Volare è passione e vocazione, che riempie di sè una vita.
Adolf Galland
Aerei
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Caccia / Assalto
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Bombardieri / Ricognitori
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- Breda Ba.201
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Scuola / collegamento
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- SAIMAN 200
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Trasporto
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Bombardieri / Ricognitori
Savoia Marchetti SM.79 Sparviero, immagini, scheda e storia
Posto di pilotaggio di un Savoia Marchetti SM.79 Sparviero
Il pilota
Iniziamo con la testimonianza del più famoso asso degli aerosiluranti, Carlo Emanuele Buscaglia. Nell’articolo pubblicato su Ali di Guerra n. 33 del 10 ottobre 1942 descrive come viene svolta un'azione di siluramento. È uno scritto piano, pulito, senza retorica: il lettore ne trae un'informazione viva su un'azione di aereosiluramento, nei suoi aspetti tecnici, umani e psicologici; una testimonianza in cui non vi è assolutamente nulla da aggiungere o da cambiare.
Da qualche tempo, amici, conoscenti e colleghi mi rivolgono spesso questa domanda: « Ma dimmi un po', come viene svolta un'azione di siluramento? ». Poiché penso che la risposta possa interessare anche i lettori di Ali di Guerra, cercherò di spiegare ad essi nel modo più semplice possibile, in maniera da farmi capire anche da coloro che di aviazione poco se ne intendono, come viene effettuata un'azione di aerosiluramento, e così risponderò anche in una volta, ad amici, conoscenti e colleghi.
Prima di parlare dell'azione, sarà bene dire due parole sull'equipaggio di un aerosilurante. E' desiderabile che i componenti di esso siano tutti volontari nella specialità, ma è strettamente necessario che siano perfettamente addestrati al volo sul tipo di velivolo in uso per l'aerosiluramento ed abbiano un'ottima capacità tecnico-professionale. Ogni equipaggio deve formare un tutto armonico ed emogeneo: affiatamento, fiducia l'uno nell'altro, elasticità di mente, capacità professionale, calma nel pericolo, sono le forze che tale perfetta unione debbono cementare. Sul velivolo, come e più che su una grande nave, una volontà sola deve dominare, quella del comandante, in modo che prima, durante e dopo l'attacco non si verifichino incertezze o esitazioni che potrebbero compromettere l'esito dell'azione.
Il personale dei reparti aerosiluranti italiani possiede in modo perfetto queste caratteristiche, grazie alla perizia e alla cura con cui viene istruito nei nuclei di addestramento della specialità, alla quale tanti giovani sono accorsi pieni di entusiasmo e di orgoglio.
Nessun ostacolo, nessuno sbarramento contraereo, nessuna reazione aerea nemica, riescono a fermare lo slancio dei siluratori italiani che, specie nelle ultime battaglie del giugno e dell'agosto, hanno dimostrato la loro perizia, il loro sprezzo del pericolo ed il loro eroismo.
I risultati conseguiti in questi due anni di attività di guerra, il progresso continuo degli strumenti di puntamento,di angolazione e di sgancio, il miglioramento degli aeroplani in dotazione, sono fattori che contribuiranno a rendere questa nuova arma sempre più micidiale per il naviglio mercantile e da guerra nemico.
Gadurrà (Rodi), primavera 1941. Il capitano Buscaglia e del suo equipaggio con alle spalle il fido Savoia Marchetti SM.79. Da sinistra: sergente maggiore motorista Dante Scaramucci, maresciallo pilota Pasquale Di Gennaro, capitano Carlo Emanuele Buscaglia, sergente maggiore marconista Luigi Venuti, I aviere armiere Giuseppe Sanna
London, Kent, Liverpool, Nelson, Protector, sono nomi che, mentre destano negli Inglesi ben cocente ricordo, costituiscono altrettanti titoli di gloria per gli aerosiluratori italiani.
Gli aerosiluratori sono sempre in allarme in qualsiasi ora del giorno e della notte. I piloti e gli specialisti mangiano e dormono sotto le ali dei loro aeroplani, e non appena, su segnalazione della ricognizioni marittima o di unità di superficie e subacquee nazionali, si ha notizia della presenza di qualche unità o convoglio navale nemico, la formazione dei siluratori aerei parte in brevissimo tempo, senza alcun incidente, grazie alla meticolosità e alla precisione delle disposizioni in precedenza impartite, che ne regolano l'involo.
Effettuata la navigazione di andata e avvistato il nemico, il Comandante in un piccolissimo intervallo di tempo deve decidere l'attacco, ideare il modo come esso deve essere condotto, stabilire l'unità o le unità da attaccare, avere già chiara nella mente la rotta di scampo, tenendo anche presenti le condizioni atmosferiche, l'entità della formazione nemica, la presenza della caccia avversaria, il fattore sorpresa, e ciò considerando il numero degli aerei attaccanti.
In quell'attimo il Comandante diventa un essere, direi quasi, più che umano: non si cura del fuoco contraereo nemico, non si cura della caccia avversaria, non si cura di tutti quei fattori che potrebbero portare alla distruzione del proprio velivolo e causare la morte sua e dei suoi compagni. Egli vede una cosa sola: l'obiettivo che ha deciso di attaccare. E fino a che il siluro non sia sganciato a bassissima quota ed a distanza ravvicinata, non distoglie lo sguardo dall'unità nemica.
Compiuta la missione, però, un nuovo sentimento lo invade: la volontà di salvare sé ed i suoi compagni e di riportare a casa, oltre all'apparecchio col suo prezioso carico umano, la notizia della nuova vittoria.
Il rientro è senza preoccupazioni, allietato dal pensiero gioioso di poter riatterrare alla base di partenza e abbracciare i camerati che attendendo passano attimi di vera e intensa trepidazione.
E una volta a terra, quando nell'ufficio del Comandante si è svolta, severissima e rigorosissima, un'inchiesta per accertare i risultati conseguiti attraverso l'esame dei fotogrammi che il fotografo di bordo ha scattato al momento giusto, tutti hanno la coscienza di aver compiuto il proprio dovere e niente più. Il pensiero della ricompensa è lontano dalla mente di questi valorosi, e se il segno del valore fregerà i loro petti, sarà ad essi caro, soprattutto perché legato al ricordo vivo degli attimi trascorsi con i compagni di rischio e di gloria, all'attacco di quella grossa unità i cui pezzi facevano un fuoco d'inferno, tanto che la nave sembrava un vulcano.
Questa guerra, nel novero delle armi aeree, ha dato il posto di onore al siluro l’arma costosa e tremenda è oggetto di diligente preparazione (Didascalia originale della Rivista Aeronautica anno XVIII n.6 giugno 1941)
Il secondo pilota
Dopo il pilota comandante, sentiamo le impressioni di un secondo pilota, il collaboratore più diretto nella conduzione del velivolo, al quale erano demandati particolari compiti specifici.
Nel nostro caso si tratta del cap. Pasquale Di Gennaro, che fece parte degli equipaggi del 132° Gruppo, volando quindi con il com. Buscaglia e con il com. Graziani e compiendo così un gran numero di azioni tra le più clamorose portate a termine dai nostri aerosiluranti.
D. Quali erano le mansioni specifiche del secondo pilota a bordo dell'SM.79?
Non credo si possa parlare di un metodo unico. Pertanto accenno alle mansioni affidatemi dal comandante Buscaglia con il quale ho effettuato la maggior parte delle mie azioni belliche e di siluramento.
R. Il decollo e l'atterraggio erano compito esclusivo del comandante. I comandi mi venivano affidati subito dopo il decollo e per tutta la durata della navigazione.
L'intervento del comandante era per eventuali correzioni di rotta. Ciò con qualsiasi condizione di tempo, per voli diurni e notturni. È noto che si preferiva sorprendere la formazione navale nemica alle prime luci del giorno o a luce quasi crepuscolare.
D. E nella fase di attacco, mentre il comandante puntava sulla nave da colpire, che incarichi svolgeva il secondo pilota?
Dal momento dell'avvistamento (non sempre la sorpresa riusciva), mentre il comandante con il binocolo si rendeva conto del numero e del tipo di navi da attaccare, ubbidiva ai suoi segnali per l'assetto del velivolo perché lui stesso potesse meglio osservare.
Deciso l'attacco il comandante ripigliava i comandi mentre io, come da sue precise disposizioni, mi tenevo leggerissimo sui comandi. Giusta disposizione. Diceva Buscaglia: « Se rimango colpito, lei deve essere pronto a intervenire e continuare l'azione ».
A segnali convenuti il motorista azionava la levetta per il lancio del siluro.
La manovra per sfilare e allontanarsi dalla formazione navale era tutta un susseguirsi di rapide picchiate e impennate effettuate dal comandante. Ed io sempre leggero sui comandi. Guai se scostavo anche per un istante una mano dal volantino.
Chi veniva designato come secondo pilota? Un subalterno in grado, o un « meno esperto », oppure qualcuno specificamente addestrato al ruolo?
Primo pilota giovane - secondo più esperto. E viceversa. Ma il primo era sempre ufficiale. Questi i concetti di massima. Ma per la specialità aerosiluranti, specie all'inizio, credo non sia stato mai un problema.
Fior di ufficiali capi equipaggi e una schiera di secondi esperti, con migliaia di ore di volo, in condizione di essere a loro volta capi equipaggi in qualsiasi momento.
E se ai reparti arrivavano « pivelli » i comandanti dei reparti stessi si regolavano in modo logico e, secondo la disponibilità dei piloti, sempre nel modo migliore.
Ma più che di primo e secondo pilota si deve parlare di equipaggio quale entità unica. Prima di tutto infatti era necessario creare l'addestramento e l'affiatamento di tutto l'equipaggio.
D. Che compito aveva il secondo pilota quando l'aereo veniva attaccato dalla caccia nemica?
R. Nessuno in particolare; per i velivoli dei « gregari » sì, era speciale: dovevano cercare di affiancarsi al capo formazione il più possibile per creare una barriera di fuoco con le mitragliatrici sul « gobbo » e volare a bassissima quota quasi a sfiorare l'acqua; oppure in caso di nubi basse infilarcisi dentro.
Con Buscaglia era mio il compito di pilotare 1'SM.79 da capo pattuglia.
Esulando dalle vostre domande sento il dovere di precisare: erano gli specialisti a difenderci dalla caccia: questi valorosi combattenti, che tante volte ci hanno salvato, che hanno sempre collaborato durante le azioni, con ubbidenza, capacità, serenità e con palese fiducia in chi aveva il compito del comando.
