varianti e ai miglioramenti che avrei potuto apportare al velivolo, quando una dimostrazione di volo alla presenza delle autorità pisane si concluse in tragedia: De Briganti, dopo varie evoluzioni, eseguì una picchiata a bassa quota e l’apparecchio si schiantò al suolo. La notizia giunse a Torino nelle prime ore del pomeriggio: ne rimasi fulminato. Per la prima volta, nel mio settennale lavoro di progettista, uno dei miei aeroplani era stato oggetto di un incidente mortale. La mia sicurezza era scossa, mi sentivo colpevole dell’immatura fine dell’amico De Briganti e un pensiero fisso mi torturava l’anima: dove avevo sbagliato? Meglio, molto meglio lasciare tutto e cambiar mestiere!
La tragedia mi aveva costernato. Le responsabilità del progettista aeronautico sono tremende; ero tanto sconvolto che non sapevo darmi pace.
Il senatore Agnelli, comprendendo il mio stato d’animo, volle vedermi prima che partissi per Marina di Pisa e, come sempre, seppe trovare le parole giuste. Battendomi affettuosamente una mano sulla spalla mi disse: “Sono cose che debbono succedere a chi crea e lavora. Ora l’importante è che lei riesca a comprendere le cause dell’incidente”.
Passai giorni dolorosi con i tecnici militari nell’esame dei resti dell’apparecchio, mentre sempre più mi convincevo che la tragedia non sarebbe accaduta se avessi potuto seguire da vicino la costruzione del velivolo e le prove.
Scartate le varie ipotesi che riguardavano il motore, rimase come probabile causa un flutter di alettoni. Per intenderci, si dirà che si tratta di una oscillazione instabile dovuta all’interazione fra le forze aerodinamiche e quelle aeroelastiche, proprie all’inerzia di qualsiasi parte strutturale di un aeroplano. È un fenomeno che allora era poco conosciuto. Dopo un attento studio vi rimediai provvedendo all’equilibramento dinamico degli alettoni.
Le prove di volo ripresero sul campo di S. Giusto. Pilota collaudatore era Guerra, già colonnello dell’aeronautica militare e le prove vennero ultimate in pochi mesi.
Ovviamente questo incidente aveva suscitato un’atmosfera di sospetto ancora maggiore verso il caccia monoplano. Vivevamo in tensione, quando, nel corso delle prove di uno dei prototipi, il pilota notò che subito dopo il decollo, non appena il carrello era completamente rientrato, si manifestavano sulla pedaliera alcuni scuotimenti che inspiegabilmente cessavano dopo pochi secondi. Non sapevamo spiegarci il fenomeno che tendevamo ad attribuire al timone di direzione o alla deriva. Per quante ispezioni e verifiche facessimo non si riusciva a trovarne la causa, ma durante uno dei voli di prova il pilota osservò che azionando il freno delle ruote subito dopo il decollo gli scuotimenti cessavano.
Ebbi allora l’idea che il fenomeno avesse origine nello sbilanciamento delle ruote, le quali una volta rientrate, ancora in rapida rotazione nel loro abitacolo posto sotto la fusoliera, producevano notevoli sollecitazioni dinamiche. La verifica del bilanciamento delle ruote fu subito eseguita e confermò che queste erano fortemente sbilanciate. Il fenomeno non sarebbe avvenuto se fossero state eseguite le prove preventive come prescritto.
La produzione del G.50 proseguì regolarmente su due linee, una a Marina di Pisa, una all’Aeronautica d’Italia in varie versioni, denominate G.50 bis, G.50 ter e G.50B (biposto).
Ne furono costruiti 740 e vennero impiegati in Spagna, in Finlandia, in Belgio, in Africa, in Grecia, oltre che in Italia. La Finlandia acquistò 50 esemplari e nel corso delle trattative inviò a Roma un suo esperto pilota: il giovanissimo tenente Tapani Harmaja, un ragazzo biondo dal viso di fanciullo, pieno di entusiasmo e di ardimento. Stava a Monte Celio, presso il campo sperimentale dell’Aeronautica militare, per poter provare l’apparecchio con comodità in tutte le condizioni di volo e d’impiego. Un giorno, il 14 novembre 1939, alla fine delle prove, che erano state più che soddisfacenti, si portò in alta quota e mise l’apparecchio in picchiata, in candela; raggiunta una certa velocità avvertì forti vibrazioni provenienti dalla coda. La tela che copriva parzialmente il timone di direzione si era strappata in lunghe striscie che sventolavano come bandiere impazzite. Tapani Harmaja si rese conto di quello che era successo, mise l’apparecchio in assetto di volo orizzontale e con calma, manovrando gli alettoni atterrò perfettamente.
La prova era stata veramente severa, fuori dai limiti di velocità consentiti; infatti dai valori rilevati dalle registrazioni di bordo potemmo constatare che nella picchiata aveva raggiunto la velocità di 840 km orari. Questi dati, redatti dal mio ufficio e raccolti in una apposita brochure, furono consegnati al pilota finlandese ed egli, noncurante del pericolo che aveva corso, si gloriava del risultato raggiunto. In realtà noi della FIAT avevamo di che essere soddisfatti; la macchina aveva dimostrato un’eccezionale robustezza. Durante la guerra Tapani Harmaja cadde in combattimento col suo G.50. io lo appresi, a guerra finita, dai suoi genitori che mi fecero chiedere, attraverso canali militari, una copia della relazione di calcolo sulla spettacolare picchiata di Monte Celio alla quale il figlio aveva parlato con fierezza.
Negli anni successivi lo Stato Maggiore italiano si accorse finalmente che il motore stellare raffreddato ad aria come l’A.74 non consentiva di raggiungere le velocità necessarie e si orientò su un motore raffreddato a liquido, di maggiore potenza, aderendo così alle idee che in Germania e in Inghilterra avevano portato alla produzione dei Messerschmitt, degli Hurricane e dello Spitfire. Fu chiesto alla FIAT di modificare un G.50 per montarvi il motore tedesco istallato sui Messerschmitt: il Daimler-Benz 601 da 1.050 CV in quota; nacque il G.50V, un aeroplano di prova che fu utile per affrontare i problemi connessi con l’istallazione dell’armamento e dell’impianto di raffreddamento. Era evidente il preludio alla richiesta, che venne immediatamente dopo, di progettare un aeroplano da caccia dotato di quel motore e con caratteristiche di armamento e protezione molto più avanzate del G.50.
Giuseppe Gabrielli Una vita per l’aviazione Bompiani, Milano 1982