Mi si conceda di ricordare quelli facenti parte del mio equipaggio in tante azioni: il motorista Dante Scaramucci caduto poi in azione con il comandante Carlo Faggioni, il grande aerosiluratore (a mio parere il più completo); il marconista Luigi Venuti, maestro nei rilevamenti, preciso nel passarci i Q.D.M. (Rotta magnetica per raggiungere un determinato punto, N.d.R.) come nell’'usare la mitraglia 12,7; i capaci armieri Sanna e Mataluna.
Ore e ore di volo a volte senza dire una parola — tutti sapevano quello che dovevano fare e come intervenire in caso di emergenza. — Certo riponevano fiducia in noi piloti, ma quanta serenità ci trasmettevano con la loro calma e il loro sorriso.
E una volta a terra ancora a lavorare con qualsiasi tempo per il rifornimento e messa a punto degli aerei spesso decentrati a chilometri di distanza dalla base, a curare le ferite inflitte al loro velivolo dalla contraerea o caccia nemica.
Ed a conclusione Di Gennaro ci descrive la famosa azione del 13 ottobre '41, come la visse a bordo del suo SM.79, con l'attacco e l'epico ritorno alla base, con l'aereo danneggiato.
Dell'SM.79 non si dirà mai bene abbastanza. Gli è stato chiesto tutto; anche manovre acrobatiche, ed è il massimo per un trimotore.
Ma in guerra ha fatto faville ... episodi clamorosi! Se ne potrebbero raccontare a decine. Questo è uno meritevole di essere menzionato.
13 ottobre 1941 — Al largo di Alessandria attacchiamo una forte formazione navale inglese, due corazzate scortate da incrociatori e cacciatorpediniere per un totale di 13 unità (L'azione venne condotta da tre equipaggi della 281.a squadriglia comandati da Graziani, Faggioni e Cimicchi. Le due corazzate erano la Queen Elizabet e la Barham. L'attacco di Graziani venne effettuato contro la Queen Elizabet che successivamente venne gravemente danneggiata nel porto di Alessandria la notte del 19 dicembre 1941 dall’SLC (“maiale”) di Durand de la Penne e Emilio Bianchi, N.d.R.).
Mio capo equipaggio: l'allora tenente Giulio Cesare Graziani, per sicurezza, audacia, stile, pari a Buscaglia.
Puntiamo e lanciamo il siluro contro una corazzata. Nella manovra di scampo sfiliamo tutta la formazione e il fotografo Di Paolo può fotografare così da vicino la nave da fissarne sulla negativa le insegne di comando.
La reazione contraerea si fa onore. Ci colpisce con una cannonata procurandoci sull'ala destra un foro di qualche metro quadrato e con tanti altri colpi ci danneggia longheroni, carrello,gomma della ruota, e tante pallottole sotto i sedili, nell'abitacolo ecc. Sembra finita, il velivolo con l'ala destra ormai sta per impattare l'acqua ma in extremis risponde alle manovre del pilota e riprende l'assetto normale. Che volo per circa 600 km con tanti danni! Poco motore, perché l'ala sembra volersi spezzare con quel foro al centro, con il semicarrello destro fuori e la gomma afflosciata.
Sono due ore e mezza di volo con una vibrazione continua, uno sforzo enorme di braccia e piedi per tenere il giusto assetto a velocità ridotta, ma l'SM.79 ubbidisce alla volontà degli uomini e non ci tradisce nemmeno in atterraggio facendo quello che il pilota richiede.
A distanza di anni mi chiedo ancora come fu possibile salvarci.
Senza dubbio valentia di uomini, equipaggio affiatato, ma assistenza della nostra Protettrice che prima di esserci vicina nel pericolo, ha illuminato il progettista del velivolo detentore di tanti records, l'incassatore senza pari dei colpi della contraerea e della caccia nemica, del magnifico SM.79.
Gadurrà (Rodi), primavera 1941. Appoggiati al piano di coda di un Savoia Marchetti SM.79
il capitano Buscaglia e del suo equipaggio studiano una carta
Savoia Marchetti SM.79 l’impianto radio e marconista
Il radiotelegrafista
Giovanni Capaldi fu radiotelegrafista nel 132° Gruppo Aerosiluranti: gli furono rivolte alcune domande circa le apparecchiature di bordo nonché i compiti ed i problemi di questo specialista. Le sue risposte non solo furono molto esaurienti per quanto riguarda gli argomenti specifici richiesti (spesso con dettagli tecnici che richiederebbero, forse, un approfondimento particolare per i profani...) ma arricchite di osservazioni, aneddoti e notizie di carattere generale, molto interessanti.
D. Può esprimere un giudizio sulla qualità delle apparecchiature a bordo degli SM.79 e parlarci in generale sulle funzioni del radiotelegrafista durante un'operazione?
R. Le apparecchiature radiotelegrafiche e radiogoniometriche installate a bordo degli aerei italiani — e, in specie, degli SM.79 — erano inadeguate, usurate, in buona parte sorpassate dalle nuove conoscenze acquisite dalla tecnologia, cronicamente guaste. Ciononostante, ci si riusciva a tirare avanti, in qualche modo; c'era chi riusciva a farle funzionare a furia di scossoni e talvolta a calci; poteva funzionare il trasmettitore sì e il ricevitore no o viceversa e capitava naturalmente anche il caso che funzionassero tutti e due. Ci si faceva l'abitudine e tutto rientrava nella norma. In definitiva, per imperfetti che fossero, spesso gli apparati radio svolsero un ruolo importante e, talvolta, determinante.
Oggi da qualsiasi aereo si comunica direttamente in fonia (Ossia le parole stesse vengono trasmesse via radio e non è più necessario convertire in codice Morse e trasmetterle ad impulsi distinguibili solo per durata: punti e linee, N.d.R.); abbiamo addirittura sentito gli astronauti in volo verso la luna parlare tranquillamente da centinaia di migliaia di chilometri di distanza ma, nel 1941, '42 e '43, eravamo ancora alla preistoria delle radiocomunicazioni: alla fonia non si pensava neppure. Alcuni timidi tentativi vennero effettuati verso la fine del conflitto, ma sempre limitatamente a punti assai ravvicinati, di non oltre quattro-cinque chilometri: praticamente, si poteva realizzare la comunicazione tra i pochi velivoli d'una stessa formazione; ma, così, la fonia non serviva a gran che: infatti, gli esperimenti vennero abbandonati.
Era molto raro il caso di un reparto in volo con tutti gli apparati radio efficienti. Talvolta mancava il radiogoniometro che presto si rivelò uno strumento pressoché indispensabile nei voli lunghi e specialmente nei voli notturni.
Il velivolo del capo-squadriglia (sul quale, di regola, volava il capo-specialista che, ovviamente, riservava a sé la migliore apparecchiatura) era funzionante in ogni sua parte, ma i gregari avevano sovente impianti imperfetti se non addirittura guasti.
Fin quando gli aerei stavano in formazione, non c'era di che preoccuparsi, giacché era il marconista capo-squadriglia che provvedeva a tutto per tutti; ma quando l'apparecchio restava solo e magari volava di notte se non addirittura nella tempesta (nei mesi invernali queste occasioni capitavano spesso), con la bussola che impazziva sotto le scariche elettriche e la terra che non si vedeva, eran guai seri.
Di apparecchi nuovi da montare in sostituzione di quelli guasti, neppure a parlarne. La possibilità di sostituirne uno vecchio con altro migliore (se non proprio perfetto) si realizzava solo quando un velivolo per una qualsiasi ragione veniva seriamente danneggiato e doveva restare a lungo nell'hangar per le necessarie riparazioni. In quel caso, i marconisti si facevano un dovere di saccheggiarlo dei pezzi che si eran salvati e dei quali avevan bisogno per mettere a punto gli apparati del proprio aereo.
Circa la propensione ai guasti, basti pensare che l'antenna di trasmissione consisteva in un lungo filo di rame acciaioso di alcune decine di metri, che si svolgeva da un apposito tamburo e che si tendeva sotto il ventre dell'aeroplano, tirato giù da una sfera di piombo grande come una mela. Ora bisogna sapere che quel lungo filo appeso intralciava in qualche modo le necessarie evoluzioni dell'aerosilurante che di regola volava a bassissima quota. Non sarà difficile immaginare quanto fosse seccante svolgere e riavvolgere quel filo; l'operazione si doveva compiere manualmente, facendo girare il tamburo raccoglitore, in modo attento e lento, per impedire che il filo si aggrovigliasse. Accadeva — non molto spesso, ma neppure troppo di rado — che il filo si spezzava, la sfera di piombo cadeva giù e il trasmettitore restava senza antenna.
Certo le nostre apparecchiature non erano neppur lontanamente paragonabili a quelle installate sui velivoli americani, in grado di superare centinaia e migliaia di chilometri radioguidati. Tale differenza qualitativa crebbe a dismisura quando gli Anglosassoni, un paio di anni dopo l'inizio del conflitto, cominciarono ad utilizzare su larga scala il radar che noi, allora, non conoscevamo e che chiamavamo, con la solita vena ironica dei soldati, « rastrelliera ».
Va aggiunto, poi, che le nostre trasmittenti non avevano grande portata; se non ci aiutavano le condizioni atmosferiche, dopo alcune centinaia di chilometri restavamo senza alcun collegamento. Volando lungo le coste egiziane — nostra abituale zona di caccia — eravamo senza alcun contatto radio.
Quando nel 1943 compimmo l'azione su Gibilterra, benché fosse una notte splendida e tutti gli equipaggi minuziosamente preparati, perdemmo quasi immediatamente il contatto tra noi e ciascuno se la dovette vedere per proprio conto. Sette velivoli si persero per strada sorvolando la Spagna e dovettero tornare con il siluro a bordo. Io potei utilizzare dapprima qualche stazione pirenaica, poi, più nulla. Fortunatamente la nostra navigazione poté procedere senza intralci; avendo ormai superatole zone più scabrose, ed essendo la Spagna illuminata, con le carte nautiche potevamo riconoscerne le città, i fiumi, le sierre, fino a Cadice da dove c'inoltrammo nell'Oceano Atlantico per sorprendere gli Inglesi che non potevano attenderci da quella parte.
Corrisponde al vero che spesso gli aerei italiani erano portati fuori rotta da falsi segnali emessi da radiotrasmittenti inglesi? In caso affermativo, come poteva contrastare questa azione di disturbo?
Secondo certe comode rievocazioni retrospettive, le radiotrasmittenti inglesi si inserivano nelle nostre trasmissioni al fine di mandarci su false rotte, addirittura a tiro dei loro cannoni antiaerei. E' una favola. In oltre cento ore di volo in buona parte svoltesi di là delle nostre linee (Africa Settentrionale, Malta, Cipro, Mar del Levante, Gibilterra ecc.) mai una radio estranea s'è inserita nelle mie trasmissioni.
D'altronde, non so come un trasmettitore nemico avrebbe potuto influire sulle nostre rotte. Gli itinerari eran prestabiliti. Nel corso del raid venivano presi appuntamenti con determinate stazioni. Le nostre conversazioni, per elementare prudenza (in teoria, eventuali cacciatori nemici avrebbero potuto individuarci e, quindi, intercettarci) non duravano mai più di dieci secondi, limitandosi alla notizia, ovviamente cifrata, che tutto procedeva bene o che si era sulla via del rientro. Tutto il colloquio si riduceva il più delle volte a un solo punto (corrispondente a una battuta del tasto), il che stava a dire che tutto era O.K. e non c'erano novità.
Certe volte la trasmissione durava qualche minuto; era questo il caso in cui il marconista avvertiva l'aeroporto (affinché ivi predisponessero i mezzi necessari alla bisogna) che c'erano feriti a bordo, o che l'aereo era gravemente danneggiato o che aveva il carrello bloccato per cui l'atterraggio doveva essere eseguito « sulla pancia » — come in gergo si diceva — con quei pericoli per l'equipaggio oltre che per gli altri aerei a terra, che ognuno immagina. Questi casi si verificavano però solo ad azione effettuata, quando, cioè, i cannoni delle navi eran lontani e i cacciatori nemici avevano esaurito la loro autonomia, per cui un pericolo d'intercettazione era del tutto inesistente. Bisogna a tal proposito tener presente che gli aerosiluranti tornavano alle proprie basi attraversando lunghi e talvolta lunghissimi tratti di mare e che la sola caccia da temere nella fase di ritorno era quella delle portaerei.
Poteva anche accadere (e forse accadde, qualche volta) che un nostro velivolo andasse a cacciarsi in bocca al nemico con grande sorpresa e paura di quest'ultimo. Questo poteva succedere se si utilizzava il radiofaro sbagliato.
Il radiofaro era una emittente di onde hertziane a fascio diretto. Per raggiungere la emittente (che naturalmente era installata in un punto noto) bastava che il velivolo navigasse dentro il fascio elettromagnetico, il che poteva fare con uno speciale apparato ricevente, il radiogoniometro.
Si capisce che doveva trattarsi dei radiofaro giusto. Se per errore o distrazione si utilizzava, mettiamo, quello di Malta nella erronea supposizione che fosse quello di Taranto, inevitabilmente si andava a finire su Malta. Credo che un infortuno del genere capitò a un generale inglese che credendo di atterrare a Malta atterrò invece a Pantelleria, facendosi così impacchettare come un salame.
Bisogna anche tener presente che il radiofaro indicava la direzione non la provenienza: in apparenza si poteva navigare correttamente tanto se si andava verso il radiofaro quanto se ci si allontanava da esso. Errori del genere non potevano accadere se il radiofaro si prendeva dopo aver « fatto il punto », avere, cioè, con operazioni geometriche, localizzato esattamente il velivolo nello spazio. All'epoca sentii raccontare di un aereo che navigava da un bel po' lungo le coste della Palestina, sopra un interminabile banco di nubi, alla caccia di un introvabile piroscafo inglese partito da Cipro. Vista vana ogni ricerca, il primo pilota pensò bene di tornare alla base e, non avendo punti di riferimento, decise di navigare col radiofaro. Inserita l'emittente di Maritza, nel Dodecanneso, il pilota corresse l'angolo di rotta e si mise tranquillo, convinto di andar verso casa. Dopo una ventina di minuti, essendo apparso uno squarcio nelle nubi, il velivolo ci si infilò e l'equipaggio constatò con sorpresa che stavano sorvolando a bassa quota un accampamento di soldati inglesi che scappavano da tutte le parti colti dal panico. Inutile dire che l'aereo descrisse una brusca virata di 180 gradi e in un battibaleno se la svignò. Era avvenuto che il pilota, distratto, aveva sì infilato il fascio del radiofaro emittente ma, invece di prenderlo di prua, lo aveva preso di coda, sicché si allontanava dalla base invece di avvicinarcisi. Se lo strato di nubi fosse continuato, andava a finire nel Golfo Persico!
D. È stato detto che un buon marconista è in grado di riconoscere la « mano » di chi trasmette. Cosa può dirci al riguardo? Poteva avere una certa utilità pratica questa « capacità »?
R. È vero che i marconisti di una certa esperienza riconoscevano l'autore delle trasmissioni radio; ma, per la verità, non è che si trattava di riconoscerne uno tra mille.
Solitamente, gli interlocutori erano i marconisti della squadriglia o dello stormo, le cui conversazioni si riducevano allo stretto necessario nel linguaggio del « Codice Q », un cifrario contenenti frasi corrispondenti a tre lettere sempre precedute dalla lettera Q. Tra gli anziani, la prima lettera, la Q, veniva sovente eliminata, ritenuta superflua. Tra gli anziani più spicciativi, veniva addirittura eliminata anche la seconda lettera perché la presupponeva il tipo di conversazione in corso.
Le vere trasmissioni si intrecciavano tra l'aereo (di norma il capo-pattuglia, se si era in formazione) e una stazione a terra dove, anche i marconisti eran sempre gli stessi, non più di due o tre.
Credo di non affermare niente di sensazionale se dico che anche il battere il tasto d'un radiotelegrafo è operazione strettamente connessa, come del resto ogni altra attività dell'uomo, al carattere o, meglio, al sistema nervoso dell'operatore. C'eran trasmissioni pulite, elementari, che quasi facevan tenerezza e di solito appartenevano ai giovanissimi appena sfornati dalle scuole, che avevan paura di sbagliare; ve n'erano di concise e autoritarie, come quella del veterano Venuti che al radiotelegrafo non amava le chiacchiere e desiderava farlo sapere; ce n'erano di confuse, approssimative, concitate, come quella d'un certo Danieli, un polentone del quale non ho saputo più nulla; e ricordo con raccapriccio la trasmissione arruffata e caotica di quel pazzo di Renzo Casellato, al quale mi legava un affetto più che fraterno.
D. Ha mai sentito dire che gli Inglesi disponevano dei nostri codici segreti, trovati a bordo di un aereo italiano abbattuto?
R. Venni anch'io a conoscenza di questa voce alla quale, peraltro, nessuno attribuì importanza. Infatti, una eventuale fuga dei nostri codici, per il modo in cui essi eran congegnati, non doveva destare alcuna preoccupazione.
La cifratura consisteva semplicemente nella sostituzione della lettera vera con una qualsiasi. Per esempio, alla N corrispondeva una B e alla O una F, sicché, per dire NO bastava dire BF.
Questa sostituzione di lettera veniva realizzata con un apparecchio che in gergo chiamavamo « macchina » o « valigia » ma più comunemente « trabiccolo » e che sostanzialmente consisteva di una parte contenente i segni alfabetici veri, da sostituire, e da una parte fissa con i segni che dovevano sostituire i primi. Facendo combaciare le due parti in corrispondenza delle ascisse si otteneva il nuovo segno. La lettura, poi si aveva col procedimento inverso.
Si deve però tener presente che la cosiddetta parte fissa, consistente in un semplice foglio di carta con tutti i segni alfabetici e i numeri, variava ogni ora. Sicché, decorsa l'ora, il codice non serviva più a niente.
Nelle casseforti di ogni reparto c'erano le raccolte, trasmesse direttamente da Roma, delle pagine da adottare per un certo periodo (non oltre un mese). Agli aerei che partivano per missioni di guerra veniva consegnato il numero delle pagine relative alle ore di presumibile durata dell'azione: solitamente, non più di quattro o cinque. Era dunque possibile catturare il «trabiccolo» ma, prima di poterlo utilmente usare, il tempo della sua validità era ormai decorso e tutto l'armamentario diveniva automaticamente un aggeggio inutile.
D. Ebbe mai notizie di sabotaggi?
A me non risultano, ma debbo anche dire, per amor della verità, che la nostra azione più impegnativa, quella di Gibilterra, si risolse in un completo fallimento, forse proprio per sabotaggi.
Innanzitutto, fummo costretti a compiere due giri attorno alla Rocca, dato che il siluro, al primo passaggio, non volle sganciarsi (il che, tra l'altro, ci fece consumar preziosa benzina, per cui fummo costretti a un atterraggio di fortuna in Catalogna); sganciato il siluro, restammo invano, durante la manovra di disimpegno, ad attendere che lo scoppio si verificasse. Non scoppiò niente e noi proseguimmo delusi il nostro difficile volo di rientro, sgattaiolando nelle valli della Sierra Pinar, fatte chiare da quella bellissima notte.
Durante il nostro successivo forzato soggiorno a Barcellona, circolò la voce che un nostro informatore di Algesiras aveva fatto sapere che il siluro era stato trovato inesploso, qualche giorno dopo, su una spiaggetta andalusa. (In effetti uno dei nostri agenti informatori in Spagna, il Cap. Pilota Mario Casali, incaricato dall'Ufficio Aerosiluranti dell'Aeronautica di tener sotto osservazione, la rada e segnalare i movimenti delle navi, nonché comunicare l’esito delle azioni, ebbe poi modo di assistere al controllo effettuato da un ufficiale della RAF al nostro siluro che senza scoppiare, si era conficcato nella sabbia, lasciando fuori solo una piccola parte della poppa con le due eliche. L'ufficiale disse che si trattava di una bomba d'aereo ... e per gli Inglesi tutto si concluse così, N.d.R.).
Si disse che il congegno di scoppio era stato manomesso dai partigiani sul campo base, a Istres, presso Marsiglia.
Evidentemente non posso giurare sulla attendibilità di questa voce ma, debbo dire la verità, non ci credetti e non ci credo, per numerose ragioni: la situazione generale del campo-base, le sentinelle, la insufficienza di tempo a disposizione, la necessità di conoscenze tecniche relative a congegni nuovissimi e segreti, la pericolosità dell'operazione ecc. (Tra i fatti che fecero pensare ad un'azione di sabotaggio vi fu la constata diminuzione di pressione nel serbatoio di aria compressa dei siluri dei velivoli rientrati. Ma Unia ritenne di individuare la causa nel surriscaldamento del serbatoio stesso provocato dai gas uscenti dai convogliatori di scarico allungati che non erano stati ancora sufficientemente collaudati con i siluri magnetici. Il surriscaldamento del serbatoio aveva provocato l'entrata in funzione della valvola di conservazione e la fuoriuscita di una certa quantità di aria, N.d.R.)
D. Ci vuol raccontare di qualche missione degna d'essere ricordata?
R. Ogni nostra missione è per qualche motivo degna di essere ricordata. Una volta una cannonata mise fuoco al nostro motore centrale e dovemmo rientrare con i soli due motori laterali; un'altra volta, nelle acque di Capo Blanch, una quarantina tra Hurricane e Spitfire ce la fecero vedere particolarmente brutta; un'altra volta, davanti a Biserta, ci sparammo furiosamente un contro l'altro con un Heinkel tedesco e solo quando quest'ultimo, per farla finita, ci si gettò addosso, potemmo riconoscerci all'ultimo momento e smettere di tentare di abbatterci a vicenda; un'altra volta, avanti a Capo Bougaroun, avemmo tre membri dell'equipaggio feriti; a Castelvetrano atterrammo sotto una pioggia di bombe, mentre era in corso uno dei più pesanti bombardamenti che quell'aeroporto subì; un'altra volta il nostro armiere venne colpito dal proiettile di un Beaufighter e cadde riverso sulla mitragliera. Mi pare fosse un certo Scaringella, ma adesso, a più di trent'anni di distanza, non ne son sicuro. Ad ogni modo, lo presi e lo adagiai sopra i nostri paracadute, dove egli si racchiocciolò apparentemente in punto di morte. Invece, improvvisamente si scosse, mi si attaccò al collo per sollevarsi e mi gridò all'orecchio: « Viva l'Italia! ». Capii che stava facendo del teatro e a mia volta gli gridai in un orecchio una esortazione che immediatamente lo calmò e gli fece smettere l'aria funerea. Gli dissi: « Smettila, cretino! ».
Una volta, di notte, volammo fianco a fianco con un apparecchio che, solo dopo un lungo tratto, capimmo essere inglese. Prontamente ce la svignammo ma l'altro non tentò d'inseguirci. Credo che si trattò d'una distrazione generale. Un'altra volta ... Un'altra volta eravamo in missione di libera caccia, in vista d'una costa brulla e disabitata. A un certo punto si delinearono avanti a noi cinque o sei barche di poveri pescatori; dai nostri cinquanta metri di quota io li vedevo benissimo, con i loro caratteristici, cenciosi vestimenti arabi. Uno levò una mano in segno di saluto. Davanti a noi, il nostro capo-squadriglia si abbassò in picchiata e li mitragliò con tutte le sue armi. I due gregari si abbassarono a loro volta. Ma nel mio velivolo, io non sparai e impedii di sparare a un altro mio compagno che aveva puntato la mitragliera di sinistra.
Quando rientrammo alla base il caposquadriglia voleva mangiarmi. Strillava come un ossesso. Voleva mandarmi sotto processo. Sosteneva che quelle barche erano camuffate, che sotto le reti e gli stracci e le ceste nascondevano potenti radio trasmittenti per segnalare a terra la presenza dei nostri velivoli. Ero convinto allora, e sono convinto ancor oggi, che fosse una convinzione totalmente infondata.
L’armiere
Il Maresciallo Armiere Renato Golfetto di Treviso, sottufficiale di carriera frequentò la scuola della specialità a Bresso (Milano) ove rimase — in forza con il 10° Stormo 56.a Squadriglia B.T. — fino al giugno del '39 quando venne inviato in Egeo, prima a Lero con i Cant. Z.501, poi nel '40 a Rodi Maritza con gli SM.81, ed in seguito presso l’altro aeroporto dell’isola, quello di Gadurrà con gli SM.79. Anch'egli parla in modo aperto e schietto, con la simpatica cadenza veneta, in un alternarsi di ricordi e stati d'animo opposti, solo parzialmente sopiti dal tempo: entusiasmo, rammarico, allegria, rabbia, compiacimento, a seconda dei temi toccati. Tuttavia, malgrado gli anni passati e di non essere più in servizio, a volte è trattenuto da una certa reticenza, certe cose preferisce tenerle per sé, ed altre ci prega di non riportarle, preso quasi da una forma di riserbo, di istintivo senso del dovere.
«Il primo volo lo feci alla 56.a Squadriglia del 10° Stormo a Bresso (Milano) il 2 settembre 1938 quando da qualche giorno gli SM.79 erano venuti a sostituire gli SM.81 che avevamo in dotazione: con questi due velivoli avrei poi volato in guerra su tre Continenti: sulle acque del Mediterraneo, sulle sabbie del Sahara, sulla Terra Santa, sulle steppe russe e sui laghetti della Finlandia! Sempre durante la guerra mi "sarei fatto" anche un po' di SM.84 e di Cant. Z.1007 bis, ma l'aeroplano che mi diede più soddisfazione e senso di fiducia fu il 79.
Per quanto riguarda le parti di mia pertinenza posso dire che era un aeroplano dotato di sistemi meccanici semplici e quindi robusti, a differenza degli altri più moderni i quali disponevano al contrario di sistemi più avanzati, usati ancor oggi, come impianti idraulici, elettrici, pneumatici ecc. che richiedono una costante, precisa manutenzione, indiscutibilmente utili e pratici, ma altrettanto delicati e vulnerabili. In guerra, quando si era sotto alla "pioggia" delle mitraglie dei caccia nemici o delle " sciampagnate " di schegge della contraerea, ne bastava una, o un proiettile di 7,7 per rompere un condotto dell'impianto idraulico o un cavo dell'impianto elettrico e così ciao alla comodità ed all'automatismo ... Il 79 questi problemi non li presentava, perché era una macchina essenziale, "spartana"; usava solo un impianto idraulico-meccanico per la apertura degli sportelloni e un semplice impianto pneumatico per armare le mitraglie da 12,7, pratico ma non indispensabile perché le mitraglie si potevano armare anche a mano con un po' più di forza.
Eh, se contassi tutte le cose che ho visto, a cui ho assistito o partecipato verrebbe fuori un libro, altro che una intervista; ma è meglio metterci una pietra sopra, tanto con il vostro SM.79 non c'entra.
Mi è stato chiesto tante volte se è difficile colpire le navi in navigazione durante i combattimenti aeronavali. Risponderò a tutti decisamente: sì! Le navi dispongono di un campo di manovra piuttosto ampio, direi, che è il mare; pertanto di spazio ne hanno quanto ne vogliono per sbizzarrirsi nelle più ampie ed imprevedibili evoluzioni. Non è che debbano percorrere un senso obbligato come ad esempio un treno o anche un'auto sulla strada, molto più facili ad essere vittime di un attacco aereo anche se sono mobili. Le navi vengono avvistate rilevando prima la lunga scia che lasciano dietro; a mano a mano che ci si avvicina si notano la forma, poi le caratteristiche dei loro profili da cui si può dedurre se è un cargo, una nave passeggeri, una petroliera o una nave da guerra, C.T., incrociatore, nave da battaglia o portaerei, e quanto più ci si avvicina e ci si abbassa, sempre più particolari si notano, fino al punto di vedere le persone sulla plancia. Noi bombardieri per effettuare il loro puntamento e sganciar le bombe dovevamo per forza passare sulla loro verticale. Ed è da immaginarsi se queste proseguivano bel bello, diritte nella loro direzione senza mandarci neanche una "salve" di saluto. Quando poi venivano attaccate dai bombardieri sembravano tante anguille. I comandanti delle navi quando, mediante binocoli, ci vedevano prendere la direzione su di loro ed aprire gli sportelloni, si tenevano pronti per fare le più strane manovre, come accostare da una parte e poi dall'altra o aumentare la velocità o diminuirla, appena vedevano uscire le bombe dalla "pancia" degli aerei; perché il tempo di caduta delle bombe lanciate da 3500 o 4000 o più metri dava loro il tempo di schivarle. (Il tempo di caduta per quelle quote oscilla dai 20 ai 30 secondi per percorrere la traiettoria). A parte ciò, considerando pure le altre incognite delle sottostanti condizioni atmosferiche che potevano modificare la traiettoria, c'è quasi quasi da dire che "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che ... una bomba cada su una nave ...". Parlo naturalmente di giorno, con buona visibilità, perché di notte a mala pena si riesce a vederla e nelle migliori delle ipotesi (con la luna) si riconosce qualche dettaglio di massima, come la sagoma, la direzione, grazie alla scia, ma anche questa la si scorge per caso: a me non è mai successo!
Sono così convinto di quanto dico, che se, com'è capitato a me nel marzo del '41, attaccando un convoglio inglese diretto in Grecia, uno ti va a colpire bene un incrociatore, anche se quell'uno sono io, io stesso per primo vado in giro dicendo che non è stata la bomba a cadere sulla nave, bensì ... questa a cadere sulla bomba! E per quella mia sincerità, che sminuiva la mia « bravura », ci ho rimesso una medaglia.
Pertanto per colpire navi in navigazione, o si bombarda a tappeto (e noi, che io sappia, con le navi non l'abbiamo mai fatto perché si richiedevano grandi formazioni senza limitazione di bombe), o in picchiata, ed allora qualcosa si prende; altrimenti sono bombe sprecate. A meno di scendere bassi, così la nave non ce la fa ad accostare tempestivamente, ma ciò significa correre grossi rischi di essere abbattuti dall'antiaerea. Piuttosto si ricorreva a bombardamenti in quota diversivi, cioè in concomitanza con i tuffatori e mentre attaccavano gli aerosiluranti: l'azione combinata aveva lo scopo di distrarre l'attenzione dei comandanti delle navi e suddividere il fuoco dell'antiaerea su tre fronti d'attacco diversi. Ma per noi le cose diventavano ancora più difficili in quanto le navi, sotto, per sottrarsi agli attacchi degli altri facevano di quelle evoluzioni che sembravano tante formiche impazzite. E qui non c'entrano i sistemi di puntamento più o meno perfezionati, perché lo Jozza, anche se non era il non plus ultra, ci andava bene, almeno per noi che avevamo fatto un po' di pratica; e lo stesso dicasi per le bombe stivate orizzontali o verticali. Nell'SM.81, ad esempio, erano orizzontali o verticali, ma non si facevano più centri rispetto al 79 che le aveva verticali. Però c'è da dire una cosa: una bomba da 250 kg che cadeva anche a 15-20 metri da una nave, poteva danneggiare lo scafo in modo anche grave per lo scoppio in acqua che creava la depressione. Ciò accresceva leggermente l'effetto dei bombardamenti in quota. Ma ben presto gli Alti Comandi si resero conto che per affondare le navi occorrevano soprattutto azioni di aero-siluramento e costituirono così i primi reparti della nuova specialità, sempre con i 79, che fu incrementata e sempre meglio curata, mentre i bombardamenti in quota sul mare continuarono normalmente o in azioni combinate (con aerosiluranti e tuffatori) utilizzando tutti i tipi di aerei della specialità dal 79 all'81, dal BR.20 al Cant. Z.1007 bis.
Con i bersagli fissi era tutto un'altra cosa, riuscivano molto più facili, tenendo sempre presenti quelle famose condizioni atmosferiche sottostanti, il "manico" di chi effettuava il puntamento, e perché no, anche la coscienza di chi faceva quest'operazione. Comunque gli effetti si vedevano. Solo che sarebbero occorse bombe più potenti e soprattutto molti più aerei, perché andare su obbiettivi importanti e pericolosissimi con bombe di piccolo e medio calibro e una dozzina di aerei (quando erano rose e fiori), sprovvisti pure della scorta della caccia, significava che gli equipaggi che vi partecipavano avevano nei loro cuori una fede e una volontà più forte dell'acciaio delle loro armi. Ma i risultati globali, spesso, non corrispondevano purtroppo ai sacrifici.
Gli Anglo-americani, ed anche i Tedeschi, ci davano nel frattempo molteplici ed efficaci esemplificazioni di come si sarebbero dovuti effettuare i bombardamenti sia tattici che strategici!
Altra grande differenza era anche qui tra un bombardamento diurno e uno notturno. Mentre con il diurno si poteva individuare bene l'obbiettivo, a meno che non fosse collocato in un folto centro abitato, di notte era impossibile scorgere un determinato bersaglio anche con l'ausilio dei bengala illuminanti. Ammenoché non fosse un obbiettivo isolato, come ad esempio impianti di raffinerie, depositi, baraccamenti o un ponte su un fiume o una zona industriale ben definita, oppure anche porti, per la loro forma caratteristica. Pertanto i bombardamenti fatti indiscriminatamente sulle città erano dei veri e premeditati atti di criminalità, e cade qualsiasi forma di giustificazione, come ho avuto modo parecchie volte di sentire, nei confronti degli attacchi terroristici sui nostri centri urbani.
Gli sganci potevano essere fatti singoli o «a imitazione », a seconda dei bersagli e degli effetti da conseguire. In genere lo si concordava prima con il capo pattuglia, insieme agli altri dettagli dell'azione. Nel primo caso, giunti sull'obbiettivo, la formazione tendeva a scomporsi (se non vi erano caccia in vista) ed ogni aereo agiva autonomamente sganciando dove prestabilito. Se si lanciava ad imitazione, invece, che corrispondeva ad un bombardamento a tappeto, bisognava seguire il capopattuglia e sganciare «a vista » quando sganciava lui, per cui gli altri non avevano neppure da controllare i calcoli. Ma non sempre si poteva condurre l'azione come si voleva: spesso, o per l'intervento della caccia nemica, che entrava anche nella zona battuta dall'antiaerea, o per l'efficacia dell'antiaerea stessa — con cui sempre, più o meno, si aveva a che fare — si doveva cambiare piano d'attacco al momento, portando comunque sempre l'azione a termine, anche a costo delle inevitabili perdite.
Per reagire alla caccia non c'era che da tenere la formazione di pattuglia più stretta possibile per produrre il maggior sbarramento di fuoco, coprendosi reciprocamente.
Inizialmente gli Inglesi avevano i biplani Gloster cui potevamo sfuggire senza difficoltà: facevano i 160 all'ora! Poi sono arrivati gli Hurricane e soprattutto gli Spitfire ed allora la vita era diventata più difficile, specie con gli ultimi tipi perché avevano velocità e potenza di fuoco notevoli; se si veniva colti isolati era problematico sfuggirgli; tuttavia il « gobbo » aveva una maneggevolezza ed era un incassatore tale che spesso riuscivamo a fargliela lo stesso. Le cose incominciarono ad andare decisamente male per noi quando la loro superiorità numerica divenne schiacciante ed oltre al resto ebbero a disposizione il radar che segnalava tempestivamente il nostro arrivo.
Per difenderci dall'antiaerea, invece, adottavamo la tecnica del cambiamento di quota, cioè in prossimità del bersaglio iniziavamo una leggera picchiata, che oltretutto dava velocità all'aereo. Naturalmente il puntatore era già d'accordo col pilota perché puntamento e sgancio dovevano avvenire con l'aereo perfettamente in assetto ed a velocità nota e costante, altrimenti le bombe andavano dove volevano. Il comandante diceva ad esempio prima od in prossimità dell'obbiettivo "Entriamo à 4500 poi giù e sganciamo a 3500, a velocità tot, d'accordo? ". Allora io sapevo che dovevo fare i miei calcoli sui 3500 m alla velocità tot. Con questa tecnica non solo traevamo in inganno i telemetristi a terra ma abbassando la quota improvvisamente correvamo semmai il rischio di essere "trapassati" dal proiettile (due buchi che il 79 incassava disinvoltamente, se il punto colpito non era vitale), ma evitavamo di ricevere lo scoppio attorno all'aereo, che sarebbe stato investito da moltissime schegge, con conseguenze ben più gravi. In ogni modo l'antiaerea faceva sempre paura, specie quella della marina, ed era un pericoloso ostacolo; non era soltanto fortuna ma un qualcosa come di soprannaturale che ci aiutava a venirne fuori. Però l'accorgimento adottato, per quanto banale, funzionava e le qualità dell'aereo e dell' equipaggio facevano il resto.
Sulla tecnica di puntamento, calcoli ed operazioni che il puntatore doveva fare per premere i tasti al momento giusto, credo non sia il caso mi dilunghi, essendo un argomento complesso ed arido da spiegare a parole senza gli strumenti sottomano; lo stesso dicasi per spiegare come funzionava lo Jozza che era un traguardo a vista con due guide mobili con un campo retinato nel quale bisognava mantenere inquadrato il bersaglio. Ciò grosso modo. In genere bastava un solo passaggio sull'obiettivo, che richiedeva un puntamento diretto con l'ausilio di un contasecondi e usando un « falso scopo »; questo era un bersaglio ipotetico posto sulla stessa rotta di quello effettivo verso il quale puntava il pilota. Nell'ultima fase di avvicinamento piccole correzioni di rotta potevano essere fatte dal puntatore mediante l'apposito volantino che agiva sul timone di direzione. Poi seguendo il bersaglio entrava in azione il traguardo di puntamento mediante i dati ricavati dagli strumenti del mio cruscotto: altimetro, sbandometro, derivometro, indicatore di velocità, peso ed angolo di ritardazione della bomba. Dal risultato di questi dati veniva approntata la prima fase di puntamento sul traguardo seguita immediatamente dalla seconda, traguardo > bersaglio > contasecondi > sgancio. Avvenuto lo sgancio ci si augurava che nelle quote sottostanti non ci fossero i minimi mutamenti atmosferici, come la direzione del vento, che potevano causare il tiro lungo o corto o spostato da una parte o dall'altra del bersaglio.
Circa l'obiettivo specifico da bombardare, se la missione non era segreta, lo si studiava e discuteva prima: si va a Cipro sull'aeroporto, sulla baia di Suda, si va su un convoglio navale, ad Haifa sulle raffinerie ecc., e spesso si preparava anche un piano d'azione con il capoequipaggio con il quale il puntatore doveva in ogni modo avere il massimo affiatamento. Poi i dettagli si mettevano a punto con il comandante stesso « a vista »; cioè, giunti sul posto mi portavo in cabina con lui ed egli mi indicava: « Vedi quel punto? Bisogna picchiare là, o su quei capannoni o su quella nave ecc. ». Oppure mi lasciava libertà di scelta, per cui decidevo io il bersaglio, a mio discernimento. Prese le disposizioni correvo al mio posto perché ormai ci si era avvicinati e dovevo incominciare il lavoro. Se non potevo essere in cabina il comandante comunicava con me con il laringofono, che era costituito dalle cuffie e dai due microfoni applicati alla gola.
Vi erano ordini severissimi di non toccare obiettivi non militari. Guai a chi mancava: si arrischiavano punizioni molto gravi e non si potevano raccontar frottole perché la macchina fotografica automatica documentava senza attenuanti! I capiequipaggio, quando mancavamo il bersaglio imprecavano, specie se l'errore era grossolano e non sussistevano valide giustificazioni. Le reazioni dipendevano ovviamente dal tipo d'uomo, ma in genere c'era poco da stare allegri. Ricordo che una volta andavamo a bombardare l'aeroporto di Suda che era su una lingua di terra protesa nel mare lunga e stretta. Avevamo a bordo come « passeggero » un ufficialetto di prima nomina, tanto pieno di arie quanto scarso d'esperienza. Vicini al bersaglio mi ordina di lasciargli il mio posto per fare lui il puntamento e lo sgancio. Io resisto un po'; poi, pur diffidando (tanti anni di servizio mi avevano insegnato molte cose), gli dico prego s'accomodi; e poiché era pure di sua pertinenza puntare e sganciare, lo lascio fare dato che, tutto sommato, mi sembrava abbastanza sveglio e poi non si trattava di prendere un ponte: il bersaglio era bello grande! Attacchiamo dunque l'aeroporto in linea perpendicolare, provenendo quindi dal mare. Non siamo neppure disturbati più di tanto, ma prima di esserci sopra vedo con orrore delle bombe, che non potevano essere che le nostre, esplodere in acqua. Quel benedetto aveva fatto il puntamento chissà come ed aveva sganciato corto, con tutto lo spazio buono che stava sotto! Potete immaginare la mia rabbia ed i moccoli, tanto più che ora avrei dovuto io render conto dell'errore al comandante; il quale, infatti, poco dopo mi chiama in cabina per sapere com'era andato il tiro (dalla cabina non si può vedere lo scoppio delle bombe). « Beh, gli dico, è stato un po' corto »... « Corto? Quanto corto, porco ... ». « Corto, corto, signor comandante » ribatto io sempre più a disagio, tanto più che lo vedo armeggiare nella trousse dei ferri e cavarne un martellone. Era un duro; incalza gridando: « Dove sono cadute allora 'ste bombe???... » ed il martellone roteava troppo vicino a me perché io rinunciassi a rivelargli la verità, ma tutta, aggiungendo che non avevo potuto disobbedire ad un superiore. Evito così il lancio del martello ma non la sua furiosa reazione. Tuona: « Ora si ripassa e si fa mitragliamento a bassa quotaaa! ! ! »; che il Signore l'abbia in gloria, ha cento ragioni, ma qui ci castriamo da soli perché per dare una punizione a quello arrischiamo tutti la pelle, poiché nel frattempo l'antiaerea s'era svegliata violenta e precisa. Se sono qui è perché anche quella volta è andata bene, ma ho inanellato un'esperienza in più.
Però quello è stato un caso perché per la verità ero un tipo geloso del mio mestiere e facevo tutto con il massimo scrupolo: accudivo con pignoleria estrema a tutte le mansioni di mia competenza e vigilavo che i subalterni lavorassero con altrettanto scrupolo,dal caricamento delle bombe al loro aggancio, dalla regolazione delle spolette alle sicure, ecc.; dal munizionamento delle mitragliatrici al loro buon funzionamento ed al « saperci fare » degli altri membri dell'equipaggio con le armi di difesa. Il più bravo lo mandavo in gobba, posto molto importante (di solito era il motorista che non poteva allontanarsi troppo dalla cabina), l'altro alla 12,7 in gondola, mentre io, di solito, badavo alle due 7,7 laterali. Ma non era una disposizione fissa e dipendeva dalle contingenze. A proposito di mitragliatrici: quella in caccia il più delle volte non la caricavamo neanche, almeno noi, perché nelle nostre missioni non ci serviva ed era un peso in più (mentre per altri tipi di azioni era un'arma preziosissima). Così, grazie al mio scrupolo ed alla mia buona stella, sono riuscito a fare andare sempre le cose per il meglio e soprattutto a portarmi a casa la pelle pur facendo il mio dovere per cinque anni di guerra, senza contare quelli prima. Solo una volta mi capitò un inconveniente che poi si trasformò quasi in una comica, per cui glielo racconto. Eravamo in missione per un bombardamento notturno su Alessandria d'Egitto. A bordo avevamo anche quella volta un ufficiale pilota come osservatore, lo ricordo ancora si chiamava ten. Serena, che non era un pinguino come l'altro (Ci capitava spesso di portare ufficiali dell'Esercito o della Marina come osservatori, oppure fotografi o un altro armiere. Si portavano a volte anche giornalisti od operatori cinematografici che per calma e coraggio non erano secondi a nessuno). Durante l'azione, non mi va a capitare che una bomba da 100, probabilmente perché avevo schiacciato il tasto troppo leggermente, non mi si sgancia? Può immaginare come ci rimango io, tanto più che l'ufficiale mi guarda stupito e con aria interrogativa, indicandomi la bomba, beffarda, attaccata alla traversina. Seccato, non mi perdo d'animo e tento un bluff. L'antiaerea sparava maledettamente ed erano accesi molti riflettori. Allora, a mia volta, faccio cenno all'ufficiale di stare calmo, che la cosa era prevista: « Lo vede quel faro laggiù? Ecco, la bomba è destinata a lui ... ». Faccio il puntamento, schiaccio il tasto, questa volta la nespola parte e come radioguidata dalle mie implorazioni non ti va a beccare proprio quel faro? Potete immaginare lo stupore e l'ammirazione del superiore, il quale a terra narrò il fatto e le mie quotazioni professionali crebbero a dismisura; ed il bello è che nessuno voleva credere che era stata una pura combinazione, o quasi, in seguito ad un errore, come andavo ripetendo a tutti, perché non mi piaceva carpire la buona fede di amici e colleghi!
Il discorso sulle nostre bombe aeree merita qualche precisazione. Quelle di maggior peso di uso corrente erano le 250, anche perché le più efficaci. Quelle da 500 kg normali c'erano, ma che io sappia non furono mai impiegate perché si diceva che avessero un difetto di base (è l'ennesima conferma. Sembra che nessuno abbia mai portato queste bombe per le quali l'SM.79, come l'81, era pur predisposto. Il difetto pare fosse che dopo l'urto la bomba non scoppiava in quanto la maggior parte del tritolo si frantumava in grossi pezzi compatti, n.d.R.). Comunque, a parte tutto, è chiaro che era proprio un fatto di necessità quello di portare più pezzi da 250 piuttosto che uno o due da 500: data la scarsezza di aerei la scelta mirava ad aumentare le probabilità di colpire comunque i bersagli. Per i convogli ad esempio usavamo molto spesso anche le bombe da 100 ed all'inizio addirittura da 50 kg (con cui una volta colpii un mercantile).
Un altro mistero è la bomba da 500 speciale. La bomba da 500 kg speciale era molto bene congegnata ed efficace contro impianti portuali e navi ormeggiate o alla fonda. Disponeva di un congegno che le parava gli effetti della caduta nell'acqua, adagiandola sul fondo; di un sistema ad orologeria che entrava in funzione quando cadeva nell'acqua e provocava l'esplosione con il ritardo prestabilito, e infine di un sistema multiplo di spolette per l'impatto contro corpi solidi. Questo ordigno fu lanciato sui porti di Alessandria d'Egitto all'inizio della guerra ancora con gli SM.81. Poi sparirono dalla circolazione e non se ne seppe più nulla. So solo che l'Home Fleet per un po' di tempo dopo questi tipi di bombardamento è stata ormeggiata al largo dei porti o fuori ben protetta da reti di sbarramento. La prerogativa della bomba, diciamo pure a doppio uso, era che dispensava dal dover puntare su un bersaglio ben definito e quindi consentiva efficaci azioni notturne, rendendo le missioni più rapide e sicure, avendo comunque la certezza che in ogni caso si sarebbero ottenuti efficaci risultati. La tecnica era questa: giunti sul porto mollavamo prima una bomba da 100 kg e subito dopo quella da 500; così l'esplosione di quella da 100 copriva il tonfo di quella grossa se si infilava in mare, in modo che il nemico non se ne accorgesse e non rilevasse il punto di caduta, facendo perdere l'efficacia della sorpresa. Ripeto comunque che la bomba speciale non l'ho più vista e su Alessandria siamo ritornati altre volte con l'SM.79 e le normali bombe da 250. Per concludere il discorso sulle nostre bombe dirò che quelle « super » da 800 kg di cui tanto si parlava, personalmente non le ho mai impiegate. Ne ho viste un paio scariche far solo bella mostra all'entrata delle aviorimesse, terribili ma impotenti! Delle bombe di piccolo e medio calibro, bombe speciali, spezzoni ecc, non credo meriti parlare: basta dire che erano molto efficienti per gli scopi cui erano adibite.
Prima di ogni missione i comandanti di squadriglia riunivano i capi reparto specialisti (armieri, motoristi e marconisti) ed a ciascuno impartivano le disposizioni per l'azione: a noi, caricate tante bombe di quel tipo; ai motoristi, tanta benzina, ed ai marconisti gli ordini del caso ecc. Le bombe dovevano essere caricate per regolamento col verricello ed infilate nei cestelli, scoprendo il tetto della carlinga che comprendeva la parte centrale dietro il vano della gobba, ed agganciate agli appositi tralicci; quelle da 100 kg con l'ogiva in su, quelle da 250 con l'ogiva in giù. Ma spesso per comodità e per far più presto, fino a quelle da 100 kg usavamo caricarle a braccia e spalle. Il brutto tuttavia era quando per un improvviso mutamento di «programma », dopo aver sistemato le bombe per bene, era necessario scaricarle tutte per cambiare tipo; giù quelle, corri a prendere le altre, smonta e rimonta ed era un lavoraccio cane; perché bisognava cambiare, secondo il tipo della bomba, anche i cestelli guida-bombe e le traverse porta bombe, con tutti i cavetti da collegare con piccolissimi perni e con coppiglie da infilare sui forellini di questi ultimi. Potete immaginare che delizia, specie se questo andava fatto di notte con l'aereo decentrato a termine campo, muniti solo di una torcia con la pila mezzo scarica e con dei rompiscatole tecnicamente incompetenti che ti facevano premura, ti sollecitavano, perché l'aeroplano doveva partire presto: come se noi non lo sapessimo quando sarebbe partito, poiché, scusi sa ... eravamo ancora noi a dover salire a bordo, senza nemmeno cinque minuti di riposo; e a questi tizi non si poteva obbiettare nulla, perché ... personalmente ne so qualche cosa. E poi, magari ti capitava un nuovo contrordine per cambiare ancora, perché il Comando, certamente non per capriccio, aveva modificato i piani d'attacco per l'ennesima volta.
Ma la sostituzione più ... integrale, diciamo così, è stata quella in occasione dell'operazione del marzo '41, cui ho fatto cenno all'inizio. Bene, la nostra ricognizione rileva questo grosso convoglio di una quarantina di navi, tra mercantili e scorta, partito da Alessandria e diretto a nord, proprio in direzione delle isole del Dodecanneso. Poiché la nostra situazione risultava tutt'altro che brillante, eravamo scarsi di munizioni, di viveri, di vestiario ecc. « Sta a vedere - ci diciamo con tono canzonatorio - che questa volta avranno saputo come siamo conciati qui, sbarcano da noi e ci vengono a prendere ... ». Così tutta la notte la guarnigione si prepara a far fronte come può allo sbarco ormai ritenuto inevitabile, e noi dell'aeronautica ci approntiamo ad attaccare. Naturalmente avevamo dato l'allarme e fatta la segnalazione dell'avvistamento, per cui attendevamo l'intervento della nostra marina e di aerei dalle basi più vicine. E sa cosa abbiamo dovuto fare noi armieri? Siccome eravamo scarsi di bombe ed avevamo molti spezzoni incendiari, questi ultimi del tutto inutili per gli eventi che ci preparavamo a fronteggiare, il comando dispose che gli togliessimo la carica incendiaria sostituendola con quella esplosiva; così lavorando febbrilmente un giorno e una notte, ne allestimmo un grande numero.
Il mattino riparte la ricognizione e rileva il convoglio vicinissimo, ma che non faceva rotta su Rodi bensì, incredibilmente, puntava tra le isolette infilandosi in quel budello che è il canale di Caso, non più largo di 2000 m, ma pieno di scogli che rendevano la navigazione assai pericolosa e soprattutto toglievano ai comandanti ogni possibilità di manovre, per cui le navi dovevano procedere con la massima cautela. Pensavamo che mai avrebbero scelto una rotta del genere. La rotta era comunque assurda e incomprensibile per noi: pensate, quaranta navi costrette a navigare in uno stretto, con la preoccupazione di far fronte ad eventuali attacchi, oltretutto senza protezione aerea non essendoci neanche una portaerei, con la preoccupazione d'incagliarsi. Sarebbe stato un macello per loro se noi avessimo avuto mezzi per attaccarli adeguatamente ... Purtroppo avevamo efficienti solo pochissimi SM.79 da bombardamento, in compenso sempre pronto il reparto aerosiluranti. Un po' più efficiente per numero e mezzi era il reparto tedesco con i suoi Stukas.
Alle 11,45 del 6 marzo 1941 decollammo con il nostro carico di bombe da 250, dopo una notte insonne, per il lavoro sopradescritto, puntando direttamente sul canale di Caso, secondo l'ultima segnalazione della ricognizione. Eravamo proprio in pochi della 201.a Squadriglia e assieme alla sorella di Gruppo, la 200.a Squadriglia, creavamo appena una pattuglia: tutto quello che si era potuto racimolare da un Gruppo già lungamente provato da altre numerose battaglie. In prossimità della zona prevista avvistiamo il grande convoglio che navigava in formazione di combattimento. Appena ci scorgono aprono un tremendo ed intenso sbarramento di fuoco antiaereo. Eravamo pochi ma decisi a vendere cara la nostra pelle e così ci lanciammo contro le navi con accanimento quasi avessimo dovuto spaccarle con le mani. I nostri SM.79 facevano sentire il loro "uan-uan" del rombo dei motori ad un ritmo sempre più celere. Come al solito andai dal mio capo equipaggio, ten. Chiantia, a prendere le ultime disposizioni; ricordo che egli lasciò a me la scelta del bersaglio con «preferenza » per un incrociatore; il passaggio doveva essere uno, salvo complicazioni tecniche, e il puntamento individuale. Sapevo cosa voleva dire e cosa comportava un secondo passaggio in quell'inferno di fuoco, per cui doveva essere evitato; diedi perciò le disposizioni ai miei colleghi motorista e marconista per la difesa dell'aereo, assegnando loro le mitraglie e chiarendo gli ultimi particolari dell'attacco; del resto erano ragazzi sempre in gamba e non c'era bisogno di raccomandazioni. Io presi posto nella gondola. Aprii gli sportelloni e cominciai le operazioni per il puntamento diretto. Intanto l'SM.79 volava in perfetta formazione ed in perfetto assetto, secondo gli accordi prestabiliti, imperterrito nella nube nera degli scoppi dei proiettili antiaerei che arrivavano da tutte le parti; la pattuglia, perforando lo sbarramento, giunse sul convoglio; solo qui si allargò un poco per stendersi sull'obiettivo perché — come ho detto — il puntamento oltre che essere diretto, era anche singolo, perciò ognuno doveva scegliersi il bersaglio che gli si presentava più propizio nella sua rotta senza danneggiare la formazione di pattuglia. Intanto io avevo approntato parte dei calcoli di puntamento, ed ecco che una nave mercantile mi apparve nel reticolo del traguardo; cominciai ad ultimare le fasi di puntamento per colpirla, quando mi «entrò» un incrociatore del quale distinguevo bene le vampe delle bocche dei cannoni che ci sparavano. Fu un attimo, tralasciai il mercantile, rimisi a zero il contasecondi e prima che l'incrociatore raggiungesse la prima tacca di mira ero già pronto per mirarlo; corressi lievemente con il volantino la direzione dell'aereo ed il bersaglio era interamente dentro al reticolo e non lo lasciai più uscire; intanto il mio contasecondi precedentemente messo in moto aveva già raggiunto il punto per farlo ritornare e stavo tutto proteso ad osservare bersaglio e contasecondi con le dita della mano sulla tastiera pronto a premere i tasti per sganciare; ancora qualche secondo ed ecco, giù: le due bombe si staccarono e andavano diritte nella direzione dell'incrociatore; ma porco ... questo mi stava uscendo dal reticolo; conoscevo già la mossa dei comandanti delle navi ed ero preparato anche questa volta a subirla. Strano però ... non proseguiva più nell'accostata e mi stava rientrando perfettamente nel reticolo; poi temetti che mi uscisse dall'altra parte; furono attimi di tensione terribile ... invece no: in quel momento si levarno vicine alla nave prima una e poi l'altra due grandi colonne d'acqua, una delle quali proprio a ridosso andò a infrangersi contro la fiancata.
A questo punto chiusi subito gli sportelloni, diedi ancora un'occhiata all'incrociatore che come minimo doveva essere stato danneggiato e corsi dal capo equipaggio a darne notizia, mentre i miei colleghi senza abbandonare i loro posti mi facevano cenni con le braccia molto significativi di quanto anch'essi avevano visto. Il capo equipaggio e il secondo pilota assentirono e tutto finì nel giro di pochi secondi. Allora io tornai alle mitraglie laterali, feci cenno al marconista di tornare alla radio (dato che non c'era caccia attorno) e la vita a bordo tornò normale. L'infuriare della contraerea a mano mano che ci si allontanava scemava; appena fuori tiro il capo pattuglia virò girando al largo del convoglio per scattare fotografie e vidi così che alcune navi si erano avvicinate all'incrociatore colpito che perdeva velocità. Poi riprendemmo la rotta per casa. A quanto si capiva in volo sembrava che due SM.79 fossero stati colpiti ma non seriamente e che gli equipaggi fossero incolumi. Tutto per il meglio.
Nella rotta di ritorno cercammo sul mare se erano sopraggiunte le nostre piccole unità di superficie e i sommergibili della vicina isola di Stampalia e le altre unità più grandi della base navale di Lero a far la loro parte nella battaglia. Niente, niente; all'infuori del convoglio nemico che continuava ormai indisturbato la sua rotta verso nord, il mare era pulito. Come mai questo assenteismo? E gli altri aerei dall'Italia?
Atterrammo alle ore 13,55 alla nostra base piuttosto contrariati. Dopo qualche giorno si seppe che truppe inglesi erano sbarcate a Salonicco per dar man forte alla Grecia e da quel giorno le sorti del nostro fronte Greco-Albanese cambiarono in peggio.
Ritornando a quell'azione, il nostro bollettino di guerra ne parlò e mi sembra che quattro o più navi furono dichiarate affondate, un incrociatore probabilmente affondato (il mio), ed altre otto danneggiate; la parte dei leoni ancora una volta era stata fatta dai nostri aerosiluranti e dagli Stukas tedeschi. Ci sarebbe da scrivere ancora molto su questa battaglia ma preferisco terminare così senza polemizzare. Perché: oggi vale proprio la pena di sapere la verità?
Qualche giorno dopo me ne capita un'altra di bella, di quelle che potevano costarmi caro; un fatto però che esprimeva chiaramente lo stato d'animo di tutti noi. Arriva in aeroporto il gen. Porro, molto noto a tutti, a fare la solita « visita ». Noi eravamo in volo di ritorno da un'azione di ricognizione strategica nel Mediterraneo Orientale e avevamo avvistato due Spitfire che ci inseguivano ma che al momento di attaccare il combattimento avevano fatto per fortuna un inspiegabile dietro-front, ritornandosene da dove erano venuti, forse per questione di autonomia, essendo molto lontani dalle loro basi (l'isola più vicina era Creta). Però quando erano quasi a tiro il marconista prima di prendere posto alla mitraglia aveva trasmesso il segnale convenzionato di « attacco da parte di caccia nemici ». Per cui a terra già sapevano e credevano avessimo subito l'attacco. Poco dopo si raggiunse l'isola di Rodi e si atterrò a Maritza. Mentre si parcheggiava l'aereo ci accorgemmo che un insolito gruppo di persone si stava avvicinando a noi e tra queste riconoscemmo il generale Longo comandante dell'Aeronautica dell'Egeo. Allora ci sistemiamo tutti alla meglio le tute di volo facendo «accomodare» per primi i due piloti, mentre di solito eravamo noi specialisti a saltare giù per primi, essendo i più vicini allo sportello, senza tanti formalismi. Poi ci mettiamo un po' allineati ed egli viene e ci dà la mano a tutti scambiando qualche battuta. Noi, che eravamo ancora sotto tensione per l'azione appena ultimata ed il cuore gonfio così per gli eventi dei giorni precedenti, salviamo la forma più che possiamo; ma quando, giunto davanti a me, mi fa tra il bonario e lo scherzoso: « Allora t'hanno fatto penare lassù gli Inglesi, vero? » (e per la verità uso un altro intercalare...). « No, signor generale », mi viene di rispondergli. « Come, non hai avuto paura dei caccia inglesi? » incalza. « Le ripeto di no, signor generale », ribatto ancora, calmo. Allora lui, quasi per non darmela vinta: « Quindi non hai proprio paura degli Inglesi ... ». E dagliela, me la stava tirando proprio fuori: « No, signor generale, non ho proprio paura ». La calma mi era improvvisamente passata e stavo andando in tilt. « Ma allora di chi hai paura tu? », ecco la goccia fatidica. Ed io: « Di nessuno, semmai solo degli Italiani, signor generale! ». Alla faccia della mia faccia di tolla! Ormai mi era uscita, ed era una battuta grave e pesante, rivolta ad un generale. Egli se ne va senza aggiungere altro; da parte mia perdo la baldanza e tanto per incominciare, per coerenza, temo gli strali del mio comandante. Invece questi viene subito da me con altri, mi dà una pacca sulla spalla, si congratula: cose da matti: « Bravissimo! hai fatto benone a dirgli così! Bene perdio, che i capi sappiano come la pensiamo e cosa succede! Se me ne avesse dato occasione avrei detto le stesse cose! Qualcuno doveva pur cantargliele! » ... Cala la tela.
L'organizzatore intervista a Carlo Unia
D. I siluri usati dagli aerosiluranti erano esattamente quelli della nostra Marina per i MAS?
A parte gli impennaggi speciali, presentavano modifiche particolari? Anche quelli commissionati alla Whitehead dalla Luftwaffe, di cui noi ricevemmo un quantitativo per i primi approvvigionamenti, erano dello stesso tipo? È vero che inizialmente le forniture di siluri ci vennero fatte in piccoli quantitativi mensili? Da quando le forniture divennero regolari e sufficienti?
R. I siluri usati dai nostri aerosiluranti erano gli stessi per MAS della Regia Marina prodotti dal silurificio Whitehead di Fiume tipo 450/170/5,46 [I dati si riferiscono rispettivamente al diametro, al peso dell'esplosivo portato e alla lunghezza]. Subirono alcune modifiche da parte del silurificio stesso per irrobustirli maggiormente nell' attacco della testa di guerra con l'adozione di una testa a profilo sferico, negli ammortizzatori dei guida siluri ecc. La nostra Marina, prima dello scoppio della guerra, ne aveva ordinati un certo quantitativo, dato che servivano ugualmente bene sia per le sue unità sia per l'impiego aereo, la Luftwaffe a sua volta ne aveva commissionato ben trecento.
Il Capo di Stata Maggiore dell'Aeronautica nel novembre del '39 passò da parte dell'Aeronautica una prima commessa di trenta siluri per aereo, cui ne fecero seguito delle altre, in modo da avviare la produzione in serie. Confermo che riuscì a stornare anche cinquanta pezzi dalla commessa per la Luftwaffe onde disporne di un certo quantitativo, all'inizio del conflitto, nel più breve tempo possibile. In un secondo tempo furono passati ordinativi anche al silurificio di Baia; questi erano molto simili al tipo della Whitehead, pur presentando qualche differenza costruttiva e risultarono meno sicuri nel funzionamento e alcune volte fecero fallire degli attacchi condotti con bravura e coraggio dai nostri equipaggi.
Comunque, dal '40 le forniture di siluri incominciarono ad essere abbastanza regolari anche se, quantitativamente, ci fu sempre una certa penuria, specie verso la fine ed era necessario che i nostri equipaggi li usassero ... a colpo sicuro.
D. L'SM. 79, pur considerato un ottimo aereo, aveva degli svantaggi come aerosilurante? E quali vantaggi? Nessuno, meglio di lei, può esprimere un giudizio così specifico.
R. L'SM. 79, pur non essendo ideale come aerosilurante, in fondo fece un ottimo servizio. Buon incassatore di colpi, dotato di una certa galleggiabilità, spesso in un ammaraggio forzato, prima di affondare diede tempo agli equipaggi di mettere il battellino di salvataggio in mare; resisteva ottimamente a tutti i climi nonostante fosse a costruzione mista, legno e tela. La strumentazione non era molto idonea per il volo nelle nubi e con grande turbolenza. Aveva inoltre dei settori morti in cui la caccia nemica poteva attaccare abbastanza facilmente.
Grave svantaggio poi quello di dover portare un equipaggio minimo di cinque elementi, il che costituiva una perdita notevole di personale ogni volta che un velivolo veniva abbattuto. I velivoli tedeschi aerosiluranti e quelli inglesi richiedevano quasi esclusivamente due uomini, avevano maggiore autonomia, un'ottima strumentazione, qualcuno anche l'autopilota ed i radiolocalizzatori.
Tuttavia anche gli Inglesi adottarono inizialmente un velivolo di scarsa velocità ma molto robuste e con due elementi di equipaggio. Era lo « Swordfish » imbarcato sulle portaerei e ottenne risultati meravigliosi. Vedi il siluramento delle nostre navi nel porto di Taranto e l'affondamento della Bismark.
D. Dopo le prove con l'SM.81 si passò direttamente a quelle con l'SM.79 del 1937 o furono provati altri aerei? Non vi erano altre alternative? Gli ottanta Ca.314/B aerosiluranti come e dove vennero utilizzati? Avevano dei limiti rispetto all'SM.79?
R. Dopo 1'SM. 55 vennero impiegati per le prove soltanto l'SM.81 e l'SM.79. I Ca.314 vennero provati a Gorizia come siluranti, ma proprio io diedi parere contrario al loro impiego, in quanto il velivolo non aveva una struttura sufficientemente resistente: colpito in uno dei motori (era un bimotore) non avrebbe potuto sostenersi in volo con l'altro; inoltre l'autonomia era troppo limitata. Non fu pertanto mai impiegato come aerosilurante. Quindi l'SM.79 non ebbe alternativa in quanto anche il Piaggio P. 108 non si dimostrò idoneo come aerosilurante, mentre il Cant. Z.1015 non venne prodotto in serie (l'unico esemplare veniva usato per prove di lanci a gran‑
de velocità) ed il Cant Z.1018 giunse tardivamente.
D. Dispone di notizie e dati precisi su un nostro radiolocalizzatore (Vespa) montato sperimentalmente su un SM.79?
R. So che nel 1943 venne montato un nostre radiolocalizzatore su un SM.79 (chiamato il '79 "con i baffi") ma che fu soltanto sperimentato senza entrare in linea. L'attuale gen. di S. A. Giulio Marini si interessò nel 1943 della questione, potrà quindi darle dati più precisi.
D. Dispone di dati, notizie, disegni del siluro con lancio angolare (Cadringher) e del siluro radiocomandato? Ha rapporti sulle prove? Perché non furono mai usati?
R. Non ci sono disegni o fotografie del siluro con lancio angolare Cadringher. Il siluro era sempre lo stesso, il Cadringher era un traguardo di puntamento da mettere al posto di pilotaggio per il calcolo del triangolo di lancio, ma non venne mai usato.
Il siluro radiocomandato fu inviato col sottoscritto in Sardegna alla fine del 1942 (tre velivoli) per effettuare la sorpresa con l'impiego della nuova arma contro una grossa unità nemica (nave da battaglia o portaerei). Non essendosi trovati tali obiettivi (o fuori del nostro raggio d'azione) per circa una ventina di giorni, i tre velivoli rientrarono a Gorizia.
Sotto la Repubblica Sociale italiana il siluro radiocomandato non fu mai impiegato perché i pochi siluri radiocomandati esistenti furono resi inutilizzabili dopo l'8 settembre affondando in mare a Fiume le parti essenziali. Almeno questo ritengo sia il motivo principale.
D. Può dirci qualcosa sul lancio di siluri paracadutati?
R. Ho effettuato personalmente i primi lanci del siluro munito di paracadute nel giugno e luglio 1943. All'atto dell'impatto in acqua il paracadute si sganciava ed il siluro effettuava la sua
corsa subacquea. Vi erano ancora alcuni particolari tecnici da perfezionare, ma non se ne fece nulla. I siluri scarseggiavano, mancava la benzina ed ogni attività nel mese che precedette l'8 settembre venne molto ridotta.
D. Quando e perché iniziarono le azioni notturne? Per sfuggire all'intercettamento dei caccia? Ma all'aereo non risultava difficile trovare le navi? O queste erano già state individuate preventivamente?
R. Le navi venivano segnalate dalla ricognizione, oppure gli aerosiluranti partivano per le cosiddette « ricognizioni offensive armate, con siluro ». In un primo tempo si fecero solo azioni diurne. Poi, quando gli equipaggi furono ben addestrati per il volo notturno sul mare, si effettuarono ricerche ed attacchi anche di notte. Era naturalmente molto più difficile (sia pure con presenza di luna) scoprire le navi, ma di contro era più facile innanzitutto effettuare la sorpresa; la difesa contraerea era meno efficace e, nei primi tempi, si era anche soggetti ad una minore offesa della caccia, dato tra l'altro che gli Inglesi all'inizio non disponevano che saltuariamente di portaerei nel Mediterraneo. Per la verità si pensò ad utilizzare degli appositi aerei, muniti di radiolocalizzatori, che scoprissero e facessero i necessari rilievi sulle navi nemiche, provvedendo poi al lancio di bengala per «guidare» i velivoli siluranti verso il convoglio ed offrir loro una scena bene illuminata che consentisse il riconoscimento e l'attacco a vista. Ma inspiegabilmente, malgrado le prove convincenti effettuate, non si utilizzarono mai questi aerei, al contrario degli Alleati che ne fecero ampio impiego.
Successivamente le navi inglesi furono equipaggiate di radar e quindi localizzavano i nostri aerosiluranti prima ancora che non fossero a distanza utile di lancio, e ciò anche di notte. I caccia delle portaerei potevano seguire e proteggere in permanenza i convogli e quindi gli attacchi si fecero per noi sempre più onerosi per le perdite si subivano.
Quando verso la fine del 1942 la superiorità aerea nemica (dopo lo sbarco anglo-americano in Algeria) divenne schiacciante, non fu più possibile che tentare azioni di notte subendo spesso ugualmente l'attacco della caccia notturna avversaria a sua volta munita di radiolocalizzatore.
Quando la caccia nemica dominò cieli le perdite maggiori le avemmo proprio da parte sua, dato che i nostri cacciatori, il più delle volte, non potevano scortare gli aerosiluranti che per un breve tratto perché la loro autonomia non lo consentiva e le nostre basi erano molto lontane dagli obiettivi.
D. Esistevano delle analogie nelle tattiche di attacco nostre e degli aerosiluranti delle altre Potenze, ovvero esistevano tattiche diverse, persino sostanzialmente opposte? Vi furono scambi di esperienze tra noi e i nostri alleati? E gli Inglesi ci « insegnarono » qualcosa?
R. I Tedeschi seguivano la nostra tattica di attacco nel Mediterraneo i loro equipaggi vennero addestrali a Gorizia ed a Siena, in parte); degli Inglesi si sa poco. Partivano dalle portaerei dovevano fare percorsi relativamente più brevi dei nostri, tuttavia le tattiche sembrarono simili alle nostre anche se le azioni furono più coordinate dato che i velivoli avevano efficaci mezzi di comunicazione con le navi e fra loro e un sistema di guida caccia da bordo delle navi per dirigere i caccia si sugli obiettivi.
D. Quando iniziò la parabola discendente dell'SM. 79? Furono i suoi limiti e le sue caratteristiche ormai superate, a segnarne il declino o, nel contesto generale, la crescente superiorità numerica del nemico? In altri termini, a parità di circostanze e di rapporti quantitativi, con lo stesso SM. 79 avremmo ottenuto risultati maggiori e perdite minori o ci sarebbe occorso comunque aereo più moderno ed efficiente? Ne avevamo in forza o, almeno, in fasi progetto? Quale avrebbe potuto essere?
R. La parabola discendente iniziò – come già ho fatto cenno – dall’ottobre 1942 per la enorme superiorità avversaria in mezzi di ogni genere e specialmente nel campo aereo. Con aerei più moderni avremmo potuto fare qualcosa di più, ma ormai troppo era la sproporzione nel numero.
Fin dall'inizio del conflitto combatterono ugualmente tutti gli aerei disponibili, pur avendo un'Aeronautica che, depauperata dalle esigenze della guerra etiopica e spagnola, aveva bisogno di rinnovare la linea di volo; ma per questo occorrevano alcuni anni, mentre invece entrammo improvvisamente in guerra nel 1940.
Nel 1940 avevamo tuttavia alcuni prototipi di velivoli che anticipavano le caratteristiche di quelli che sarebbero comparsi poi nel corso del conflitto nelle aeronautiche avversarie ma che per le condizioni artigianali della nostra industria aeronautica, non fu possibile produrre tempestivamente in serie ed in numero adeguato, salvo qualche eccezione e per alcuni velivoli da caccia.
D. Quando, di fatto, ci rendemmo conto che gli Inglesi disponevano di radar? E quando di caccia con radar a bordo? Che provvedimenti di carattere tecnico-tattico fu possibile adottare?
R. Già nel 1941 per le navi inglesi e nel 1942 per i velivoli. Inoltre dopo lo sbarco in Africa Settentrionale degli Alleati era stata creata una rete radar efficientissima lungo tutta la costa.
Gli aerosiluranti pertanto effettuavano tutto il percorso di andata e ritorno di notte e quasi a pelo d'acqua, per non essere intercettati dai radar!!!
le memorie di Giuseppe Cimicchi "Cim"
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